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07 dic 2009

Pensare europeo

di Luciano Caveri

L'Europa è da guardare dritta negli occhi, cercando nella nostra storia il perché dell'europeismo dei valdostani e evitando di cadere nella trappola del qualunquismo che possa alimentare un mugugno vantaggioso per gli Stati. Non è tutto oro quel che luccica, ma spetta a noi batterci per un federalismo in Europa nella traccia di tutti coloro - e sono tanti - hanno operato e scritto anche da noi in favore di questa dimensione sovranazionale che può darci maggiori spazi di libertà a condizione di essere in grado di interloquire e senza metterci la pelle di salame sugli occhi come se l'Europa non fosse già dappertutto nella quotidianità di tutti noi. Sono stato di recente confermato quale membro del "Comitato delle Regioni - CdR", di cui faccio parte dal 2003 con una continuità utile, dopo l'esperienza straordinaria, sotto il profilo umano e politico, al Parlamento europeo.

Questa istituzione europea - una specie di seconda Camera - è stata leggermente valorizzata dal nuovo "Trattato di Lisbona" con una possibilità di ricorso diretto alla Corte europea di Giustizia in caso di violazione del principio di sussidiarietà, cioè se altri soggetti - tipo Commissione o Consiglio - dovessero invadere le competenze regionali o degli enti locali. Situazioni già verificatesi in passato senza all'epoca una possibilità reale e conseguente per il "CdR" di dimostrare la propria vitalità. Un ricorso sarebbe, ad esempio, necessario se giungesse a compimento il progetto che gli Stati hanno, dal 2014, di rinazionalizzare la politica dei fondi strutturali in barba a equilibri ormai ampiamente assestati in favore della democrazia locale. Altro ricorso potrebbe essere deciso se alcuni Stati, tra cui brilla l'Italia, continuassero a rendere difficile la vita a chi vuole creare un "Gect - Gruppo europeo di cooperazione territoriale" in spregio ad un regolamento europeo. Certo un vantaggio per il sistema regionale italiano, derivante dal nuovo Trattato e operativo dal 2014, è l'aumento da ventiquattro a ventinove del numero dei membri del "Comitato delle Regioni" e ciò ci eviterà il rischio, sempre presente, di perdere il seggio come titolari. In assenza di un europarlamentare garantito, il posto al "CdR" per la Valle d'Aosta ha una sua utilità come osservatorio dell'insieme dei provvedimenti in itinere e dei problemi in discussione e per avere conoscenze e amicizie nelle istituzionali e per mantenere e arricchire i contatti con le altre Regioni europee. Certo, il mio lavoro ha senso a due condizioni. La prima è politica, mentre la seconda è culturale. Quella politica inerisce il tasso di impegno dei valdostani e dei loro rappresentanti nei confronti dell'Unione europea come istituzione ma anche per i significati odierni e futuri dell'integrazione europea. Ogni snobismo, disinteresse o peggio ignoranza - come se si trattasse in sostanza di tempo perduto - ci chiuderebbe in una logica sterile e autistica. Ma ciò è peggio ancora se ad un rischio di politica asfittica corrispondesse anche un provincialismo culturale che finirebbe per essere come un ramo secco e senza linfa. Oggi non impegnarsi in Europa vuol dire non esistere. Bearsi in solitudine della nostra autonomia significa chiudersi e chiudersi vuol dire spegnersi, magari nella convinzione di poter - in una sorta di autarchia grigia - fare da soli e dirci fra di noi quanto siamo bravi. Il confronto, lo scontro, il dialogo, la dialettica sono il sale della nostra autonomia come assunzione di responsabilità e coscienza di dover essere e operare in reti vaste e complesse in cui, pur consci della nostra dimensione ma mai accettando che il proporzionalismo ci imponga il silenzio, dare il nostro contributo di idee in un'osmosi "dare-avere". Mai nella mia carriera politica, ma anche nel lavoro, sono stato zitto per disinteresse o opportunismo, quando era utile o necessario esprimersi. Timidezze, cafonerie, discorsi fuori tema o impreparati finiscono per danneggiare la Valle, che deve contare sulla credibilità esterna delle proprie istituzioni autonomiste per non alimentare dicerie e pregiudizi (ricchi, privilegiati, chiusi in sé stessi...) che spesso ci danneggiano.