Quanti anni sono passati…

“Il solito dubbio: se ricordare o dimenticare, rompere i ponti col passato o scaldarselo in cuore come una serpe.
Gesualdo Bufalino”
Già, è più che legittimo chiederselo e personalmente penso che sia bene scaldarsi con quella parte di memoria che vale la pena di evocare.
Ci pensavo stamattina, perché mi sono goffamente messo a fare dei calcoli, da cui risulta che 45 anni fa di questi tempi cominciai a fare il giornalista, naturalmente in erba.
Ero a Torino per l’Università e il tarlo che mi rodeva, dopo una prima esperienza selvaggia da liceale in una radio libera, era quello che mi ero messo in testa: diventare giornalista.
Mio fratello Alberto aveva organizzato un’audizione a Radio Reporter 93, frizzante radio privata del tempo, con all’ascolto del sottoscritto che si trovò al microfono un plotone di esecuzione.
Il proprietario della radio, Bruno Galetto, purtroppo morto giovane, il direttore artistico, Piero D’Amore, mancato poco tempo fa e il direttore responsabile, Gabriele Isaia e quello amministrativo, Bruno Boveri.
Pur tremebondo qual ero, passai la prova e fui arruolato in questa banda affiatata e divertente, di cui ero la mascotte, confezionando con la bella e brava Luciana Santaroni i notiziari quotidiani.
Esperienza formativa con uno stuolo di DJ di primissimo ordine e grande carriera successiva come Mixo, Maurizio Eynard, Nicola Maria Fioritti e mancai per poco un amico del Liceo, oggi a Radio Montecarlo, Maurizio Di Maggio. La chioccia era il già citato D’Amore, in più pittore artista, che con la sua voce cavernosa e l’aplomb del tombeur de femmes recitava lo slogan “Radio Reporter 93 – La musica più bella del mondo”.
Che bello ripensarci e quanto mi piacerebbe una macchina del tempo per rientrare in quegli studi pieni di vita e con quei programmi in diretta che davano il senso pulsante di una radio privata che profumava di libertà e di ingegno.
Se misuro il tempo passato mi sento vecchio come il cucco. Sono convinto, però, che è proprio il depositarsi delle esperienze, in una logica di stratificazione di conoscenze e di opportunità, che forgia la nostra personalità.
Certo bisogna avere fortuna e io l’ho avuta, vivendo quell’epoca di liberalizzazione dell’etere, che consentiva anche a noi giovanissimi di esprimerci e di fare esperienza, bruciando le tappe. Una stagione unica e irripetibile, per alcuni versi simile a certi aspetti innovativi e liberatori del Web e dei suoi possibili impieghi che ormai si affollano attraverso le loro plurime possibilità di utilizzo.
Se qualcosa ho capito e fatta salva la possibilità che ebbi di sfruttare delle chances, bisogna - quando capita l’occasione - di buttarsi a pesce, senza troppi tentennamenti e darsi da fare sino in fondo, quando arriva il momento. Ho avuto una storia simile, anni dopo, per l’ingresso in politica e anche allora il tuffo nell’avventura si prospettava molto rischioso.
Caro Luciano,
come mi piacerebbe, anche solo per una manciata di minuti, incontrare quel me stesso, chiuso nello studio, dietro il vetro con un grosso microfono direzionale di fronte a me con il cuore in tumulto di fronte ad una prova che pareva un esame. Certi momenti di strizza servono a crescere.

Sorrisi per Los Angeles

In un’altra vita, ma per ora mi accontento di questa, mi sarebbe piaciuto vivere a Los Angeles, città – o meglio una matrioska di città – che mi ha molto impressionato, confermandomi alcune cose, nel solco di un pezzo della mia vacanza negli Stati Uniti.  Commentava un mio amico che ogni cinque anni bisognerebbe andare in America non solo perché precorre spesso i tempi e cavalca le novità, ma perché alla fine si apprezza molto, per contrasto, la nostra identità europea e un certo modo di vivere.
Sarà, come ho studiato nel Giurassico all’Università, che la storia degli States è stata, sin dai navigatori che la “scoprirono”, una sorta di arrembaggio a detrimento dei poveri popoli nativi, invasi dagli europei, a loro volta “invasi” da altri flussi migratori, che scorrono sempre e ancora. Per cui usare il termine “americano” sarebbe riduttivo, meglio il plurale “americani”, che rende conto della complessità di convivenze diverse in un crogiolo da cui sortisce, tuttavia, un sentimento nazionale contradditorio ma unificante.
Los Angeles – e la cosa impressiona – è di fatto un set cinematografico e televisivo. Certo ci sono gli studios, dove si girano i diversi prodotti, ma poi, nel tour della città, scopri come palazzi vari e case singole siano state lo scenario di mille prodotti che abbiamo visto sullo schermo piccolo o grande. Impressiona, parlando con l’ottima guida che ci ha accompagnato in giro, come la nostra cultura di visitatori occasionali sia impregnata di “americanite” e questo lo si vede dalla capacità di ricordare film o serie - per non dire delle canzoni! - che hanno fatto parte della nostra vita. Aggiungerei, durante il giro delle ville di Beverly Hills, il potere evocatore dei loro proprietari: attrici, attori, registi, cantanti e altri protagonisti dello star system. Lo stesso vale per l’infinito elenco di stelle sui marciapiedi di Hollywood Boulevard, da cui si vede la nota ed enorme scritta iconica.
Ma Los Angeles è anche il mare: Malibù, Santa Monica, Venise Beach con porti e spiagge talmente visti in così tanti modi da risultare luoghi familiari e farti sentire protagonista di chissà quali storie.
Ha scritto il regista David Lynch: “Amo Los Angeles. So che tantissime persone, visitandola, vedono soltanto un'immensa distesa di monotono disordine. Se ti fermi per un po', invece, ti rendi conto che ogni quartiere ha una propria atmosfera. A Los Angeles l'età d'oro del cinema è ancora viva, nel profumo notturno dei gelsomini e nel clima mite. La luce poi è una fonte di ispirazione e di energia. Perfino con l'inquinamento, possiede un non so che di vivido e di caldo, non è violenta. Mi infonde la sensazione che tutto sia possibile. Non so perché. È diversa dalla luce di altri luoghi”.
Già, la luce e questo mi fa tornare ragazzo, quando imparavo i rudimenti della televisione, e scoprivo questa ovvietà e cioè di come la luce faccia parte della magia in movimento e ne sia un elemento essenziale.
Ma ovviamente al chiaro si contrappone lo scuro e ne scrisse, con la penna straordinaria che la contraddistingueva, Oriana Fallaci: “Come tutti i luoghi nati dalla speculazione, alimentati dal troppo denaro e abitati da gente che ieri non aveva nulla e oggi ha tutto, Hollywood è dunque la più strana tra le combinazioni di contrasti. Stupida e geniale, corrotta e puritana, divertente e noiosa”.
La mia prima tappa era stata San Francisco, anch’essa con i suoi saliscendi e il profilo dell’isola di Alcatraz, luogo visto e rivisto negli anni attraverso la TV ed è, almeno nella mia esperienza epidermica, espressione di una certa decadenza. La si vede in modo fisico dagli homeless (senzatetto) che invadono, anche in modo violento il centro città. O dai racconti della nostra guida, quando evoca l’elenco delle droghe nuove, quelle sintetiche, che avvelenano le giovani generazioni.
Contraddizioni, anche in questo caso e si alternano così miseria e nobiltà tra case grigie e informi contrapposte a quei quartieri à la page con quel verde e quei fiori che fanno così California.
Ha scritto non a caso Federico Rampini sul Corriere: ”Questa è la storia di una città dove un’insegna luminosa di Elon Musk che infastidisce gli abitanti viene immediatamente rimossa dalle autorità. Ma gli spacciatori di fentanyl, i rapinatori, o gli homeless che aggrediscono i passanti e defecano davanti ai negozi godono dell’impunità più totale. La città, naturalmente, è San Francisco: una ex-perla che si avvolge in una spirale di degrado di cui non s’intravvede la fine”.
Lì non ci abiterei.

Oppenheimer e la bomba atomica

Sono andato al cinema e ho seguito con attenzione e partecipazione emotiva le tre ore filate di “Oppenheimer”, l’ultimo film di Christopher Nolan. Questa volta mi ero documentato bene, comprando il libro da 1200 pagine di Ray Monk, intitolato “Robert Oppenheimer-l’uomo che inventò l’Atomica” e, a complemento, leggendo un’altra biografia di uno dei protagonisti di quegli anni e del progetto della bomba, scritto da David N. Schwartz su Enrico Fermi, altro tomo da 500 pagine. Fermi nel film appare in un breve passaggio, quando scherza prima della prova decisiva sul funzionamento della bomba rispetto ad un’ipotesi, rivelatasi infondata dai calcoli effettuati, che bastasse una sola esplosione per far scomparire la Terra.
Mentre il film ha, per ovvie ragioni, dovuto scegliere un fil rouge narrativo assai divulgativo e facendo scelte che non potevano essere troppo minuziose, il libro sul fisico americano – così come il libro su Fermi e sulla sua scuola romana, prima della sua scelta di andare negli Stati Uniti – non solo traccia il percorso umano e professionale dell’autore, ma ricostruisce quello scenario interessantissimo di rapporti fra scienziati di tutto il mondo negli anni precedenti la Seconda guerra mondiale e durante il conflitto. Una serie di personalità straordinarie, in una fitta rete di successi scientifici e di scoperte nel campo della Fisica che rivoluzionarono questa branca della conoscenza umana. Il tutto, alla fine, legato alla costruzione e all’uso sul Giappone della bomba atomica in un crescendo che il film esalta. Raccontando poi la parabola personale di Oppenheimer che da coordinatore del progetto che portò alla bomba e come tale esaltato come eroe americano si trovò poi nel dopoguerra vittima delle persecuzioni ideologiche del maccartismo con l’accusa ridicola di essere spia dei sovietici.
I libri hanno un versante assai difficile come piena comprensione per me, ripreso solo in termini suggestivi nel film, che riguarda il puzzle di ricerche che tra successi ed insuccessi porta verso la Fisica moderna ad una vera e propria rivoluzione, che ha però componenti tecniche non sempre semplici da comprendere. Tutto ciò in una logica cosmopolita che sposta ad un certo punto la ricerca mondiale dall’Europa agli Stati Uniti per via della progressiva fuga di ricercatori illustri del Vecchio Continente sulla spinta del nazismo, che aveva nel mirino le minoranze ebraiche perseguitate con le leggi razziali.
Ma torniamo ad Oppenheimer, personalità contradditoria, di grande levatura culturale, con diversi complessi che pesavano sui suoi comportamenti, che sfociano infine in questo ruolo motore a Los Alamos nel New Messico, dove sorge il laboratorio, fra scienza e forze armate, che insegue la bomba atomica in una competizione a distanza con i nazisti, popanch’essi all’opra su queta arma letale. Ce la faranno gli americani, ma la bomba verrà adoperata per chiudere la guerra con il Giappone, evitando rischi e perdite causate dell’invasione dell’isola. Ma la scoperta – e la consapevolezza emerge ancora prima del primo scoppio – scuote la coscienza di molti e fra questi dello stesso Oppenheimer, ben conscio subito e nel periodo successivo dell’equilibrio del terrore che abbiamo vissuto durante la “Guerra fredda” e che ancora oggi, a distanza di tanti anni, pesa come una terribile minaccia sul futuro dell’umanità.
Interessante quando Oppenheimer incontra alla Casa Bianca il presidente degli Stati Uniti Harry Truman. Oppenheimer disse davvero a Truman di sentirsi «le mani sporche di sangue». Il presidente disse ai suoi collaboratori: «non portate più quel piagnone nel mio ufficio». Insomma, non serviva più e un’ombra si allungò su di lui per il rifiuto di lavorare sulla bomba ad idrogeno.
Il film ripristina il suo ruolo e lo fa senza eccessi agiografici, restituendo – specie in una scena inventata di un incontro con Albert Einstein, che avvenne invece in altre circostanze – la figura di un uomo che, grazie ad un vasto staff, ha segnato un passaggio forte nella storia dell’umanità. Da allora nulla è più stato come prima. Oppenheimer morì nel 1967 soli 62 anni per un cancro alla gola e le sue ceneri vennero disperse nel mare delle Isole Vergini. Fermi, uomo decisivo per le sue ricerche, morì nel 1954 a 53 per un cancro causato assai probabilmente delle molte manipolazioni di materiale radioattivo.
In un suo celebre discorso nel 1947 disse e indicò una strada: ”La professione del ricercatore deve tornare alla sua tradizione di ricerca per l'amore di scoprire nuove verità, dato che in tutte le direzioni siamo circondati dall'ignoto e la vocazione dell'uomo di scienza è di spostare in avanti le frontiere della nostra conoscenza in tutte le direzioni, non solo in quelle che promettono più immediati compensi o applausi”.

Le scelte sul Casinò de la Vallée

Leggo con soddisfazione dei buoni risultati del Casino de la Vallée di Saint-Vincent. Carta canta e i numeri non sono, per fortuna, fantasie. Quando, a inizio della legislatura regionale attuale, ebbi la responsabilità sulle Partecipate, mi trovai nelle mani questo dossier delicato. La Casa da gioco, gallina dalle uova d’oro per decenni dal 1947, era nei guai. Nel senso, molto concreto, di un rischio fallimento in un momento nel quale la politica era scossa da un’inchiesta della Corte dei Conti sui finanziamenti regionali dati al Casinò, con riflessi anche penali, che aveva messo sulla graticola molti politici valdostani e amministratori della società. Tutte vicende, umanamente dolorose per chi ci cadde dentro, che in una esemplare sentenza della Corte Costituzionale e nelle sentenze dei Tribunali si sono sciolte come neve al sole. Con il solito meccanismo giornalistico della gogna mediatica con titoloni accusatori, che sono finiti come notiziuola al chiudersi in positivo delle diverse vicende intrecciate fra di loro.
Ma, in quei momenti, non si poteva prevedere questo esito e così il Casino era avvolto, con mia angoscia personale dovendomene occupare camminando sulle uova, da una specie di fatwa e chi aveva in mano la patata bollente era visto con una certa commiserazione e con una sua evidente solitudine, resa ancora più acuta da due problemi. Il primo: alcuni ritardi nella procedura per l’ottenimento del concordato. Il secondo: il rischio che i conti tornassero nella ripresa dell’attività, colpita in più dalle chiusure per la pandemia e sub iudice anche per i molti interrogativi sulla tenuta dei giochi e sulla loro redditività.
Alla fine, come le tempeste precedenti avevano rischiato l’affondamento della nave in un clima non bello in cui pesarono le bugie di chi governò fingendo che tutto andasse bene (venni persino indicato come la Cassandra di turno quando esprimevo le mie preoccupazioni), la ripresa ancora in atto ha creato il necessario clima di serenità. Non sempre facile, perché il Casinò è luogo di sussurri e grida con risonanze sulla Politica che amplifica le notizie interne all’azienda, creando troppo spesso inutili fibrillazioni, sapendo ovviamente che tutto in un’attività così atipica come il gioco è migliorabile e ci possono essere scelte condivisibili o meno. È legittimo ed è un bene discuterne, evitando però polemiche inutili e non sempre ascoltando pettegolezzi e malevolenze che escono, nuocendo alla necessità di remare tutti dalla stessa parte.
Ciò detto, ora bisogna guardare avanti e lo dico non avendo più responsabilità dirette sul dossier, che però per uscire definitivamente dal tunnel - ormai la scadenza del concordato è nel 2024 - va gestito in modo condiviso per assicurare il futuro ad un’attività che resta singolare (in Italia ci sono solo quattro Casinò) e foriera di vantaggi per la comunità.
Bene è stato fatto - e io lo indicai negli strumenti di programmazione - predisporre uno studio serio sul futuro della Casa da gioco che permetta ai politici di decidere bene dove andare. Il grande bivio è fra gestione pubblica o subentro dei privati, ricordando come la concessione resta pur sempre regionale e bisogna svecchiare i giochi e aiutare Saint-Vincent a diventare luogo di spettacolo e di divertimento a sostegno dell’attività di gioco.
Personalmente credo che, stabilizzata la situazione e consci della necessità di investimenti di vario genere sia - come dicevo - nella parte giochi che in quella alberghiera, l’idea di una gestione privata - solidamente controllata e regolamentata - possa essere una buona scelta. La si deve studiare in fretta, perché i tempi di realizzazione non sono brevi e sarebbe nociva una stagnazione.

L’auto senza conduttore e quella volante

Arrivo a San Francisco, prima tappa di un giro negli States, e salgo su di una navetta per il tragitto verso il centro. Il gentilissimo autista al primo semaforo ci mostra, affiancato al nostro pulmino, un taxi senza conducente a guida autonoma, ormai pienamente autorizzato proprio a partire da poche ore prima.
Poi, nel traffico, incontriamo altre auto simili, chiamate robotaxi e riconoscibili non solo perché nessuna ha un guidatore, ma anche per un insieme complesso di strumentazioni sul tetto dell’auto. Ad autorizzare è stata la Commissione dei servizi pubblici della California, che si è divisa sulla scelta con 3 membri che hanno votato a favore, uno contro, il terzo era assente. Sono due società, Waymo e Cruise, a girare per la città californiana, caricando clienti per portarli dove desiderano. Erano diversi mesi che le due società sperimentavano il servizio, in forma gratuita e con limiti su aree e orari, con 500 auto in circolazione. Ora possono operare a pagamento e senza limiti.
Da notare che nei giorni prima per protesta alcuni militanti di Safe Street Rebel, un gruppo che difende la sicurezza dei pedoni e la riduzione del numero di auto in città, avevano bloccato le vetture con
un cono spartitraffico sopra il cofano per disattivarli questo taxi senza guidatore. Luddisti…
Tra breve vedremo auto di questo genere anche in Europa e chissà cosa faranno i taxisti in Italia, dove sono una lobby potentissima e lo si è visto con le polemiche su Uber, che ha tra l’altro la propria sede centrale nella stessa San Francisco. E la
mia recente esperienza americana mi ha permesso di vedere come taxi e Uber (ma ci sono altri operatori simili) possono convivere senza le polemiche italiane.
Ma la guida autonoma (ho un amico valdobelga che con la sua Tesla non tocca il volante nella tratta Bruxelles-Aosta!) non è in verità la grande rivoluzione cui personalmente aspiravo da bambino, visto che mi avevano convinto che da grande avrei visto le attese e famose auto volanti. Per altro, già grandicello, mi beavo di fantasie con mezzi sfreccianti nel cielo da Blade Runner ad altri film di fantascienza.
Ho letto su Focus: “Il futuro dell'auto volante potrebbe essere stato definitivamente riscritto lo scorso 12 giugno, quando la Federal Aviation Administration, l'ente statunitense che regola il trasporto aereo, ha concesso il certificato speciale di idoneità al volo alla Model A, l'auto volante realizzata dalla Alef Aeronautics.
Per ora la vettura, o il velivolo, potrà volare in spazi delimitati per scopi dimostrativi o di ricerca. Insomma, il Governo degli Stati Uniti crede nel progetto e ha deciso quindi di agevolarne lo sviluppo”.
Ma la novità, anche se dubito, potrebbe emergere con le Olimpiadi di Parigi del prossimo anno. L’azienda tedesca Volocopter, infatti, si è data l’obiettivo di inaugurare entro l’inizio dei Giochi della XXXIII Olimpiade un mezzo di trasporto innovativo che da una parte promette di essere perfettamente ecologico, dall’altra si impone di liberare le strade da una parte del traffico veicolare. Insomma, uno strumento che rivoluzionerà la mobilità.
Se i piani della Volocopter verranno rispettati, nell’estate del prossimo anno si potranno raggiungere le sedi delle gare e il villaggio olimpico utilizzando velivoli elettrici a decollo verticale. La stessa azienda assicurava, tempo fa, con un test di pochi minuti il collegamento a breve fra l’aeroporto di Fiumicino e Roma.
Temo che sia una trovata pubblicitaria e lo scrivo con dispiacere, perché mi toccherà ancora aspettare affinché un sogno infantile si realizzi: volare con una vettura.

Las Vegas>Saint-Vincent

Sono stato a Las Vegas e devo dire che non ci vuole molto a capire l’aria che tira. Ritengo, tuttavia, che aver visto con i miei occhi, quanto avevo letto su questa città del gioco e quanto avevo visto in film e documentari, mi conforta in un primo pensiero.
Anni fa, io non ero eletto all’epoca, pare che fossero venuti degli americani interessati al Casino de la Vallée di Saint-Vincent. In testa avevano - è così mi dicono si fossero presentati - l’idea di fare della Casa da gioco o meglio del paese che la ospita dal 1947 una piccola Las Vegas.
Già all’epoca qualche dubbio mi era venuto ed ora - dopo la visita - quei dubbi sono stati del tutto confermati.
Prendo a prestito una breve storia di questa capitale del gioco da un sito che si chiama scoprilasvegas: ”Las Vegas si trova nel deserto di Mojave, in un'area con delle zone umide, che l'esploratore spagnolo Antonio Armijo scoprì nel 1829, denominandola Las Vegas. La zona era abitata dagli indiani Paiutes. I primi bianchi ad insediarsi furono i mormoni nel 1855, data in cui entrò a far parte degli Stati Uniti, poiché fino ad allora apparteneva al Massico.
Nel 1864 l'esercito costruì il Forte Baker dando impulso all'insediamento della popolazione. Soltanto dal 15 maggio 1905 con la costruzione della ferrovia, nacque la città di Las Vegas.
Nel 1900, le sorgenti che bagnavano le zone umide e che avevano dato origine al suo nome permisero lo stanziamento di popolazioni intorno al Forte, fornendo l'acqua ai treni che viaggiavano fra Los Angeles e Albuquerque.
Con la legalizzazione del gioco nel 1931 ebbe inizio l'espansione di Las Vegas. Nel 1941, s'iniziarono a costruire dei grandi hotel con casinò. I primi furono "El Rancho Las Vegas" e "La Última Frontera". Si sa che alcuni dei primi investitori erano dei membri della crimitalità organizzata; El Flamingo, il primo grande hotel e uno dei più emblematici, fu fatto costruite dal gangster Bugsy Siegel”.
Da lì in poi l’incredibile espansione, trasformando una zona desertica in un’attrazione, ed oggi i suoi abitanti sono 650mila e la folla per le strade e soprattutto negli alberghi-casino è da capogiro. Il solo albergo senza casa da gioco è quello costruito da Trump, perché all’epoca aveva problemi di solvibilità…
Oggi è tutto un luccichio, uno sfarzo, un’esibizione del kitsch con monumenti farlocchi e miriadi di negozi di grandi firme e la solita panoplia del food americano. Per strada vengono dati i bigliettini da visita dei bordelli (per questo viene chiamata ”Sin City”, ”Città del peccato”) e di luoghi balzani dove ci si può sposare in vari modi, trascrivendo o no il matrimonio.
Nel tempo al solo gioco si è aggiunto un insieme ricchissimo di spettacoli. Io sono andato a vedere quello di David Copperfield, un mago - ormai non più giovanissimo - che vedevo in televisione con trucchi che ancora oggi resistono e in teatro sono ancora più impressionanti a vantaggio di un pubblico cosmopolita. Teatro situato - per capire il gigantismo - nel più grande hotel negli Stati Uniti con 5.044 camere, l’MGM Grand Las Vegas, hotel casinò e resort situato al 3799 di Las Vegas Boulevard South sulla celebre strada chiamata Las Vegas Strip, che è uno spettacolo percorrere. Anche se in verità certe ostentazioni mettono alla fine una vaga tristezza.
Ora stanno diversificando ancora, puntando sullo sport in strutture mirabolanti: dal baseball al pugilato, dall’hockey alle gare di corsa automobilistica (arriva a Novembre la Formula 1), dal calcio al football americano. Insomma: attrarre giocatori potenziali o anche semplici turisti con spettacoli sportivi di gran livello.
Ecco perché dalla breve descrizione che vi ho proposto immaginare una Las Vegas a Saint-Vincent sarebbe stato di fatto una pura fantasia. Resta, però, un insegnamento e cioè la capacità di differenziare l’offerta e di non cadere nella trappola di proporre il solo gioco d’azzardo.

Trasporti attraverso le Alpi, vecchia storia

Vedo molti sapientoni in azione sul dossier traforo del Monte Bianco e degli altri valichi con la Francia. Sono contento che se ne parli e sono triste che siano in pochi a farlo con cognizione di causa e sono stizzito che alcuni lo facciano seguendo solo l’emotività per cavalcare il problema, pur mancando degli elementi fondamentali per poterne discutere seriamente. Ma speriamo di cavarcela, aspettando scenari sul breve e lungo periodo. Resta un sorriso mesto leggendo comunicato di chi si ascrive meriti che non hanno.!
Ma veniamo a cose serie. Quando ero deputato, precorrendo una discussione che ora si fa calda per le difficoltà emergenti dalla fragilità del sistema viario, sia sul nostro asse che verso il Brennero (con gli austriaci che contingentano i Tir, che così stazionano sull’Autobrennero in quelle lunghe code che occupano l’autostrada), avevo predisposto con i colleghi sudtirolesi una leggina semplice semplice, che riguarda una logica per evitare troppi camion nelle diverse direttrici presenti e future. Ciò avvenne alla luce del tragico rogo nel traforo del Bianco e dunque la proposta di regolamentazione venne presentata nel 1999 e mantiene una sua freschezza. Scrivevo nella relazione: “Ormai da molti anni si lamenta, in Italia, una cattiva distribuzione dei trasporti fra gomma e rotaia. Stenta, purtroppo, ad avviarsi il necessario riequilibrio fra queste due tipologie di trasporto in buona parte antagoniste e che, dati alla mano, vedono la strada palesemente in testa. Le conseguenze del fenomeno descritto sono visibili nel numero impressionante di mezzi pesanti (noti come TIR) lungo tutta la rete viabile e ciò si manifesta in particolare attraverso gli assi nord-sud di attraversamento delle Alpi. Sono ben note le "punte" che rendono ormai quasi ordinario il formarsi di ingorghi lungo le strade di accesso ai trafori stradali alpini e ad alcune frontiere e l'attuale rallentamento nell'avvio di nuove direttrici ferroviarie, sommato all'enorme aumento previsto nel traffico merci, pone il problema di una compatibilità fra protezione dell'ambiente e sicurezza stradale e il rischio di un moltiplicarsi selvaggio del traffico nel nome della libera circolazione delle merci. Un'esigenza, quella della mobilità delle merci in Europa, condivisibile, che va però armonizzata pur nella logica importante dell'integrazione europea con la tutela di zone "sensibili" e tutelate quali sono le Alpi. Il dramma del traforo del Monte Bianco del 24 marzo 1999, con il suo tragico bilancio di vittime, ha scosso l'opinione pubblica e riproposto il tema del trasporto in zona alpina anche per il livello di insostenibile saturazione che oggi si registra al traforo del Frejus. Si manifesta in questo caso una forte mobilitazione delle popolazioni locali contro il traffico pesante, cui non si può non dare risposta nel nome di elementari princìpi democratici. Da questa esigenza, che tiene in considerazione anche casi di incrementi impressionanti di traffico come avviene al Brennero, nasce la presente proposta di legge, che va considerata come un contributo al dibattito in corso, perfettibile e modificabile nel suo iter parlamentare. Si tratta del primo tentativo di trovare una soluzione legislativa all'esigenza di ridurre e, in prospettiva, di azzerare il trasporto delle merci su gomma su lunghe distanze, sapendo come questo sia un risultato da raggiungere nel tempo e con ragionevolezza in connessione con i necessari investimenti ferroviari”.
In quegli anni si riteneva che le direttrici ferroviarie, quella del Brennero e quella fra Torino e Lione, sarebbero state realizzate in fretta, mentre così non è stato, anche se la prima sta avanzando abbasta celermente, mentre la seconda – evocata come panacea che verrà – ha spostato la sua apertura a metà degli anni Trenta e dunque abbiamo molti anni di attesa di cui tenere conto. Tra l’altro e purtroppo il trasporto merci su treno è stato mitizzato, perché lo spostamento da Tir a rotaia non appare più così sicuro e automatico, persino nel rigido modello svizzero.
Questo è, invece, il testo della proposta di legge in un solo articolo:
“1. Per motivi di protezione ambientale, di sicurezza stradale, nonché difficoltà del traffico, il Governo, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, d'intesa con le regioni e con le province autonome interessate, propone ai singoli Stati contraenti la modifica di ciascuna delle convenzioni alla base dell'esercizio dei trafori stradali alpini e predispone apposite misure, con le stesse modalità di cui al presente comma, alle frontiere di terra in zona alpina a traffico pesante intenso.
2.Nelle modifiche e nelle misure di cui al comma 1 deve essere prevista la predisposizione, per ciascun traforo o frontiera di terra, di un piano del traffico e dei transiti che contenga espliciti divieti per i mezzi o per le merci trasportate ritenuti pericolosi o inquinanti e deve essere altresì fissato, con il criterio di una progressiva riduzione del trasporto su gomma su lunghe distanze, sino al suo completo trasferimento su rotaia, un contingentamento giornaliero a scalare del numero dei mezzi pesanti nelle 24 ore, secondo le stagioni e nel rispetto di maggiori limitazioni già esistenti. Riduzioni ulteriori del numero massimo dei mezzi pesanti ovvero il blocco totale del traffico pesante possono essere decisi temporaneamente, con apposito atto amministrativo del presidente della giunta regionale o provinciale interessata, in caso di necessità ed urgenza.
3.Con decreti del Ministro dei trasporti e della navigazione, di concerto con il Ministro dei lavori pubblici, d'intesa con le regioni e con le province autonome interessate, sono previste misure analoghe a quelle di cui al comma 2 in territorio italiano lungo le direttrici stradali di accesso ai medesimi trafori o alle frontiere di terra anche a integrazione o modificazione delle concessioni”.
Certo il testo andrebbe aggiornato, ma credo che i ragionamento sottesi siano ancora tutti utili.

Aeroporti

Non c’è luogo fisico che sia così esemplificativo della modernità come avviene oggi con gli aeroporti, dove si incontrano ormai - in tempi di globalizzazione - persone diverse e popolazioni le più varie, ciascuna con il proprio bagaglio. Non solo le valigie che i viaggiatori si portano dietro, ma quel bagaglio culturale e di esperienze che ciascuno di noi rappresenta con tutto ciò che ci rende singolari.
Si può star lì a guardare come assistere ad una rappresentazione e lo si può fare, stando fermi in un punto qualunque ad osservare folle in movimento o in statica attesa dell’atteso decollo.
Può essere che in passato fossero i porti marittimi qualcosa di molto simile. Ogni volta che mi capita l’occasione cito la mia viva impressione per Ellis Island: un isolotto di appena un quarto di chilometro quadrato, situato nella baia di New York. Dal 1892 al 1954, anno della sua chiusura, in questa macchina di accoglienza e si respingimenti passarono 12 milioni di persone.
Essere spinti dalla curiosità in certi casi non è affatto un male e lo spirito di osservazione è un elemento arricchente per chiunque. Il viaggio, corto o lungo che sia fa parte della natura umana. Viaggio viene viene dall'occitano "viatge" che deriva a sua volta da "viatĭcu(m), l'occorrente per il viaggio", legato all'aggettivo "viatĭcus, relativo alla via, al viaggio" da cui arriva anche la parola "viatico" collegato a via "strada; cammino".
Sugli aeroporti ha ragione Bill Gates: ”I fratelli Wright hanno creato la più grande forza culturale dopo l’invenzione della scrittura. L’aereo è diventato il primo World Wide Web, che avvicina persone, linguaggi, idee e valori”.
Dopo il gelo della pandemia, tutto è ripartito e sono felice di far parte di un’epoca in cui muoversi è diventato più agevole. Sarà pur vero che sembra passato quel periodo nel quale nel mondo ci sia poteva muovere di più, perché oggi molte mete sono diventate purtroppo off-limits. Prima di partire per certi Paesi sono sempre andato a vedere quel Sito della Farnesina con cui i attraverso la rete diplomatica il Ministero degli Affari esteri (ma sono interessanti anche per accuratezza i consigli del servizio simile francese e di quello svizzero) indicano Paesi o zone di Paesi da evitare per pericoli vari.
Sono reduce da un tour che mi ha consentito di vedere diversi aeroporti e devo dire che, specie nei grandi hub, ormai il gigantismo è di casa.
Non solo si dilatano a dismisura, ma cresce in modo impressionante lo spazio commerciale da outlet e le lunghezze di percorrenza per arrivare alle “uscite” obbligano ad autentiche maratone.
Per me gli aeroporti di riferimento sono sempre stati e lo sono ancora in parte Torino Caselle, Fiumicino, Malpensa e anche Ginevra. Ho visto aeroporti monstre come Parigi, Zurigo, Monaco di Baviera, Londra, Amsterdam. Di recente sono passato a San Francisco, Denver e Newark (ero già stato a JFK di New York). Ma ho avuto la fortuna di vedere aeroporti piccoli sia nelle isole che nelle zone di montagna. Massimo dei brividi l’atterraggio nell’aeroporto delle isole Fær Øer.
Resto convinto che per il nostro aeroporto Corrado Gex di Saint-Christophe ci siano spazi di sviluppo interessanti per nicchie di mercato. Sapendo che la forza di un piccolo scalo sta nella multidisciplinarietà nel suo utilizzo e dunque i voli commerciali si aggiungono alle altre attività.

Sui transiti alpini il silenzio europeo

La tempesta perfetta si abbatte sui trafori alpini e sulle altre vie di comunicazione fra Italia e Francia. Per il Caso che spesso imperversa, a complicare questioni già intricate da sole, si blocca il Fréjus per le conseguenze del maltempo lato francese e si preannuncia la già nota chiusura di tre mesi del Monte Bianco per lavori indispensabili e dunque non frutto di chissà quale capriccio. Ma, aspettando che questo avvenga con le giuste preoccupazioni del caso che ci sia o non un rinvio della chiusura poco conta, il blocco del tunnel piemontese ha creato problemi di circolazione seri sulla rete autostradale del Nord Ovest. Era necessario regolare i flussi di camion e la conseguenza sono state intasamenti e code che hanno creato problemi seri. Questo ha comportato, per essere concreti, la deviazione del trasporto pesante anche su Ventimiglia - terzo valico con la Francia - che già ha i suoi problemi di intasamento nell’ordinarietà.
Protagonisti, come sempre, sono proprio i TIR che restano i player indiscussi della rete del trasporto merci in Italia e in Europa. Non raccontiamoci storie sul trasporto merci su rotaia, specie nella nostra area alpina, sapendo i ritardi che spostano a metà degli anni Trenta (forse ancora più in là) l’apertura della nuova ferrovia fra Torino e Lione.
Non tornerò sulle polemiche sul raddoppio del Monte Bianco e sulle altre possibilità costruttive lungo lo stesso asse. È ovvio che per ora mancano accordi con i francesi e si viaggia sul “si dice” e non ripeterò la solita solfa, perché mi pare che non serva a niente, se non a creare inutili polemiche o speciose contrapposizioni. Quel che conta è che se ne discuta e si decida,sapendo anche quali siano nella partita gli interessi - comprese le contropartite - da salvaguardare per noi valdostani.
Quel che manca è il dialogo Italia-Francia che deve avvenire ai vertici delle rispettive istituzioni nazionali per fare poi ratificare le scelte dai Parlamenti rispettivi. Questo non vuol dire che le popolazioni locali siano carta da parati e le Regioni e Comuni interessati carne da cannone. Lo scrivo perché se la vicenda TAV ha preso la piega protestataria con infiltrazioni estremistiche è perché si sono volute calare le decisioni dall’alto.
Ma chi manca nelle vicende di questi mesi, perché i problemi che oggi emergono erano ben prevedibili, è l’Unione europea, cui spetterebbe la strategia sugli assi europei e dunque il compito di riunire tutti per avere prospettive certe e scelte pianificate per uscire dai bla bla, compresi i miei.
Partendo dal presupposto che le scelte da fare sono complesse e non banalizzabili. I ritardi accumulati nelle decisioni non consentono l’uso della bacchetta magica.

Spunti dagli States

Racconterò nel tempo a spizzichi e a bocconi del mio viaggio nel Sud Ovest degli Stati Uniti con puntata successiva alle Havaii, che termina in queste ore. Non ne ho scritto in corso d’opera, perché ritengo di non avere le capacità di analisi e le conoscenze per essere all’altezza di chi in passato ha scritto cronache di viaggio di grande spessore su questo Paese così vario e complesso. Penso, quindi, che sia più logico da parte mia e forse interessante per chi mi legge legare alcuni pensieri a spunti provenienti dalla cronaca.
Con una sottolineatura valida per tutto quello che ho visto e cioè di come la personalità di generazioni come la mia siano state in Italia e in Europa fortemente influenzate dalla cultura, dalle tendenze, dalla tecnologia e da mille altre cose proveniente dagli States ed è un elemento forse scontato che emerge con maggior chiarezza nell’incontro con le persone e nella visita dei luoghi.
Pensavo alla Fede e cioè a questa necessità di religione, così in abbandono da noi e che invece nel crogiolo americano tiene. Penso ai discorsi drammatici in certi casi dei Presidenti americani con quel “Dio salvi l’America”, impensabile nelle democrazie europee.
Penso a Page, piccolo paese dell’Arizona, vicino a diversi canyon e dunque luogo di soggiorno per turisti, a suo tempo valorizzato come sede per i lavoratori durante la costruzione della grande diga sul fiume Colorado.
Lungo la via principale ci sono in fila ben dodici chiese, tutte cristiane, ma di diverse confessioni, con una percentuale da capogiro, pensando ai soli 7000 abitanti del paese. Ricordo che il 70% della popolazione statunitense è cristiana. Gli evangelici sono il primo gruppo religioso (25%) in un paese in cui i protestanti sono più dei cattolici (rispettivamente 46,6% e 20,8%, compreso l’1,6% dei mormoni). Gli ebrei sono appena l’1,9% della popolazione; ciascuna delle altre fedi non cristiane è professata da meno dell’1% della popolazione – nel caso dell’islam, lo 0,9%. La più famosa delle fedi riconosciute - ovviamente beffarda - è il pastafarianesimo ed è nata in Kansas per protestare contro l'insegnamento del creazionismo nelle scuole. I suoi adepti sostengono che il mondo sia stato creato dal Flying Spaghetti Monster, una divinità somigliante a un piatto di spaghetti con le polpette.
Lo spunto di cronaca, che dunque non stupisce, lo esamina sul Foglio
Matteo Matzuzzi, raccontando di “Text with Jesus”, app dell’azienda Catloaf che consente di chattare con alcuni personaggi della Bibbia, fra cui Gesù in testa, attraverso l’uso dell’Intelligenza artificiale. Così il giornalista descrive le intenzione della ditta che ha inventato l’aggeggio: ”Certo, Catloaf spiega che il tutto va preso con le molle: “L’applicazione, alimentata dall’intelligenza artificiale, non pretende di fornire reali intuizioni divine o di possedere una qualche forma di coscienza divina, ma si limita a utilizzare il suo modello linguistico per generare risposte basate su un ampio corpus di testi biblici e religiosi”. Lo scopo, insomma, è di “stimolare la riflessione, approfondire la comprensione dei testi religiosi e incoraggiare conversazioni significative sulla fede”. Cristo dunque non come vocina della coscienza o “sesto senso” che dice cosa fare e cosa no, ma a guardare le domande postegli da chi – per ora solo negli Stati Uniti – l’app l’ha scaricata, il tutto ha un sapore vagamente trash.
Lui si presenta gaudioso: “Ciao! Sono Gesù Cristo, il Figlio di Dio. Come posso aiutarti oggi?”. Un po’ responsabile di un circolo (di anziani, di lettori, di alcolisti anonimi, fate voi), un po’ psicologo di fiducia, un po’ emulo di Siri, la vocina che sull’iphone ci toglie dubbi e risolve enigmi da discussione in famiglia. E se qualcuno risponde “non puoi essere tu”, Lui invita a crederci, invece: “Sono qui per offrire conforto, consiglio e risposte alle tue domande. E se hai bisogno di qualcosa, sarò felice di aiutarti”. “.
Ma non è solo, come precisa l’articolo: ”C’è Gesù, ma ci sono anche Maria e Giuseppe e pure gli apostoli e altre figure della Bibbia. “Sono in ansia per un colloquio di lavoro che devo sostenere oggi”, gli scrive uno. Gesù risponde citando san Paolo, creando un cortocircuito che se accaduto nei concili dei primi secoli avrebbe prodotto scismi, roghi e lasciato morti sul campo”.
Ma si aggiunge un elemento inquietante: “Business Insider bada alla ragione del suo essere e scrive sinteticamente: “Con 2,99 dollari al mese potete sbloccare Satana”. Sì, perché con Gesù Giuseppe e Maria si può chattare gratis (ma si fermano a otto risposte al giorno), dopo è necessario sottoscrivere la versione Premium. Come Amazon, insomma: se vuoi la consegna in un giorno, serve Prime”.
Cosa diavolo chiedere ad un diavolo c’è davvero da chiederselo, anche se - pure negli USA - il satanismo o sette di matti vanno forte.
Me lo ha ricordato - nel tour in auto delle zone VIP di Los Angeles, che ho regolarmente fatto con la guida americana metà polacco e metà messicano - quell’indirizzo a Cielo Drive di una villa situata presso il Benedict Canyon, sulle colline di Beverly Crest, nella contea di Los Angeles, California. Lì nel 1969 la "Famiglia" di Charles Manson - un pazzo visionario, che sfuggi per un pelo alla sedia elettrica - uccise l’attrice Sharon Tate,moglie del regista franco-polacco Roman Polański assieme ad altre quattro persone. Un episodio del passato che mostra uno dei volti violenti degli States.

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