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29 ago 2021

La damnatio memoriæ e l'Autonomia

di Luciano Caveri

Fra le letture che mi capita di consigliare quando mi chiedono perché bisogna essere federalisti, segnalo sempre un libro profetico contro le logiche del totalitarismo, uscito nel 1949 e scritto da George Orwell. Si tratta di "1984", che si ispirò in parte all'Unione Sovietica di Stalin. Il protagonista lavora al "Ministero della verità", dove le persone "rivedono" la storia, cancellando ogni traccia di coloro che sono caduti in disgrazia presso il Grande Fratello. Era quanto avveniva in Unione Sovietica in quegli anni in cui non solo si facevano secchi i nemici, ma li si cancellava dai libri di storia e persino - con una logica tragicomica - dalle fotografie ufficiali. Anche fascismo e nazismo - ecco l'equidistanza del federalista - facevano le stesse cose con odio verso i "nemici" ed epurazioni verso chi non era in linea con i regimi.

Nulla di nuovo sotto il sole, come racconta Sabina Petroni sul sito "Renovatio Imperii", frutto di un lavoro di giovani storici, nel raccontare dell'Antica Roma: una pratica che dimostra come la cancellazione abbia radici profonde. Così descritte: «L'uomo per natura è portato a fuggire il dolore. Si sceglie di dimenticare, coprire il passato con un velo che, con lo scorrere del tempo, diventa difficile rimuovere. Non sempre avviene consapevolmente: la mente umana dimentica, senza che si abbia veramente deciso di farlo, quasi il solo pensiero fosse insostenibile. L'uomo vuole cancellare non solamente ciò che lui stesso, in quanto singolo individuo, ha compiuto, ma anche tutto il male perpetrato dall'intera umanità, come si sentisse parte di un organismo superiore, quale la specie umana, ed ogni colpa commessa da persone passate ricadesse inesorabilmente su di lui, macchiando la sua anima. Nella Roma Antica, il ricordo della storia aveva un'importanza particolare: ogni uomo agiva "ut nome suum posteritati traditus sit". Così, litri e litri di inchiostro macchiarono pergamene e papiri con l'intento di scrivere "Annales", "Historiæ", "carmina", ed ogni altro singolo componimento che potesse eternare le gesta delle grandi personalità. Tonnellate di marmo furono scolpite per immortalare le imprese di consules, imperatores, dictatores. Tuttavia, non era sufficiente essere imperator, consul o dictator per entrare nel novero dei "magni viri". Roma voleva tramandare ai posteri un'immagine di sé molto precisa: ciò che avrebbe potuto intaccare, scalfire, distruggere questo modello, sarebbe stato dichiarato "damnatum". L'arma che il Senato impugnava contro i nemici, tali o presunti, era la "damnatio memoriæ - condanna della memoria": un'interruzione della linea storica decretata al fine di cancellare la persona, e con essa anche ogni prova della sua esistenza, quali statue, monumenti trionfali, opere, poemi, carmina». Mi fermo qui nella descrizione, che naturalmente è molto più approfondita. Sapete perché ci pensavo? Per una certa assonanza su quanto rischia di avvenire, senza scientificità e spesso solo per sciatteria, rispetto alla storia valdostana contemporanea, specie in quel passaggio di cui siamo ancora protagonisti, iniziata nel secondo dopoguerra e di cui è figlia l'attuale Autonomia speciale. Noto da tempo una sorta di furia iconoclasta di diversa provenienza che mira ad una riscrittura negativa di tutto il percorso dal periodo della Resistenza sino ad oggi attraverso le diverse tappe che hanno forgiato l'Ordinamento valdostano con i suoi protagonisti e le molte vicende degli ultimi ottant'anni. Un'operazione costruita ad hoc e con punte di accanimento di vario genere, che spingono dall'interno e dall'esterno a considerare da buttare tutta la storia più recente, immaginando un percorso sempre in negativo con ombre senza mai luci. Sarebbe ora che queste ricostruzioni partigiane, distorte e malevole, venissero combattute. E bisogna farlo coraggiosamente e avendo ben presente la necessità di non dipingere una Valle d'Aosta rose e fiori, ma neppure l'esatto contrario come fanno molti cultori dell'antivaldostanità. Sono il primo, in senso autocritico, a ritenere che molte cose non abbiano funzionato e che periodicamente si debba avere il coraggio di denunciare malaffare, storture e inefficienza. Bisogna però farlo con convinzione accompagnata da misura e intelligenza, evitando chi invece milita in logiche distruttive che possono seguire calcoli precisi o semplice ignoranza.