La falce della Morte

Ci sono argomenti difficili da affrontare. Fra questi – uso non a caso la maiuscola – quello della Morte.
Non so esattamente che età avessi, quando ho visto il primo morto. Ero bambino e dovessi dire la verità non ricordo neanche bene chi fosse. Ero con i miei genitori e la cosa mi impressionò non poco a vedere un corpo esposto.
Già la giornata dei morti, in quegli stessi anni, mi metteva un certo disagio. La visita alle tombe, compresa quella di famiglia, al cimitero di Aosta mi faceva fare nei giorni successivi brutti sogni. Lì giacevano i nonni paterni (la nonna, Clémentine Roux mancata nel 1945 e nonno René nel 1948) e mio zio Antoine, morto per uno stupido incidente il giorno della Liberazione di Aosta nel 1945.
Quando mio papà era quarantenne, ed io ero piccolo mi era venuta la paranoia che potesse morire d’improvviso e certo – essendo poi morto 86enne – non avevo fatto altro che allungargli la vita.
Gli anni Settanta poi furono un disastro: mancarono la gran parte dei miei zii di parte paterna e poi poco più avanti i nonni materni (Emilio Timo e Ines Luzietti). Con il passare degli anni, come pezzi mancanti di una scacchiera, mi sono abituato a perdere persone care e tanti amici, ed è un fatto ineluttabile, compreso papà e mamma. Orribile quando ci si deve occupare dei funerali e doverlo fare pressati dai tempi che conseguono alla morte.
Incomprensibili sono la morte dei bambini e delle persone giovani e ogni volta ascolto con attenzione le omelie dei preti, che diventato una specie di test di sensibilità ed empatia verso chi piange i propri congiunti. C’è chi ce la fa ad affrontare il dolore, specie chi è soccorso dalla Fede, e chi – altrettanto legittimamente – esprime tutta la sua rabbia per perdite precoci e vuoti incolmabili per sempre. Posso testimoniare di vite davvero spezzate di genitori per una fine anzitempo con molte cose che cambiano in una profondità che diventa come un pozzo senza fondo.
Ci pensavo, per l’ennesima volta, di fronte alla morte spietata che ha portato via un giovane insegnante, caduto in biciletta in circostanze banali. Mi riferisco a Victor Vicquéry, giovane walser, che viveva a Saint-Vincent. Lo avevo conosciuto come allievo della Scuola alberghiera, dove aveva scalato i diversi ruoli, sino a vincere il concorso da insegnante. Era un educatore con spirito imprenditoriale nel far capire che alla teoria bisognava far seguire la pratica.
Solare con il suo sorriso e sempre attento a fare in modo che la cultura del turismo e dell’accoglienza si esprimesse al meglio. Posso dire che eravamo amici e capitava spesso di parlare dei destini della nostra Valle, che era in grado di seguire con uno spirito critico sempre costruttivo. E se siamo in tanti a ricordarlo e a piangerlo lo si deve proprio alla sua naturale simpatia e a quell’impegno che emergeva nel suo percorso di vita. E’ una morte ingiusta, comunque la si veda e colpiscono non solo la giovane età, ma per le circostanze tragiche avvenute davvero in un batter di ciglia.
Chi ha scritto delle pagine straordinarie sulla morte, specie nel declinare della sua vita quando aveva consapevolezza dell’avvicinarsi dell’ultimo giorno, è stato il giornalista e scrittore Tiziano Terzani, che osservava tra l’altro un paradosso, per fortuna meno presente in piccole comunità come le nostre: “Quand’ero ragazzo era un fatto corale. Moriva un vicino di casa e tutti assistevano, aiutavano. La morte veniva mostrata. Si apriva la casa, il morto veniva esposto e ciascuno faceva così la sua conoscenza con la morte. Oggi è il contrario: la morte è un imbarazzo, viene nascosta. Nessuno sa più gestirla. Nessuno sa più cosa fare con un morto. L’esperienza della morte si fa sempre più rara e uno può arrivare alla propria senza mai aver visto quella di un altro”. Invece la Morte va tenuta da conto ed è frutto degli eventi spesso nella loro banale semplicità.
Victor resta nei nostri cuori. Come ha scritto argutamente Marcel Proust: “Le persone non muoiono immediatamente, ma rimangono immerse in una sorta di aura di vita che non ha alcuna relazione con la vera immortalità, ma attraverso le quali continuano ad occupare i nostri pensieri nello stesso modo di quando erano vivi”.
 

Il tempo delle mimose

Che cosa annuncia il lento declinare dell’inverno e l’arrivo in un orizzonte, pur ancora lontano, della primavera?
Intanto, verrebbe da dire - nel solco del solito luogo comune ”non ci sono più le mezze stagioni” - che ormai le stagioni sembrano sempre più una macedonia. Soffiava giorni fa il Foehn e ora spunta il freddo siberiano, intanto in America del Nord si registrano temperature rigide epocali e invidiabili nevicate.
Rispondo alla domanda iniziale. Per me, ma non vi è nulla di casuale nella collocazione temporale perché la Natura inizia il suo risveglio. La Foire de la Saint-Ours appena trascorsa è già un campanello che suona con il palese allungamento delle giornate, ristrettesi sino a pochi giorni dal Natale.
Ma poi arriva a svegliare tutto il Carnevale che già a Gennaio accende le sue prime luci nella Coumba Freida e poi arriva il ”mio” Carnevale, quello di Verrès, dedicato a Catherine de Challant. Siamo nel cuore del Quattrocento e la Contessa difese il suo feudo, che poi perse, con le unghie e con i denti.
Ebbene, quei festeggiamenti ormai imminenti sono per me un passaggio stagionale, che finisce per essere rappresentato dal fiore che domina i festeggiamenti, la mimosa.
Leggo per caso un articolo di Léon Prost su Le Monde: ”Quel est le point commun entre Meghan Markle, le fils de Popeye et la lauréate du prix Marcel-Duchamp 2022 ? Le mimosa. Cet arbuste flamboyant aux petites boules jaune vif duveteuses originaire d’Australie, qui, depuis le XIXe siècle, s’est acclimaté à merveille au climat de la Côte d’Azur (le massif du Tanneron est la plus grande forêt de mimosa d’Europe), est devenu un nom propre au large champ qualificatif. Dans la série documentaire Harry & Meghan, diffusée sur Netflix, la duchesse du Sussex révèle sans langue de bois avoir sifflé un mimosa (cocktail à base de champagne et d’agrumes) juste avant la cérémonie de son mariage princier”.
Insomma: mimosa fiore e mimosa cocktail. E Braccio di Ferro?
Spiega il giornalista: ”Mis à part les bédéphiles avertis, peu de gens savent que le fils adoptif de Popeye et Olive Oyl déteste les épinards et porte le même prénom que Mimosa Echard, jeune pousse française de l’art contemporain”.
Da un nome ad un piatto di cucina: ”Mimosa est aussi le nom de baptême d’un œuf dur farci de mayonnaise, travaillé de mille façons par le chef étoilé Jean-François Piège dans son restaurant parisien de l’Hôtel de la Marine qui s’appelle justement… Mimosa. Dans la confiserie traditionnelle, le mimosa désigne de petites billes jaunes grumeleuses et sucrées, d’un goût discutable, utilisées pour décorer les gâteaux”.
Il finale è allegro e fa un link con tante cose nel nome del fiore: ”Cette fleur « soleil d’hiver » – qui, depuis 1946, envahit les rues des villes italiennes le 8 mars, pour la Journée internationale des droits des femmes – s’est aussi illustrée en illuminant les œuvres des peintres Bonnard, Matisse et Chagall. Au fond, le seul défaut du mimosa (hormis que son pollen peut être allergène) est de ne pas savoir jouer les prolongations. Si son parfum de miel vanillé a inspiré à de grandes maisons de luxe quelques-unes de leurs fragrances intemporelles (Paris, d’Yves Saint Laurent, Coco, de Chanel, Kelly Calèche, d’Hermès, Infusion de mimosa, de Prada…), ses pompons, une fois le bouquet plongé dans un vase, se dessèchent, et l’ensemble perd de sa superbe en diffusant un parfum moins agréable. On peut le déplorer ou se réjouir : après tout, la fin du mimosa annonce le début du printemps”.
Si torna, insomma, a quanto detto all’inizio.

Attorno al “ma”

Mi accorgo di scrivere molto adoperando il ”ma”. Sarà forse un mio modo di ragionare, perché cerco sempre in ogni cosa di vederne i diversi aspetti. Mi è capitato di dire che bisogna sempre, rispetto a qualunque problema, avere la capacità di guardarlo in modo plastico. Per capirci: bisognerebbe fare come avviene con una montagna iconica come il Cervino, di cui ognuno di noi ha una visione. Però se ci giri attorno tutto cambia a seconda del versante. Lo so perché ho avuto la fortuna di sorvolarlo in elicottero e di girarci attorno e l’ho fatto anche una volta con un aereo. Lo stesso vale - altra esperienza - non per una montagna singola, ma per un massiccio, che è una sinfonia di montagne, com’è ad esempio il Monte Rosa.
Ecco: bisogna fare così con tutto, mai fermarsi ad una prima considerazione, ad un solo giudizio, ad un pensiero unico.
Per questo, come un flash illuminante, ho letto sul Foglio l’inizio di un articolo di Giuliano Ferrara sul Sudan. Non parlerò di questo, ma della sua riflessione iniziale, che offre una prospettiva diversa e stimolante.
Eccola: ”Il “ma” è una particella di coordinazione del discorso, però avversativa, e ha un grande potere logico, politico, civile, un potere esagerato, assoluto in certi casi, e un infido carisma. Una persona che conosco non poi così bene, cioè Io stesso, me stesso, è spesso oggetto di giudizi segnati fatalmente dal “ma”: è cattivo, ma intelligente. Questa persona si irrita e si turba e vede in quella particella una insidia, vorrebbe, se proprio bisogna mantenerla in vita, rovesciarne il senso: è scemo, ma è buono, meglio ancora: è scemo e buono. Così infatti Io stesso si sente e pretende di essere, senza se e senza ma. Questa però è psicoanalisi, per fatto personale. Grave è che la dittatura della Particella affligga l’informazione intorno non si dica alla verità, basta dire alla verisimiglianza, una certa conformità, tra i dubbi, all’indubbio dei fatti accertati, adaequatio rei et intellectus come diceva sor Tommaso d’aquino. Se leggete bene articoli e titoli di giornale, di servizi televisivi, di siti che influenzano la percezione immediata, nelle 24 ore, della realtà, vi accorgerete che un certo tipo di notizie, specie quelle riguardanti l’economia (anche la climatologia fa la sua brava parte), è sempre soggetto all’egemonia tremenda, apparentemente dialogica e invece irrecusabile, univoca, del “ma” ”.
Il ”ma” siffatto non è indagatore o pluralista, perché è uno zampino negativo, se viene usato per tenere la barca piana e non fissare in modo certo un’opinione.
Cambio scenario e plano su una questione tutta valdostana, senza che appaia un approccio balzano. Si tratta - ne parlo da anni a costo di diventare noioso e pure ripetitivo - del momento di ritorno ad una casa comune degli autonomisti. Reso necessario dalle circostanze e pure da certa pulizia nell’area autonomista per chi ha scelto di uscirne, facendo chiarezza sulle proprie posizioni e intenzioni.
Anche in questo caso esiste il rischio del ”ma” in frasi tipo: ”Ottimo, torniamo insieme! Ma…”. Questa sembra una sorta di maledizione e pure di autocastrazione.
Allora può essere usato meglio se si completa la frase con: ”Ma dobbiamo farlo in fretta e senza tentennamenti”.
Ci credo e vorrei che dopo tanti anni di divisioni e incomprensioni - ciascuno con le propri ragioni su cui non bisogna tornare - ci si trovasse non solo per noi, ma (in questo caso rafforzativo!) per il ”dopo di noi”.
Uno scrittore americano William Hodding Carter ha scritto: ”Ci sono solo due cose durature che possiamo sperare di lasciare in eredità ai nostri figli: le radici e le ali”.

L’autonomia differenziata e il Sud

Parte l’autonomia differenziata con un testo presentato in Parlamento. Dare corso alle previsioni di una parte nuova del 116 della Costituzione era un atto dovuto, atteso dal lontano 2001, quando ci fu questa innovazione che trasferisce un certo numero di competenze alle Regioni a Statuto ordinario che lo richiedano.
Inutile oggi mettersi a scavare nel testo, perché la verità è che è facile prevede tempi molto lunghi e grandi stravolgimenti dell’articolato governativo.
Quel che più mi interessa è il clima litigioso che ha accolto una riforma per nulla stravolgente, diventata invece oggetto di polemiche infinite. Ciò mostra come il regionalismo si scontri ancora con un clima centralista in Italia che non ha colore politico e mette assieme un mare di stupidaggini in controtendenza con processi autonomistici ampiamente presenti nelle democrazie occidentali.
Un vulnus iniziale in questo iter c’è stato: è del tutto impensabile che la proposta del Governo non sia stata sottoposta previamente nella Stato-Regioni al parere dei Presidenti di Regione e che loro stessi non abbiamo potuto discuterne con i Consigli regionali. Questo fa capire di come i Presidenti ad elezione diretta si muovano come delle specie di monarchi in barba alle proprie assemblee e chi vuole trasferire in Valle d’Aosta questo modello, brandendo l’ingovernabilità, dovrebbe pensare a questo svuotamento della democrazia rappresentativa. Ad alcuni epigoni dell’elezione diretta verrebbe voglia di dire..”dite qualcosa di Sinistra”. Ma, se scavi in certe vite, scopriresti il marchio del giacobinismo e quello è da sempre contro la democrazia, specie quella di prossimità.
Inutile contarsi storie sulla riforma: era necessario, specie per la Lega in vista di appuntamenti elettorali, marcare il territorio con una riforma a lungo promessa dai loro Presidenti e spinte persino in Veneto e Lombardia da un referendum popolare. I delicati equilibri nel centro-destra hanno obbligato la premier Meloni - assai scettica sull’autonomia differenziata - a fare di necessità virtù e a dare il suo assenso al passaggio al Consiglio dei Ministri.
Ma quel che stupisce è che Presidenti di varia estrazione siano in ebollizione contro il disegno di legge, compreso Stefano Bonaccini, Presidente dell’Emilia-Romagna, candidato alla leadership nel PD, che pure aveva chiesto tempo fa di accedere a quanto previsto dal nuovo 116. Con lui protesta Michele Emiliano, Presidente della Puglia, anche lui piddino e pure il Presidente della Campania dello stesso schieramento, Vincenzo De Luca, che pareva interessato dall’autonomia differenziata e ora spara sulla riforma. Giano bifronte.
Il fronte del NO è granitico al Sud anche nel centrodestra. Si parla con enfasi e qualche piagnisteo di un vero e proprio attentato al Mezzogiorno da parte del Nord che spinge per la riforma per impoverire il Sud già tartassato.
Si tratta di una rappresentazione sbagliata e grottesca, cavalcata da chi ha fatto della retorica del complotto dei settentrionali una delle chiavi di un vittimismo vecchio stampo, senza mai elementi di autocritica. Penso ai miliardi di fonte europea piovuti nel Sud con esiti miseri di fronte agli investimenti possibili e penso al PNRR sbilanciato largamente al Sud con la curiosità di vedere come queste vagonate di denaro verranno utilizzate e quali pretesti verranno adoperati se, come già si teme, questi investimenti resteranno in parte sulla carta.
Ma i Masanielli (Masaniello fu un capopopolo napoletano assurto a simbolo) non mancano mai e aizzano la solita storia del Nord brutto e cattivo sino a rinfocolare sentimenti antisabaudi, accusando di colonialismo chi volle l’Unità d’Italia e facendo dei Borboni i protagonisti rimpianti di un Sud prospero ed efficiente, migliore del Piemonte invasore. Roba da non credere e leggendo certi libri "sudisti” si capisce bene come si cerchi di falsificare la Storia con ridicolaggini tipo i briganti come “partigiani” contro l’annessione…forzata.
Ci vuole equilibrio e questo non significa affatto negare una questione meridionale annosa e dannosa anzitutto per le popolazioni, ma personalmente ritengo che l’autonomia differenziata sia una chance per tutti, a condizione che ci si assumano la proprie responsabilità e che chi reagisce stizzito alle novità, oltre a reclamare i legittimi diritti, si dia uno sguardo anche ai propri doveri.

Certe solitudini

Mi assilla da sempre un problema che alla fine non so bene come definire. Si tratta - e ne ho scritto spesso - della difficoltà di capire la contemporaneità. Facile analizzare quanto avviene se lo si fa a bocce ferme, molto più difficile capire, vivendolo, dove stiamo esattamente andando.
Mi riferisco in particolare ai cambiamenti sociali, che si affermano come un fiume in piena da cui veniamo travolti, senza essere in grado di pilotare in qualche modo il fenomeno. Colpisce oggi, come se fosse un pugno in faccia, questa storia delle nuove solitudini e del restringersi progressivo della socialità. Il che è ovviamente paradossale, pensando a certe occasioni per stare assieme - come in Valle d’Aosta la recentissima Foire de Saint-Ours - che è occasione ricchissima per incontrarsi e vivere momenti collettivi. Parrebbe essere, tuttavia, come un lampo di luce nel buio di un mondo in cui tendiamo a chiuderci.
Ne ha scritto Aldo Cazzullo, giornalista del Corriere, che si sta affermando sempre più come attento osservatore nella sua vasta attività di scrittura, che invidio e mi domando dove trovi il tempo.
Ossserva Cazzullo, rivolgendosi al suo interlocutore: ”Oggi la vera rivoluzione è il telefonino, che cambierà l’essere umano e le sue relazioni più del fuoco e della ruota. Non si lasci ingannare dai capannelli fuori dai bar con il bicchiere in mano. Oggi i ragazzi sono drammaticamente soli. Faticano a trasformare i rapporti virtuali in rapporti reali. Hanno paura della fisicità. Per una minoranza che affronta il sesso in modo compulsivo, con mentalità da collezionista e senza coinvolgimenti sentimentali o almeno emotivi, ci sono moltissimi giovani che non riescono a trovare un partner o anche solo un amico”.
Questo chiudersi non è nuovo e concordo sulla successiva ossservazione: ”Il degrado dei rapporti umani era cominciato prima della rivoluzione digitale. Quante persone nuove conosciamo ogni anno? Quante persone lasciamo entrare nella nostra vita? Poche, temo. Ormai, oltre una certa età, la vita ce la siamo giocata. Ma chi invece la vita, la famiglia, il futuro se lo deve ancora costruire? Sul Corriere Walter Veltroni ha scritto della solitudine come dimensione esistenziale di quella che si autodefinisce «l’ultima generazione». Leonard Berberi ha scritto tre mesi fa un’inchiesta sugli amori nati su Tinder, che non serve solo a organizzare incontri casuali ma a costruire storie che durano nel tempo. La Rete rappresenta senz’altro una grande opportunità, certo più rapida delle antiche agenzie matrimoniali. Però l’impoverimento della vita reale è una delle cause del disagio psicologico che segna le giovani generazioni”.
Non voglio apparire pessimista, ma concordo su questo fatto di una progressiva chiusura, che genera disagio e malessere da una parte e dall’altra riduce la socialità a cerchi più ristretti. Il mondo virtuale, fatto cioè di contatti senza vicinanza e fisicità, appare come grottesco rispetto alla natura umana come si è costruita nel tempo.
Vedo mio figlio, quello più piccolo che fa le scuole medie (pardon, scuola secondaria di primo grado!). che vive l’esperienza scolastica come una realtà fatta di amicizie rarefatte, pur essendo lui per natura un compagnone.
Eppure è quella una cartina di tornasole, pensando alla socialità della mia generazione, di quanto sta cambiando in peggio il nostro modo di vivere. Resto certo che il nostro essere “animale sociale” (come scrisse il filosofo greco Aristotele ne IV sec. a. C.) prevarrà in qualche modo.

Dire quel che si pensa

L’anzianità di servizio in politica mi consente una certa serenità in più nell’esprimere il mio pensiero, quando lo ritengo utile. Chi mi segue da tempo lo sa: se devo esplicitare una posizione non mi tiro mai indietro. Trovo sia giusto dire quel che si pensa senza troppi giri di parole e senza peli sulla lingua, ma la franchezza diventa ancora più forte quando hai scoperto nel tempo - attraverso le esperienze vissute - quanto dire pane al pane e vino al vino sia una dote e non un difetto. Perciò se il passare degli anni ha un senso, questo vissuto serve a non dover scegliere la strada che aborro di giocare con le parole per non esporsi.
Può essere che questa spontaneità - chiamiamola così - non sempre mi abbia portato bene. Osservo con curiosità, perciò, ma non condivido l’attitudine, di chi mantenga atteggiamenti prudenti o peggio silenti e si esprima poco sulle cose per non dispiacere a nessuno. Ma questo essere né carne né pesce per piacere a tutti e non avere guai per quel che si pensa non mi appartiene affatto. Somiglia a certo mimetismo degli animali che serve per evitare problemi con chi ti vuole fare del male e rischia - non appaia un paradosso - di sfociare nel camaleontismo e cioè cambiare le opinioni a seconda delle circostanze, come se nulla fosse. Sono equilibrismi rischiosi, perché prima o poi chi ondeggia viene beccato in fallo.
Esiste questa espressione francese suggestiva, che è “langue de bois”, che qualcuno in italiano traduce - ma lo trovo artificioso - con “politichese”.
In realtà questa potrebbe essere una definizione accettabile: “langage coupé de la réalité ; message intentionnellement truqué ; parole qui ne répond pas à la question posée ; manipulation par un message truqué ; discours vague et imprécis qui vise à travestir la réalité”.
Su di una rubrica de Le Figaro che scava nelle espressioni, così se ne chiariscono le origini:: “Il apparaît cependant certain qu'elle ait bourgeonné dans les pays de l'Est, «notamment en Russie tsariste où on l'appelait ‘‘langue de chêne'' pour désigner le langage bureaucratique particulièrement pesant et rigide de l'administration, puis en Union soviétique», explique Gilles Guilleron dans son livre Langue de bois (First).
Ma la questione è ancora più ramificata anche in altre lingue: “L'expression a étendu ses racines jusqu'en Pologne: nowo mowa, langue de bois, et son synonyme, jezyk propagandy, langage de propagande. On retrouve cette idée en Chine sous le terme «langue de plomb» et en Allemagne, «langue de béton». Des matériaux dans lesquels on retrouve «les mêmes pesanteurs et rigidités, caractéristiques de cette langue dont la finalité semble être d'extraire des mots tout signe de vitalité, d'invention» “. Un piattume insulso.
È giusto rimarcare come, su impulso di un’attitudine americana, oggi - spesso per non dire come la di pensi realmente su di un certo tema - ci si nasconda nella logica del “politicamente corretto”, che tende a ingessare ogni discussione nel nome di principi intangibili. Modo di comportarsi - lo scrivo scherzosamente - che si sposa con il “democristianismo” (scusate il neologismo orrendo) e cioè quello stare “entre les deux” per non dispiacere a nessuno. Ponziopilatismo, si potrebbe aggiungere.
Il che beninteso non ha nulla a che fare con l’intestardirsi quando su di un punto quando gli elementi che si acquisiscono dimostrano il contrario. Sarebbe la famosa “onestà intellettuale”, che è più o o
l’atteggiamento di correttezza e lealtà che caratterizza chi riconosce, senza farsi condizionare da pregiudizi soggettivi o di parte, la consistenza reale di un fatto o di un’idea, un’opinione, un’affermazione altrui.
Insomma: dico sempre quel che penso, ma questo non deve mai precludere, per partito preso, la discussione con chi non la pensa come me e farne, se il caso, tesoro. Ma alcuni - questo è davvero il peggio - non si esprimono anche in politica per poter tenere i piedi in più scarpe e l’esercizio resta ardito per chi lo fa e pure per le loro estremità.

Alla ricerca degli alieni

Nulla come l’epopea dell’uomo nello spazio e poi sulla Luna, di cui ho vissuto gran parte come spettatore stupito e a tratti ammirato, mostra in modo evidente lo spirito di avventura della razza umana. Finite le grandi scoperte e la pulsione verso l’ignoto sulla Terra, lo sguardo si è rivolto al cielo.
Prima i libri di fantascienza (spesso incredibilmente visionari) e poi i film con il medesimo soggetto hanno inseguito una figura mitica: l’extraterrestre, all’inizio denominato marziano, oggi diventato l’alieno.
Esiste pieno il mondo di persone che dicono di averli visti o persino di essere stati rapiti sui famosi dischi volanti, ci sono sette che sostengono di essere in contatto con loro e alcuni specificano che alieni (rettiliani) sono già fra di noi, ci sono seri scienziati che spiegano che non si capirebbe perché nello spazio più profondo non ci dovrebbero essere forme di vita intelligenti.
La penso esattamente come questi ultimi e ogni tanto mi perdo in certi misteri, indagati sin dall’antichità, su questo nostro mondo e su di noi che ci viaggiamo sopra e sul significato dei confini sempre più larghi di quanto scorgevamo prima con i telescopi e oggi con satelliti, che indagano le profondità delle galassie più lontane e chissà che cosa ci sarà sempre più in là da scoprire. Ai posteri l’ardua sentenza.
A supportare questa curiosità che coltivo, ho letto un articolo su Internazionale di Chiara Dattola sui messaggi da tempo inviati ben oltre le frontiere terrestri alla ricerca di interlocutori che rispondano a nostre sollecitazioni.
Così esordisce: “Quando Jonathan Jiang era bambino, suo padre gli raccontò che alcuni astronomi avevano mandato un messaggio nello spazio sperando che arrivasse agli alieni di una lontana galassia. “Io non sono d’accordo”, gli disse anche. “Il testo avrebbe dovuto essere approvato dagli abitanti della Terra”. Il messaggio, inviato nel 1974 dal radiotelescopio di Arecibo, a Puerto Rico, raggiungerà l’ammasso globulare di Ercole (M13) tra venticinquemila anni.
Ovviamente non sappiamo se laggiù ci sono forme di vita aliene. Sappiamo però che la maggior parte delle stelle della nostra galassia ha dei pianeti, molti dei quali potenzialmente abitabili. Quindi è possibile che ce ne sia almeno uno con forme di vita intelligenti”.
Più avanti spiega: “Abbiamo cominciato a pubblicizzare la nostra presenza nello spazio un secolo fa, con la diffusione della radio. A partire dagli anni cinquanta è stata la volta della tv. “I primi programmi tv hanno raggiunto finora più di diecimila stelle”, dice Dan Werthimer, un radioastronomo dell’università della California a Berkeley. “Le più vicine hanno già visto I Simpson”.
Nel 1962 gli scienziati sovietici inviarono tre parole in codice Morse verso Venere: mir (pace), Lenin e Urss. Il tentativo successivo, quello ricordato da Jiang, era più ambizioso. Nel 1974, infatti, gli astronomi del radiotelescopio di Green Bank, nel West Virginia, inviarono il primo messaggio esplicitamente rivolto agli alieni. Noto come messaggio di Arecibo, era diretto all’ammasso M13, che ospita trecentomila stelle e almeno altrettanti pianeti.
Gli alieni, se ci sono, riceveranno un messaggio costituito da un codice binario di 73 righe da 23 caratteri. Una volta decifrato, riproduce la doppia elica del dna sopra un disegno stilizzato di un essere umano e alcuni numeri, tra cui quattro miliardi, la popolazione terrestre dell’epoca. C’è anche una mappa del sistema solare, con l’indicazione della Terra e del radiotelescopio di Arecibo”.
Segue un lungo elenco di analoghi tentativi: “Nel 1983 gli astronomi Hisashi Hirabayashi e Masaki Morimoto dell’università di Tokyo, dopo un paio di bicchieri, ne mandarono uno verso la stella Altair con il simbolo chimico dell’etanolo e la parola “cin cin”. Poi è stato il momento degli annunci culturali e commerciali. Nel 2008 la Nasa ha inviato Across the universe dei Beatles verso Polaris, mentre l’università di Leicester, nel Regno Unito, ha mandato uno spot del marchio di snack Doritos verso la costellazione dell’Orsa maggiore. Lo stesso anno un potente segnale radio con 501 messaggi, selezionati sull’ormai defunto social network Bebo, è partito per Gliese 581, una stella nota per la “super-Terra” che le orbita intorno. Nel 2010 un’opera in lingua klingon è stata inviata verso la stella Arturo”.
Segnalo che lo snack Doritos è in realtà un insieme impressionate di prodotti salati e di dolci, mentre la lingua klingon è la parlata di una razza aliena immaginaria nell'universo di Star Trek.
Ma torniamo a chi abbiamo già citato all’inizio: “Secondo Jiang, però, possiamo fare di meglio. Con alcuni colleghi di tutto il mondo ha creato una versione aggiornata del messaggio di Arecibo, più facile da decifrare. Il gruppo ha messo a punto una mappa della Via Lattea le cui coordinate sono gli ammassi globulari, gruppi di stelle luminose vicine tra loro. Anche la nuova versione contiene la struttura del dna, ma in più ha una mappa del nostro pianeta con le molecole presenti tra terra, mare e aria. Il messaggio si conclude con l’indirizzo del mittente, cioè la posizione della Terra, e la data d’invio. “Vogliamo una risposta”, dice Jiang”.
Speriamo che abbiano torto coloro i quali pensano ai pericoli possibili se spuntasse chissà quale civiltà dal buio dello spazio, dando per scontata che si mostrerebbe ostile. Copione della gran parte dei film di fantascienza girati in questi anni. In genere con un lieto fine per l’umanità che ricaccia con successo gli invasori spaziali.
Banale e ottimista.

Scuola, formazione e la sfida culturale

Sono stato alla celebrazione di Don Giovanni Bosco nella scuola di Châtillon dei salesiani. Una struttura cresciuta nel secondo dopoguerra sino ai numeri imponenti di oggi, che in realtà era nata ab origine come orfanotrofio.
Negli anni la Regione ha assecondato questo sviluppo, prima nel nome dell’istruzione tecnico-professionale e poi della formazione professionale. La logica, sin da subito manifestatasi nei confronti delle scuole cattoliche e di altri strutture private non confessionali (ad esempio il Liceo linguistico di Courmayeur), è sempre stata nel nostro ordinamento quella di una considerazione piena dell’istruzione paritaria senza barriere ideologiche, com’è invece avvenuto altrove.
Il Don Bosco, con l’aiuto finanziario della Valle, ha seguito un filone fruttuoso nel solco scuola-lavoro, assicurando a tante generazioni di giovani una facilità nell’accesso professionale dopo la scuola e non è poco. Questa è stata una delle chiavi di successo: la nomea di una scuola “utile” è assolutamente fondamentale, che sia per un lavoro una volta finiti gli studi o come anticamera verso l’Università.
Questo esempio virtuoso del Don Bosco, ma si potrebbe citare anche l’Institut Agricole di Aosta, va usato come punto di riferimento, ma dimostra una necessità su cui lavorare per minimizzare l’abbandono scolastico e anche – e talvolta è persino peggio – per contrastare la triste constatazione di come spesso i ragazzi si infilino, con qualche responsabilità delle famiglie, in un percorso scolastico senza un’esatta pesatura delle proprie ambizioni e persino delle proprie capacità. Ancora oggi, a poche settimane dall’inizio della scuola al primo anno delle Superiori, si assiste ad un valzer di spostamenti in altri istituti. Oppure peggio ancora si scopre – a me è capitato di constatarlo con alcuni studenti della Scuola Alberghiera – che c’è chi, già avanti con gli studi, non entrerà malgrado il percorso prescelto nel mondo turistico e questo è oggettivamente uno spreco di risorse in un settore dove c’è fame di dipendenti o di imprenditori.
Una nuova legge regionale dovrà fissare dei paletti ormai indispensabili nel rapporto fra istruzione tecnico-professionale (competenza primaria da Statuto d’autonomia) e formazione professionale (ben finanziata dall’Unione europea), tenendo conto dell’obbligo scolastico sino ai 16 anni ancora sfilacciato dalla possibilità di poter lavorare davvero in parallelo agli studi per normative nazionali astruse.
Resta, tuttavia, una mia speranza che riguarda tutti gli ordini dei percorsi più professionalizzanti a maggior o minor gradiente di cultura generale. Qualunque disciplina si scelga, comprese quelle più mirate verso un lavoro specifico, bisogna che ci sia sempre attenzione e spazio per certe materie umanistiche. Mi riferisco alle Lingue, alla Storia, alla Letteratura, alla Filosofia e a quella che un tempo si chiamava Educazione Civica, che a mio avviso comprende rudimenti del Diritto e dell’Economia. Non so bene dove mettere la Geografia, terribilmente vilipesa, ma fondamentale.
Quel che conta dunque non è solo – nell’importanza anche delle varie discipline scientifiche – pensare giustamente al lavoro che verrà, ma anche alla formazione di un cittadino che abbia coscienza di sé stesso grazie a basi culturali solide, che lo nobilitano e lo rendono cosciente e partecipe.
Dico sempre che se già questo è sempre stato importante va detto quanto lo diventa ancor di più con la crisi demografica che desertifica la nostra gioventù e dunque nessuno deve essere lasciato indietro e bisogna fare in modo che siano opportunamente assecondate vocazioni e ambizioni nella linea della propria natura e delle proprie caratteristiche.

Fuggire da Whatsapp

Sembra ormai di parlare del tempo delle caverne. Eppure io lo ricordo quel primo sms - eravamo negli anni Novanta - che comparve sul mio telefonino e l’emozione che si passasse dall’orale della telefonata allo scritto. Non potevo sapere quanto sarebbe capitato oggi rispetto a quel misero messaggino.
Oggi siamo schiavi della messaggistica sotto diverse forme e il più inquietante - perché è pure parlante e consente videochiamate - è Whatsapp. L’origine la traggo dal sito di Fastweb: ”L'applicazione di messaggistica istantanea è stata creata nel 2009 da due ex dipendenti di Yahoo, Jan Koum e Brian Acton. I due vogliono creare un'app che dia la possibilità agli unteti di scambiarsi i messaggi gratuitamente utilizzando il proprio numero di telefono e la rete Internet. Dopo alcuni mesi di lavoro, i due programmatori danno vita a WhatsApp: il nome è la fusione tra le parole inglesi "what's up?" (come va?) e app (da application)”.
Oggi non so quanti gruppi abbiate collezionato e con quante persone singole intratteniate conversazioni. Non li conto per carità di patria e ogni tanto tento di fare pulizia o di far finta di essere morto con chi dimostra un eccesso di invadenza a qualunque ora del giorno o della notte. Di grande soddisfazione è anche il profilo temporaneo, quasi sempre scherzoso.
Il fatto certo è che questa "cosa” ci invade la vita e il peggio sono ormai i vocali, che creano in me un senso di ripulsa senza eguali e noto in chi indugia per minuti una sorta di sadismo verbale.Il vero incubo sono certi gruppi per l’infantile ripetitività dei contenuti.
Un vero eroe di questi giorni è risultato Thomas D’Orazio, 51 ans, che vive in Pennsylvania. Ho letto su di lui il racconto di Magali Cartigny su Le Monde. D’Orazio ha annunciato alle sue figlie ventenni di voler uscire dal gruppo creato con loro perché non ne poteva più: “Ironie de l’histoire, en tentant de reprendre son destin numérique en main, ce père de famille a engendré un buzz mondial, sa fille aînée ayant publié une capture d’écran de son message sur les réseaux. Les enfants sont merveilleux. Résultat : 16 millions de vues et des milliers d’humains, conscients de leur propre aliénation, exprimant sur Internet leur soutien à ce geste de bravoure et défendant le droit à la déconnexion”.
Scrive la giornalista, dopo aver dato le cifre che dimostrano la nostra schiavitù: “Thomas D’Orazio nous pose donc cette question : pour se préserver, faute de pouvoir quitter une messagerie professionnelle, peut-on démissionner d’un groupe rassemblant sa famille? Ne serait-ce pas considéré comme une preuve de désintérêt, pire, de désamour, ou comme un acte de misanthropie socialement inacceptable?”.
E aggiunge: ”Les groupes de discussion WhatsApp seront peut-être étudiés par les anthropologues du troisième millénaire pour tenter de percer le mystère de l’Homo iphonus. Tels les historiens d’antan décryptant les hiéroglyphes, ils se gratteront le haut du crâne face à ces tombereaux de messages vocaux, mèmes de Hugh Grant ou de John Wick (tueur à gages interprété par Keanu Reeves) et échanges absurdes liés au décalage entre intervenants (« A quelle heure on se retrouve? – Oui, je prends le train gare de Lyon »)”.
Già, il trionfo della banalità digitale e mi autoaccuso pure io di un abuso!
Condivido la conclusione ironica dell’articolo: “Dans son dernier spectacle, Gad Elmaleh confie son désarroi face à ces discussions multipartites. «On fait des groupes pour la moindre occasion, pour n’importe quoi. On organise un simple dîner, on crée un groupe. J’en peux plus, j’en ai marre, je sors des groupes». Le plus redouté étant celui des parents d’élèves, quand «maman Bérénice» lance son «alerte poésie» à la classe de CE2, à 22 heures, pour récupérer le texte de La Grenouille et le Crocodile, dont la récitation est prévue le lendemain”
Capita esattamente così, se non di peggio, e posso confermare la medesima invasività che si subisce sotto diverse forme, che si insinuano nelle mie multiformi chat che quotidianamente trillano giulive sul mio portatile. Ci sono pure apparizioni improvvise di chi - senza invito alcuno - ha scovato il mio numero e mi chiede pure se…disturba.

Arriva la Foire!

Ci vorrebbe una squadra affiatata per uno studio approfondito su quel vero e proprio fenomeno che è la Foire de la Saint-Ours. Servirebbe a spiegare come in un secolo questa manifestazione aostana sia passata da piccola fiera prevalentemente con oggetti utili per l’agricoltura all’enorme fiera odierna, che non ha eguali in tutte le Alpi per il suo gigantismo e la varietà di proposte.
Uno storico potrebbe tracciarne la parabola ascendente dal dopoguerra ad oggi, originata fin dalla notte dei tempi o almeno da quando certi documenti medioevali la citano. Un sociologo potrebbe raccontare come venisse vissuta la sua presenza nel solo Bourg in epoca di una società contadina che scendeva da alcune vallate nel cuore della città “borghese” e segnalare come sappia oggi conquistare tutti nei due giorni. Un antropologo potrebbe spiegare come questo rito collettivo abbia dato vita ad oggetti artistici e no con uno stuolo di espositori che mostrano la varietà umana del mondo valdostano e anche la capacità di integrazione avuta.
Tutto ciò nel nome di un mitico Santo e guaritore di cui non si sa molto e che ha superato in popolarità - ed è anche questa una sorta di paradosso - i Santi valdostani più importanti e autorevoli come Sant’Anselmo e San Bernardo. Misteri della fede.
Comunque sia, questa Foire ha due pelli: la prima è quella diurna, che significa uno snodarsi in superficie di quello che ormai è un pigia pigia nelle strade del centro con centinaia di espositori di cui si vedono i banchetti spinti dalla folla. I più accorti arrivano non a caso presto al mattino e possono incontrare e guardare con una certa calma, godendosi la varietà di proposte e parlando con artigiani (termine che assume mille sfaccettature) ancora “freschi”.
Vi è poi - seconda pelle - la dimensione notturna, che per gli habitué è prevalentemente sotterranea nelle famose cantine, un tempo più aperte alle visite e oggi appannaggio di combriccole di amici o a pagamento per frequentatori che sanno godersi la notte fonda. Bere bisogna saper bere e cantare anche, sapendo che l’indomani ci saranno conseguenze, ma è un prezzo da pagare per questa trasgressione.
Ho seguito ormai un sacco di edizioni e alcune sono state memorabili. Penso di aver lasciato un piccolo graffio personale nella pellaccia dura della Foire. Ero Presidente della Regione quando chiesi per curiosità come mai la Foire si inaugurasse il 31 e cioè il secondo giorno e non il 30. Nessuno - anche i più conoscitori della storia della manifestazione - seppe darmi una riposta e allora proposi di fare la cosa più logica: inaugurare il 30 e non il 31! Da allora è così e sono fiero di questo cambiamento. Come inaugurare una fiera dopo un’intera giornata e nottata?
L’altra curiosità è che la Chiesa festeggia Sant’Orso il 1 febbraio, dunque a Foire finita e quel giorno la tradizione mischia il santo con le…previsioni del tempo. Dice il proverbio, parlando dell’indomani dei giorni canonici della Foire: "Se féit solèi lo dzor de Sen t-Ors, l'iver dure incò quarenta dzor" ("Se fa bello il giorno di Sant'Orso, l'inverno dura ancora per quaranta giorni") ed in altra versione questo maltempo si esplicita perché l'orso mette fuori a seccare al sole il pagliericcio e poi torna di nuovo a dormire.
Da notare appunto come nella tradizione popolare per questi detti si mischi il Santo con l'orso come animale simbolo della forza della Natura. Certo é che la Foire si lega con sicurezza a festività analoghe di questo periodo, a metà dell’inverno astronomico, fra il solstizio d'inverno e l'equinozio di primavera. Già lo facevano i Celti con la festa nota come "Imbolc" (che vuol dire "in grembo" con riferimento alla maternità pecore, anche se si celebrava la luce), i romani con le celebrazioni della dea Februa (Giunone) con le calende di febbraio e la "Candelora" (festa cattolica così definita anche perché si benedicono le candele), che in parte torna nel Nord America con il "Giorno della marmotta" (altro animale simbolico del risveglio).
Insomma: tutto si mischia, nulla si butta via e ognuno ricicla in chiave moderna quanto lo ha preceduto, inseguendo il ritmo delle stagioni.
Intanto quel che conta è andarci alla Fiera!

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