Invocando la neve

Pensavo l’altro giorno a come l’obbligo in Valle d’Aosta delle gomme da neve a partire dal 15 ottobre fino al 15 aprile sia purtroppo un segno del passato.
Eppure, contro i catastrofismi e considerando fuori dalla norma inverni come quello scorso anno,
nevicherà sempre sulle Alpi, ma non più molto alle quote inferiori per via delle temperature e del rischio pioggia e ci saranno stagioni più corte.
Lo dico guardando al cielo e benedicendo le temperature basse finalmente giunte, che consentono di ”sparare” (verbo usato in positivo!) quella neve artificiale che permette di avere la base su cui si poggerà quella naturale, che ci auguriamo abbondante.
Scriveva Mario Rigoni Stern: “La neve ti mette tanta malinconia. Io ricordo quando sono nella mia stanza o a casa mia e vedo nevicare, la prima neve d'autunno, è una valanga di ricordi che ti preme il cuore”.
Certo per la mia generazione, che ha avuto il privilegio di vedere nevicate monstre, resterà sempre questa nostalgia (nel mio caso venata di allegria) per le "neiges d'antan", cui tanti di noi associano ricordi indelebili d'infanzia. Se penso che mettevo gli sci nei prati a fianco al castello di Verrès a 500 metri di altitudine…
Ma bisogna smitizzare l’espressione, il cui significato esatto, nella celebre poesia di François Villon («Mais où sont les neiges d'antan?»), riguarda la nevicata di un solo anno prima a Bruxelles e non di chissà quando.
Capisco che è deludente, ma è così.
Era esattamente l'inverno del 1511 e scrive di questo evento un professore universitario belga, Paul Verhuyck: "Cet hiver fut si sévère que les habitants bâtirent plus de cent poupées de neige par-ci par-là dans la ville; ce n'étaient pas tout à fait nos bonshommes de neige rudimentaires et enfantins, mais de véritables sculptures artistement ciselées dans la neige gelée". Uno spettacolo incredibile: con statue ispirate alla mitologia greca e latina, a personaggi biblici e popolareschi.
Altro che i pupazzi di neve!
Amo ricordare in queste occasioni le varietà delle bevi proprio nella classificazione francese.
Eccole: Neige croûtée: Couche de neige dont la surface présente une croûte plus ou moins cassante due au regel, au vent, à la pluie...
Neige fondante: neige composée de grains ronds regelés et qui commencent à fondre en surface ous l'action du soleil.
Neige fraîche: neige récente encore composée de particules reconnaissables.
Neige humide: neige contenant de l'eau sous forme liquide. Sa température est toujours de 0°C.
Neige mouillée: neige très humidifiée (pourrie).
Neige poudreuse: neige récente peu transformée caractérisée par une faible masse volumique et une cohésion faible (particules reconnaissables). Certaines neiges transformées (couches de faces planes) peuvent garder ou acquérir un aspect poudreux.
Neige profonde: neige poudreuse d'épaisseur importante.
Neige sèche: neige qui ne contient pas d'eau qainqinsous forme liquide.
Neige soufflée: neige ayant subi une action du vent (transport ou érosion). Les zones d'érosion sont en général caractérisées par une surface irrégulière (neige dure, zastrugis, rides...).
Neige trafollée: neige de surface déjà tracée par des skieurs. C'est un terme du langage familier.
Neige transformée: neige (totalement) métamorphosée ayant subi un cycle de gel/dégel et composé de grains ronds. La couche superficielle présente une croûte très dure le matin qui fond durant la journée.
(source: ANENA Guide Neige et Avalanches. Connaissances, pratiques, sécurité).
Aspettiamola, dunque, questa neve, che assume livree così diverse.

Zucche vuote e zucconi

Fa sorridere il fatto che, nei giorni passati per Halloween, sia stata sdoganata sempre di più la zucca. Con grande impegno molti genitori che conosco - e l’ho fatto anch’io in questi anni - si sono messi a scavare una zucca per ricavarne un faccione e poi piazzarci dentro una candela per dare quell’espressione horror che alla fine fa più sorridere che paura.
Devo dire, pensando al passato, che questa storia di Halloween mi era apparsa, pur distante qual era prima che si affermasse anche da noi, dalle strisce dei Peanuts che guardavo su Linus. All’epoca nessuno poteva pensare che quella tradizione così americana, benché con radici celtiche e dunque europee, si sarebbe infine affermata in Italia.
Ma persisteva, guardando le vignette. un dubbio, che solo di recente ho svelato, pur nella sua evidente inutilità. Ogni anno - così appariva nei fumetti di Schulz - Linus scriveva al Grande Cocomero, come si fa con Babbo Natale. Sosteneva che nella notte di Halloween il grande Cocomero sorgesse per dare dei doni ai bambini. Note sono le strisce in cui Linus aspetta fiducioso l'arrivo del Cocomerone per rimanere poi sempre deluso assieme al fido Snoopy. Il resto della compagnia, per nulla convinto, abbandonava il campo e preferiva il tradizionale "Dolcetto o scherzetto".
Ma il cocomero cosa c’entra con la zucca? In lingua originale si parla infatti di The Great Pumpkin che tradotto letteralmente in lingua italiana diventa La grande Zucca. Questa diversità dipende probabilmente dal fatto che ai tempi delle prime traduzioni italiane la festa di Halloween era del tutto sconosciuta in Italia e si preferì scegliere un frutto mediterraneo più riconoscibile.
La zucca è davvero il frutto che ha molte varianti come forma e colore, pur essendo piante appartenenti tutte al genere cucurbita, che sono coltivate in tutto il mondo. La zucca “alla Halloween” - attenzione! - arrivò in Europa solo dopo la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo.
Nella mia esperienza familiare erano più le zucchine e i fiori di zucca ad essere mangiati, molto meno la zucca.
Fa sorridere scorrere la Treccani per capirne gli usi: “Frutto intero di zucca di media grandezza svuotato della polpa e dei semi e poi seccato, usato (soprattutto nel passato) per la sua leggerezza e impermeabilità come recipiente in cui portare con sé acqua, vino, sale, ecc., o anche come galleggiante e, legato insieme a coppia, per tenersi a galla nell’imparare a nuotare: “Se tu fossi in uno gran pelago, e fossi per affogare, qual vorresti innanzi avere addosso, o ’l vangelo di Santo Giovanni, o la zucca da notare? (Sacchetti)”.
Divertente anche un uso che mi pare scomparso: “Come esclamazione per esprimere vivace e risentito diniego: «Le zucche!» rispose questo Renzo «sapete che diavoli d’occhi ha il padre: mi leggerebbe in viso ... che c’è qualcosa per aria» (Manzoni ne I Promessi Sposi).
Resta invece ben presente il senso scherzoso o spregiativo, quando la zucca diventa la nostra testa: “Ed elli allor, battendosi la zucca ... (Dante)”. E ancora: “in tono di elogio: c’è del buon senso in quella zucca; con questa zucca farai strada”. Un classico sono “le espressioni non avere, o essere senza, sale in zucca (con riferimento all’usanza antica di portare il sale nelle zucche), e avere la zucca vuota”. Ma c’è anche il caso di chi ha il sale in zucca!
Ricordo, infine, l’espressione binaria sei uno “zuccone” e Treccani omette la licenziosa espressione “zucche” per i seni femminili.
Divertente qui in Valle la scelta del mio paese di origine, Verrès, di far nascere, ormai da alcuni anni, una sagra autunnale della zucca (incentivata da distribuzione di semi alla popolazione) con prelibatezza culinarie e il premio alla zucca più grande. Ricordo il “mostro” coltivato da Luca Crétier di Saint-Vincent con un peso di poco meno di 330 kg. , che sarebbe piaciuta a Linus per il suo Grande Cocomero.

Fuggire dall’informazione

Confesso che anche a me capita di essere travolto da questa informazione giornalistica
continua che ci arriva attraverso il cellulare. Una pioggia insistente con notifiche a raffica che si abbatte su di noi, generazione cresciuta con la lettura dei quotidiani e con i telegiornali Rai, oltreché di analoga informazione dei giornali radio. Erano tempi lenti che non creavano angoscia e forme di fatto di dipendenza. La prima rivoluzione avvenne con TV e Radio private e poi, a sconvolgere la carta stampata, il Web con le sue crescenti diavolerie che offrono una gamma di servizi informativi impensabili in passato e certo non ossessivi.
Fatto sta che oggi stiamo sul chi vive, passando da quel che capita nell’angolo di strada sotto casa ad eventi distanti e remoti che ci piombano addosso in tempo reale. Siamo sempre sul pezzo e anche i nervi ogni tanto sono a…pezzi.
Leggevo su Le Monde in un’inchiesta firmata da Célia Laborie del crescente fenomeno di chi decide di staccare la spina e non informarsi più: ”Ces derniers mois, cette tentation de se couper de l’ensemble des canaux d’information se répand dans toutes les strates de la société. D’après une étude publiée par la Fondation Jean-Jaurès en septembre, 53 % des Français déclarent souffrir de « fatigue informationnelle ». Pour y faire face, de nombreux sondés disent mettre en place des stratégies de retrait : désactiver les notifications de son smartphone, surveiller le temps passé sur les écrans, éviter les chaînes d’info en continu…”.
Certo veniamo da un periodo difficile e siamo piombati in altri guai non indifferenti su cui siamo letteralmente martellati ed esiste - l’ho detto spesso - quella logica giornalistica deteriore secondo la quale solo una cattiva notizia fa notizia.
Ancora da Le Monde: “L’aspect particulièrement anxiogène des actualités depuis la pandémie de Covid-19, l’accélération de la crise climatique et l’arrivée de la guerre en Ukraine ont forcément joué. Mais, parmi les facteurs qui les ont poussés à arrêter de s’informer, 34 % citent d’abord les débats jugés trop polémiques et agressifs, quand 32 % évoquent le manque de fiabilité des informations et 31 % l’impact négatif sur leur humeur ou leur moral. La tendance se double d’une défiance accrue envers le travail des journalistes : d’après l’enquête annuelle du Reuters Institute, seuls 29 % des Français déclarent avoir confiance dans les médias – un taux qui a baissé de neuf points depuis 2015”.
Interessante più avanti la ricerca di un nuovo approccio giornalistico su cui riflettere: ”Pour éviter de déprimer complètement leur audience, des journalistes américains ont imaginé au cours des années 1990 les méthodes du « journalisme de solution ». « Les techniques du journalisme classique sont utilisées, mais le principe, c’est qu’on ne s’arrête pas au constat d’un problème de société. On évoque une ou plusieurs solutions qui pourraient permettre de le résoudre », explique Pauline Amiel, directrice de l’Ecole de journalisme et de communication d’Aix-Marseille et autrice de l’essai Le Journalisme de solutions (Presses universitaires de Grenoble, 2020).
Cette nouvelle tendance arrive progressivement en France, notamment en 2007 avec le Libé des solutions, un numéro spécial annuel de Libération entièrement consacré aux remèdes possibles aux maux de notre époque”.
Un modo interessante non per nascondere la realtà con la logica delle “buone notizie”, ma di affrontare temi difficili non solo creando ansia, ma avendo una prospettiva delle posizioni soluzioni per sciogliere nodi difficili.

Brividi per Twitter

È dal gennaio 2012 che sono un utente di Twitter ed è, con il profilo temporaneo di Whatsapp, il Social vero e proprio su cui opero di più tutti i giorni.
A chi mi chiede perché non sono mai entrato su Facebook rispondo sempre che mi ha spaventato il tasso di maleducazione e di litigiosità, mentre coltivo una certa curiosità per Instagram, ma allo stato attuale non avrei il tempo per aggiungere questo Social.
Già la quotidianità di questo mio Blog è un esercizio più impegnativo di quanto sembri e mi fa sorridere chi pensa che abbia chissà chi che mi aiuti nella scrittura, essendo tutta farina del mio sacco, nel bene come nel male.
Certo in questo periodo seguo con curiosità le azioni di Elon Musk, il bizzarro miliardario americano, istrionico inventore di plurime attività, che mai potrà aspirare - come forse gli piacerebbe - a diventare Presidente degli Stati Uniti, essendo nato in Sudafrica e la nascita negli States è condizione non negoziabile per candidarsi per la Casa Bianca.
Non ne ho ancora capito bene le intenzioni sul futuro di Twitter e leggo commenti diversi di chi se ne intende più di me.
Ad esempio Riccardo Luna su La Repubblica annotava qualche giorno fa: “Riepilogo delle prime 72 ore di Elon Musk come proprietario di Twitter (“Chief Twit”, recita la sua bio da venerdì scorso): ha licenziato 3 top manager “per giusta causa”, per provare a non pagare le liquidazioni milionarie previste; ha chiesto a tutti gli sviluppatori di presentarsi da lui con il codice sviluppato negli ultimi 30 giorni per poter valutare, in base al lavoro che hanno svolto, se confermarli o licenziarli; ha fatto modificare la homepage di Twitter mettendo in evidenza le ultime notizie e i Trending Topic; ha lanciato un sondaggio per farsi dire dagli utenti se resuscitare Vine, la app dei video brevi che durò per poco ma che potrebbe tornare utile per fare concorrenza a TikTok; ha condiviso (e poi cancellato) una storia, quasi sicuramente falsa, da una testata giornalistica screditata, sull’attentato al marito di una famosa esponente del Partito Democratico (Nancy Pelosi).
Tutto in un weekend”.
L’aggiornamento di queste ore è il licenziamento di migliaia di dipendenti, evidentemente non passati al suo personale test di efficienza e di utilità.
Aggiunge Luna più avanti speranzoso: “In questa frenesia c’è però un disegno, un obiettivo che vale più di qualunque conto economico: creare una “digital town square”, una grande piattaforma social dove le persone possano informarsi e dialogare senza violenza verbale e false notizie. Possibile? La domanda è importante e delicata, e invece di liquidarla con una risata vale la pena provare a formularla diversamente. Eliminare l’odio online, renderci più comprensivi e tolleranti delle ragioni degli altri, può essere anche una questione tecnologica, può dipendere da come è scritto un software? Se è vero, com'è vero, che negli ultimi dieci anni i social network, per aumentare i profitti, hanno alimentato divisioni e faziosità, hanno sostenuto populismi vari, hanno incoraggiato complottisti e No Vax, e quindi hanno indebolito le democrazie, è possibile, modificando gli algoritmi, arrivare al risultato contrario senza ricorrere alla censura?”.
Insomma: non si capisce ancora se dobbiamo fare il tifo o preoccuparci.
Più inquieta Béatrice Mathieu su L’Express: ”Avec le rachat de Twitter, Elon Musk remet une pièce dans la machine de son délire messianique. Pour s’en convaincre, il suffit de lire la déclaration publiée sur le réseau social pour officialiser l’opération : « La raison pour laquelle j’ai acquis Twitter est qu’il est important pour l’avenir de la civilisation d’avoir une place publique numérique commune où un éventail de croyances peut être débattu de manière saine sans recourir à la violence. »
Certo una grande ambizione. Osserva ancora la giornalista: ”Quand en 2002 il crée SpaceX, c’est parce qu’il est persuadé que l’espèce humaine a un avenir multiplanétaire. Quand il rachète Tesla, c’est pour protéger la Terre de la pollution grâce aux batteries électriques. Quand il développe Optimus, son robot humanoïde, c’est pour soulager l’homme. Comme il entend guérir les patients atteints de maladies dégénératives avec ses implants neuronaux de Neuralink. A rebours des gourous de la Silicon Valley qui plébiscitent les progrès de l’intelligence artificielle, lui en pointe les risques.
Evidemment, Musk n’a rien d’un philanthrope désintéressé. Il a réussi avec SpaceX et Tesla, mais rien ne garantit son succès avec Twitter. Face aux dérives, les Etats se sont armés. Musk a promis de faire la chasse aux faux comptes, d’assurer la fin de l’anonymat et de faire la transparence sur l’algorithme du réseau. Mais, en Europe notamment, il devra se plier aux nouvelles règles du Digital Services Act (DSA). Les plateformes en ligne devront désormais mettre en place un mécanisme de signalement des contenus illicites et être en mesure de procéder rapidement à leur retrait. Mais, derrière le patron-messie, le pirate n’est jamais loin. Il a construit sa gigafactory de Berlin sans permis de construire ; il a décidé du premier essai de son starship sans attendre le feu vert de l’autorité américaine d’aviation…
« L’oiseau est libéré », a-t-il tweeté après le rachat. Oui, mais selon nos règles, lui a répondu par le même canal le commissaire européen Thierry Breton”.
L’Europa - anche se le sue ambizioni spaziali sono state concrete - sul futuro del Web aiuterà Musk a restare con i piedi per terra?

Alcol:quel compagno antico e insidioso

Esistono argomenti scivolosi, che vanno trattati in punta di piedi o meglio in punta di penna, per non prestare il fianco alle critiche.
Parliamo di alcol, che fa solidamente parte della cultura valdostana e questo - se il consumo è consapevole - non è un danno, lo diventa anche tragicamente in caso di abuso e di dipendenza finale.
Per cui è interessante verificare l’impatto sulla nostra società degli usi e anche degli abusi e rispetto al passato anche per la piccola Valle d’Aosta è utile vedere l’impatto di mode e tendenze che ci invadono “allegramente”.
Mi ha molto divertito leggere di una nuova moda nel racconto suggestivo di Giulio Silvano su Il Foglio: “Se in Giappone il governo è costretto a invitare la generazione Z al consumo di alcolici per raccogliere un po’ di tasse sul sake negli Stati Uniti esplode la moda del cocktail con la marijuana, senza alcol ma con dentro il Thc. Basta gin e vodka, solo indica e sativa per i giovani, che vogliono rilassarsi senza innervosirsi, che vogliono fare gli aperitivi in compagnia senza il rischio di risse nei pub, agevolati dall’apertura alle canne legalizzate. Ma cosa sarebbe il mondo oggi senza Bacco, senza il nettare della fermentazione?”.
Viene citato il libro di Edward Slingerland, prontamente acquistato perché sono stato attirato dal titolo “Sbronzi. Come abbiamo bevuto, danzato e barcollato sulla strada della civiltà”, pubblicato in Italia da Utet.
Dice il giornalista: “L’alcol non fa necessariamente sempre bene – coma etilico, dipendenza, gastriti, epatiti, cirrosi, tromboflebiti etc. etc. – ma, come scrive Slingerland, “per essere sopravvissuta così a lungo, e per aver mantenuto un ruolo centrale nella vita sociale dell’uomo, i vantaggi dell’ebbrezza – nel corso della storia umana – devono aver superato le conseguenze negative più ovvie”. Il lato oscuro di Dioniso, che esiste, non è comunque abbastanza forte da vincere il lato luminoso dell’annebbiamento, quello dell’ebbrezza, della scintilla dell’ingegno, come possono dimostrare tanti scrittori e poeti, da Verlaine a Hemingway, da Poe a Baudelaire”.
Ora, non si tratta di esaltare l’alcol o di neppure, per contro, di magnificare la scelta degli astemi, ma di segnalare l’antichissima scelta dell’umanità di avere dell’alcol un uso plurimo e talvolta geniale, che ha assecondato differenze culturali e territoriali.
Scherza ma non troppo Silvano, scrivendo: “La storia insomma sarebbe ben diversa se i nostri progenitori non avessero capito la bellezza della fermentazione. Sembrerebbe che in molte parti del mondo la produzione di bevande alcoliche, birra in particolare, abbia preceduto l’agricoltura di migliaia di anni. Ad esempio nelle Americhe, molto prima che si riuscisse a coltivare il mais, veniva cresciuto il teosinte, da cui si ricavava una farina terribile, ma un ottimo alcolico. La birra era più importante del pane. L’happy hour esisteva ben prima della scrittura. Il lavoro di Slingerland, tenendo in considerazione le diverse discipline, dalla neuroscienza cognitiva alle scienze sociali, dalla genetica alla psicofarmacologia, dimostra che nei millenni l’intossicazione ha aiutato l’essere umano ad alleviare lo stress, a stimolare la creatività e, soprattutto, a socializzare, il primo passo necessario per passare da tribù a città. Federico di Prussia rimase inorridito quando vide che i suoi soldati bevevano caffè e scrisse in un proclama “il mio popolo deve bere birra”, che aiutava il morale e univa gli animi. Ma già tra celti, anglosassoni e germani le bevute e i banchetti servivano a rinsaldare i legami tra i guerrieri. Importante anche il fatto che l’alcol aiutasse a dire la verità, e a creare quindi fiducia tra diverse tribù, e “la socialità ruota intorno alla fiducia”.
E ancora: “Dalla Cina alla Grecia, dall’Egitto a Israele, le antiche civiltà poi non possono prescindere dai rituali alcolici, dal sacrificio e dal cin-cin. E non c’è rituale, non c’è danza, senza un disinibitore, che sia un grog millenario tra i dolmen o un mojito in discoteca. Già nel neolitico in Turchia troviamo rappresentazioni grafiche dell’estasi sul vasellame, nelle tombe dell’armenia troviamo i calici. Il primo miracolo di Gesù, il gesto attraverso il quale mostra i suoi superpoteri divini, è la tramutazione dell’acqua in vino, necessario per continuare i festeggiamenti al matrimonio – trasformando l’acqua in vino “manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”, dice il Vangelo di Giovanni. Secondo Christopher Hitchens è l’unico miracolo meritevole del Nuovo testamento e, aggiungeva sul tema: “L’alcol rende le altre persone meno noiose, e il cibo meno insipido””.
Ovviamente modus in rebus. Mai esagerare e far precipitare la propria vita nel bicchiere se diventa vizio. Ci scherzava lo scrittore Robert Musil: “Se avete intenzione di affogare i vostri problemi nell’alcol, tenete presente che alcuni problemi sanno nuotare benissimo”.

L’Inferno sulla Terra

Per me si va ne la città dolente,

per me si va ne l’etterno dolore,

per me si va tra la perduta gente.

Giustizia mosse il mio alto fattore:

fecemi la divina podestate,

la somma sapienza e ‘l primo amore.

Dinanzi a me non fuor cose create

se non etterne, e io etterno duro.

Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate.
(
(Dante Alighieri)
Ah! L’Inferno dantesco, che è di certo la strutturazione più suggestiva e complessa in poetica di come dovrebbe essere quel luogo, così descritto brevemente nella logica da dizionario: ”Nella concezione cristiana, stato di eterna sofferenza delle anime dei peccatori, consistente nella privazione della visione di Dio, ma raffigurato, nelle credenze popolari, come un luogo dove i dannati scontano per l’eternità le loro colpe non soltanto con pene morali ma anche con tormenti materiali, tra cui soprattutto il fuoco”.
Gaétan Supertino su Le Monde nota, in un suo articolo, come la nozione di ”inferno” sia sempre più applicata a questo nostro mondo: ”La rhétorique de l’enfer se déploie pour décrire notre monde, désignant ici les flammes des mégafeux «qui ont transformé cet été en enfer » (TF1, 13 septembre), là «les tentations des enfers» en Ukraine (Le Figaro, 30 septembre), ou encore «l’enfer du Covid long» (La République de Seine-et-Marne, septembre), pour citer quelques exemples récents.
Dans le contexte de la Toussaint, période de commémoration des morts, ce sont bien les vivants qui s’inquiètent de l’enfer. «Si l’enfer de l’au-delà n’intéresse plus grand monde, l’enfer terrestre est plus populaire que jamais : nous en voyons des images tous les jours à la télévision, et cela n’émeut plus guère», résume Georges Minois.
È Interessante questa logica di “umanizzazione“ dell’inferno, che vale anche nelle sue varianti, secondo diverse religioni, che siano ade, aldilà, averno, inferi, oltretomba, regno dei morti, tartaro e altri ancora.
Su questo osserva l’autore: “L’enfer va progressivement prendre une tournure de plus en plus morale. En Grèce, cela se fera sous l’influence de la philosophie platonicienne et de l’orphisme : les vertueux vont aux Champs Elysées, les méchants sont jetés dans le Tartare. Dans le bouddhisme, les mauvaises actions peuvent conduire aux enfers dans une prochaine vie, sous l’effet du karma.
Mais le concept va surtout se complexifier avec les monothéismes, en particulier le christianisme et l’islam. En plus de punir les non vertueux, le monde infernal vient sanctionner ceux qui rejettent Dieu, les pécheurs. Les livres les plus tardifs de la Bible hébraïque développent l’idée d’une justice divine qui s’appliquerait dans l’autre monde. Alors que le Talmud reste ambigu sur le sujet, le Nouveau Testament et le Coran menacent clairement les pécheurs d’être jetés dans la Géhenne, le feu éternel, probablement inspiré du « Val du gémissement » ou « Gî-Hinnom » hébreu, site d’un ancien culte cananéen où brûlaient des offrandes à Baal”.
Poi l’Inferno si evolve: “Les écrits apocryphes, tant juifs que chrétiens, vont considérablement enrichir l’imaginaire infernal. Les pères de l’Eglise, puis les autorités religieuses du Moyen Age placeront l’enfer au cœur de leur doctrine, et donc de la vie des chrétiens. L’enfer n’est toutefois pas l’apanage des clercs et des théologiens. Peinture, sculpture, architecture, littérature : au Moyen Age, puis à la Renaissance, il est partout. « L’enfer est le lieu où résonnent les plaintes de l’homme coupable voué à un châtiment sans fin », résume l’historien Jérôme Baschet. Il aplanit également les inégalités sociales : pauvres et riches, faibles et puissants, s’y côtoient, et même des papes, comme chez Dante”.
Poi l’inferno si secolarizza e diventa qualcosa che si manifesta fra di noi ancora viventi e su questo chiude Supertino: “A mesure que les sociétés se sécularisent, les autorités ecclésiales vont délaisser la rhétorique de l’enfer – sans jamais l’abandonner totalement. A l’inverse, ce dernier va rester très présent chez beaucoup d’auteurs profanes, de Verlaine et Rimbaud à Sartre et Camus, sans oublier la psychanalyse qui en fera un révélateur de nos fantasmes et de nos pulsions.
L’enfer déménage sur terre et souligne alors la faiblesse de l’homme moderne, devenu individu plongé dans un monde sans dieu(x). Le désigner, le regarder, le raconter, l’analyser, en rire, devient alors un premier pas vers la remise en question. «
”L’objet de l’enfer est moins
de “faire peur” que de “faire agir », écrit Jérôme Baschet à propos de l’enfer médiéval. Cela s’applique peut-être, aussi, à nos enfers contemporains”.
Insomma: una situazione dipinge la condizione umana già in vita anche nei suoi aspetti dolorosi e tragici.

Il rischio dell’assuefazione

Una delle grandi fregature di noi esseri umani, forse accentuata oggi dalla rapidità attuale dei mezzi di comunicazioni e dalle informazioni che circolano di conseguenza con grande velocità, è l’assuefazione. Un termine medico-scientifico, che significa da dizionario “fenomeno che si verifica nell’organismo per effetto della somministrazione continua di un farmaco (analgesici, tranquillanti, ecc.), per cui viene a diminuire, o addirittura ad annullarsi, la sua efficacia”. Si potrebbe usare abitudine, ma non avrebbe la stessa efficacia nel ragionamento.
Mi riferisco alla guerra in Ucraina e al rischio che mese dopo mese la nostra attenzione tenda ad affievolirsi e diventi una specie di rumore di fondo cui ci si abitui. Fatti che perdano importanza per la ripetitività degli eventi e per una naturale tendenza a far spazio ad altro - anche di meglio di quanto ci spaventa - nei nostri pensieri.
Ho letto in questi giorni il terzo libro di Antonio Scurati su Mussolini con il suo efficace racconto di come maturò la Seconda guerra mondiale nel risiko che portò Hitler (inizialmente con la complicità di Stalin e la mollezza delle Grandi potenze rispetto all’espansionismo nazista) a conquistare l’Europa.
Penso sempre, grazie alla passione per la Storia che ha fatto parte dei miei studi e resta una certezza per meglio capire la quotidianità, quanto sia difficile capire le cose quando le si vive hic et nunc. Lo stesso appunto - come ha dimostrato Scurati con i suoi libri precedenti - valse nell’affermazione inaspettata nei suoi esiti di Mussolini e della sua creatura, il fascismo. Una serie incredibile di situazioni, spesso davvero casuali, costruì una tempesta perfetta, che portò al regime e al Ventennio fatto di drammi e tragedie. Solo degli imbecilli possono nutrire nostalgie per quanto avvenne e questo di questi tempi va detto e ridetto contro il revisionismo storico e la ricerca ridicola dei “lati buoni” della dittatura.
Per questo bisogna posizionare con esattezza cosa c’è dietro il progetto di riconquista di Vladimir Putin nella logica di quello “spazio vitale”, che è un progetto che non va bollato solo come folle, per quanto lo sia. Perché è una realtà concreta e violenta sul campo di battaglia nel disprezzo totale di regole di ingaggio e dei trattati internazionali. Siamo di fronte a quotidiani crimini di guerra che non potranno mai e poi mai diventare nella loro ripetitività qualcosa a cui farsi il callo.
Resta da questo punto di vista stupefacente che in Italia, oggi con posti di responsabilità al Governo, ci siano coloro che, nel corso degli eventi, hanno ammiccato a Putin. Lo stesso vale per quella parte di Sinistra stracciona che cela dietro al pacifismo il vecchio vizio antiamericano e mette assieme con un cinismo vergognoso gli ucraini aggrediti con i russi aggressori.
Esiste, infine, un elemento ancora più grave, che deriva forse dalla logica del “al lupo, al lupo”, che ha segnato molte generazioni ed è stata ereditato nel rischio di ottimismo da chi è venuto dopo. E cioè la convinzione che la minaccia nucleare sia alla fine una specie di bluff, perché dalla guerra fredda in poi il deterrente potente ad un uso delle bombe atomiche è stato frutto della consapevolezza che un conflitto reale avrebbe distrutto tutto senza avere a conti fatti vincitori e vinti. Purtroppo sempre la Storia insegna che farsi illusioni spesso vuol dire anche coprirsi gli occhi con la pelle del salame, senza fare i conti cioè con elementi irrazionali e situazioni contingenti che possono far degenerare le cose.
Ecco perché non ci si può consentire logiche di sottostima o, come dicevo all’inizio, di assuefazione. È bene restare vigili e aiutare gli ucraini senza se e senza ma e senza certi distinguo che puzzano di zolfo assieme a chi se ne fa interprete.

Il settarismo colpisce

Certo ambientalismo settario e monomaniaco fa male alla necessaria mobilitazione in favore dell’Ambiente, che è tema che non può essere considerato per fortuna come esclusivo gruppuscoli a vocazione prevalentemente protestataria.
In democrazia gli spazi di libertà devono essere i più ampi possibili, ma quando la logica fideistica si trasforma in una sorta di ossessione bisogna preoccuparsi.
Questo avviene anche in Valle d’Aosta, dove esempi non ne mancano di comitati che protestano, essendo sempre gli stessi membri con diversi cappelli, con logiche di salti di palo in frasca con una sola logica: essere contro.
Ma oggi mi occupo della storia esemplificativa e in diffusione nel mondo di quelli che entrano nei musei e imbrattano tele famose per protestare contro petrolio e suoi derivati.
Inquadra bene - tratto dalla traduzione fatta da Internazionale - la questione Karin Pihl sul giornale svedese Göteborgs-Posten.
Così scrive: “Negli ultimi anni gli attivisti radicali hanno manifestato per il clima bloccando le strade e incollandosi alle piste degli aeroporti. Ora hanno adottato una nuova strategia. In diverse città i militanti del gruppo Just stop oil hanno compiuto delle azioni dimostrative contro l’uso dei combustibili fossili nelle gallerie d’arte e nei musei. Il metodo è semplice: scelgono un’opera famosa e, per fare clamore, ci s’incollano, scandendo messaggi sul fatto che la fine del mondo è vicina.
In due casi hanno anche versato del cibo sui dipinti prima di incollarsi davanti alle opere”..
Più avanti argomenta: “La tendenza a entrare in musei e gallerie e colpire all’impazzata è pericolosa perché – anche se non è l’intenzione iniziale – si corre il rischio che un’opera finisca per essere gravemente danneggiata nella concitazione. E gli attivisti non hanno scelto delle opere qualunque, ma le più famose del mondo, di valore inestimabile.
L’aspetto più provocatorio, però, è che attaccano l’arte. Fare un sit-in per strada o cercare di fermare il decollo degli aerei sono ovviamente delle idiozie, ma c’è una logica dal punto di vista ambientale. Se non vuoi che le persone prendano l’aereo, ti siedi sulla pista. Il nesso è evidente, anche se ovviamente questo tipo di protesta non ha nessun effetto positivo sulle persone coinvolte o sull’ambiente. Invece, il collegamento tra andare in un museo e la necessità di ridurre la dipendenza dal petrolio non è chiaro. Cosa c’entra Van Gogh con le politiche sul clima britanniche? Niente. Quando gli attivisti gridano “Cosa vale di più, la vita o l’arte?” prendono in ostaggio l’arte, in questo caso il nostro patrimonio culturale. L’idea è che nulla è sacro e che dobbiamo fare come vogliono loro se in futuro vogliamo visitare indisturbati musei e gallerie”.
Ne deriva questo giudizio: “È l’espressione di una combinazione di narcisismo e fanatismo. Narcisismo, perché gli attivisti mettono il loro bisogno di esprimere un’ideologia politica davanti al diritto degli altri di ammirare i quadri più apprezzati del mondo. Fanatismo, perché credono che le loro convinzioni politiche gli diano il diritto di sentirsi superiori a qualsiasi legge o norma sociale”.
Il tono sarà molto diretto, ma fotografa bene il limite di buonsenso che si travalica nel nome di una “fede verde” che diventa patologia simile ad un estremismo religioso.
Aggiunge il giornalista: “È delicato anche il fatto che se la prendano proprio con l’arte. Ancora oggi artisti e scrittori sono imprigionati e addirittura uccisi. È difficile non pensare ai bombardamenti di antiche moschee e chiese da parte del gruppo Stato islamico o all’aggressione contro lo scrittore Salman Rushdie. Voler limitare l’espressione artistica e il diritto delle persone a fruirne per le proprie convinzioni politiche è una forma di mentalità settaria: tutto è considerato secondario rispetto alla lotta e alle idee che la alimentano.
Gli attivisti non puntano a imporre la censura finché non avremo risolto la crisi climatica né hanno esercitato violenza contro le persone. Il loro comportamento, però, trascina nel fango la questione climatica perché si servono di metodi che non appartengono a una società civile. Così facendo, non attirano simpatie al movimento e ai suoi obiettivi”.
Già, esiste in tutto questo una miopia di fondo: l’incapacità di trovare soluzioni e usare il NO come espressione corrente, accompagnata da disprezzo per chi la pensa diversamente. O si si è con loro con le loro soluzioni o si è contro di loro. L’esatto contrario del confronto.
Esempio lampante: le energie rinnovabili come alternativa al petrolio. Poi per i professionisti del dissenso scatta la protesta, quando si vogliono costruire parchi eolici o fotovoltaici e questo vale anche per gli impianti idroelettrici. Non si discute nel merito caso per caso, come giustamente dovrebbe essere, ma si cavalca la protesta per partito preso.
L’Ideologia che sfocia nel Dogmatismo si sostituisce alla Ragione.

Sovranità alimentare e Merito

Non sopporto più le polemiche politiche inutili, quelle che ascolto nel dibattito politico italiano su questioni alla fine futili e ripetitive e mi innervosiscono quelle che subisco talvolta nel mio lavoro in politica, quando parte dell’opposizione è inutilmente aggressiva nel metodo in un gioco delle parti che diventa svilente e non arricchente anche nel merito.
Pensavo al can can nato attorno a due termini aggiunti alla definizione dei Ministeri nella composizione del Governo Meloni.
Il primo è “Sovranità alimentare” aggiunto all’Agricoltura, il secondo è “Merito” appiccicato a Istruzione. Apriti cielo: l’etichettatura ha indignati una parte della Sinistra, che pare farsi incendiaria prima di pensare.
Sulla prima questione - come ben spiegato da Alessandro Trocino sul Corriere - siamo di fronte ad una ricopiatura, avendo Romanha guardato a Parigi: “Anche i francesi hanno dato lo stesso nome a un ministero: Souveraineté alimentaire. Certo, dalle parti di Macron non sono estremisti di sinistra, ma neanche post-fascisti, come i francesi amano definire Fratelli d’Italia”.
Poi aggiunge: “Questa locuzione è stata usata per la prima volta nel 1996 al summit mondiale per l’alimentazione da Via Campesina, che riunisce 182 organizzazioni di contadini di 81 Paesi, per contestare il Wto, appena nato. L’idea era quella di proporre un’alternativa alla liberalizzazione del commercio agricolo e all’industrializzazione dell’agricoltura e dell’alimentazione. Quello contro cui si combatte è la mondializzazione (o globalizzazione) delle politiche agricole. Il modello contestato è quello degli scambi internazionali che grazie all’economia di scala riducono i costi ma tolgono sovranità e soldi ai contadini e alle organizzazioni locali, per favorire le multinazionali agroalimentari”.
E ancora: “C’è anche una definizione specifica data da Via Campesina della sovranità alimentare: «Il diritto delle persone a produrre in maniera autonoma alimenti sani, nutrienti, adatti al clima e alla cultura, utilizzando risorse locale e con strumenti ecologici, principalmente per rispondere ai bisogni alimentari locali e delle loro comunità» “.
Chiosa Michele Serra su Repubblica: “Capitasse, dunque, che la destra scippasse alla sinistra, magari storpiandolo in chiave nazionalista, il concetto di sovranità alimentare, la colpa sarebbe soprattutto della derubata. Molto distratta”.
Sulla questione del merito è, sempre da Sinistra, Pietro Ichino a sgonfiare il caso: “La scuola non può essere fattore di uguaglianza sociale se non impara a valutare e premiare il merito molto più di quanto non lo faccia oggi. Più in generale, è l'intera amministrazione pubblica che ha bisogno di questa rivalutazione del merito al proprio interno; e la sinistra dovrebbe far proprio questo obiettivo perché di un'amministrazione che funziona bene hanno bisogno soprattutto i più deboli e i più poveri”.
E sempre sulla scuola: “Potenziare l'istruzione pubblica significa, certo, investire di più sull'edilizia e le attrezzature didattiche; ma significa soprattutto investire sul miglioramento della qualità dell'insegnamento, cioè sulla capacità e l'impegno degli insegnanti. Questo implica non solo una formazione migliore di questi ultimi, ma anche inviarli a insegnare dove occorre e non dove fa comodo a loro. Implica far sì che la struttura scolastica sia capace di valutarne la prestazione per poter retribuire meglio i più bravi e allontanare dalle cattedre quelli che non conoscono la materia affidata loro, o non sanno insegnarla, o più semplicemente non hanno voglia di farlo. E per valutare gli insegnanti occorre anche rilevare capillarmente l'opinione espressa su di loro dalle famiglie e dagli studenti. In altre parole, potenziare la scuola significa mettere al centro il diritto degli studenti, in particolare dei meno dotati, di quelli che non hanno alle spalle una famiglia colta. Nella scuola pubblica italiana tutto questo finora non si è fatto, perché vi si oppongono i sindacati degli insegnanti”.
Ancora più ruvido quest’oggi sul Corriere Angelo Panebianco: “Le alzate di scudo preventive contro il merito, sono spiegabilissime. Perché chi volesse davvero affrontare questo problema dovrebbe occuparsi anche della qualità dell’insegnamento. Ossia, degli insegnanti. Per esempio, dovrebbe creare carriere su basi meritocratiche. Un tentativo in questa direzione lo fece tanti anni fa il ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer. Venne subito fermato dalla dura reazione della Cgil-scuola. Auguri al ministro competente se vorrà mettere le mani dentro quella tagliola”.
Aggiungo solo che - in una scuola che dev’essere attenta ad ogni alunno in difficoltà o in ritardo - bisogna evitare per contro che il meritevole non abbia gli strumenti per esprimersi al meglio ed è bene ricordarlo per evitare polemiche superficiali.

Le canzoni di una vita

Le canzoni sono la colonna sonora della nostra vita. Basta ascoltarne una e se ci appartiene in qualche modo si accende una lampadina che la collega a qualche evento o più semplicemente riporta alla memoria musica e parole con incredibile spontaneità.
Scrisse argutamente Eugenio Scalfari: “La canzonetta custodisce la memoria. A guardar bene è un contenitore di memoria, probabilmente il più perfetto a stimolare quella parte del cervello che conserva i ricordi del passato, i volti, i luoghi, le vicende, gli amori e i dolori, insomma la biografia delle persone”.
Aggiungeva nella logica pluriuso il grande George Moustaki: “Una canzone? “E teatro, film, romanzo, idea, slogan, atto di fede, danza, festa, lutto, canto d’amore, arma, prodotto deperibile, compagnia, momento della vita”.
Dico sempre e ribadisco che anche su questo nessuna generazione precedente a quella della seconda metà del secolo scorso ha vissuto anche in questo rivoluzioni tecnologiche senza eguali. La solfa è sempre la stessa e volgarmente si dice che siamo passati - anche se so che l’espressione non è esatta - dall’ analogico al digitale. Certi apparecchi con cui si ascoltava la musica erano più meccanici nel senso vero e proprio!
Oggi la musica la si può ascoltare con diverse modalità e con una ricchezza di offerta che fa impallidire noi che andavamo a comprare dischi e musicassette e poi ci siamo ingegnati con walkman, CD, MP3 e iPod sino agli attuali streaming online.
La televisione e la radio sono stati una presenza rivoluzionaria con l’uscita dal monopolio Rai negli anni Settanta. Trasmissioni come l’ancora vivo Festival di Sanremo (che sembra ormai il paleolitico rispetto a XFactor e simili) e il Disco per l’Estate e il Festivalbar dettavano la linea.
Oggi mi pare che, a parte l’ancora crescente dominio angloamericano, si affermi una gigantesca kermesse di canzoni usa e getta con capacità delle major musicali di far emergere successi non solo per abili capacità di costruire personaggi, ma per campagne di marketing che impongono canzoni che appaiono dappertutto e sono spesso prodotti di laboratorio (in sala d’incisione, beninteso).
Eppure, cari lettori, basta poco per capire che cosa distingua il grano dalla pula e i fuoriclasse emergono come esempio per i “nuovi” che spesso durano il tempo di un cerino.
Nelle scorse ore, a proposito di canzoni rievocative, mi sono goduto il concerto del duo - cominciarono già in coppia agli esordi! - Francesco De Gregori e Antonello Venditti. Non solo è stato un tuffo in canzoni che sono state un caposaldo nei
miei decenni passati, ma la scoperta banale di come una band con professionisti di gran calibro e cantanti intonati efficaci facciano faville.
Come ha cantato il grande Francesco Guccini: “La canzone può aprirti il cuore | con la ragione o col sentimento | fatta di pane, vino, sudore | lunga una vita, lunga un momento. | Si può cantare a voce sguaiata | quando sei in branco, per allegria | o la sussurri appena accennata | se ti circonda la malinconia | e ti ricorda quel canto muto | la donna che ha fatto innamorare | le vite che tu non hai vissuto | e quella che tu vuoi dimenticare”.

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