Regole per l’Intelligenza Artificiale

Sento molte cose interessanti sull’Intelligenza Artificiale, perché molti di noi hanno giochicchiato con i prodotti già in circolazione. So bene come questi siano solo la punta di un iceberg molto più corposo, che in certi settori - la Difesa è sempre al primo posto - ha raggiunto livelli elevatissimi nelle applicazioni.
Tanto che chi se ne intende, come il miliardario Elon Musk con una serie di esperti del settore tech, ha proposto un appello per chiedere una pausa nello sviluppo dei potenti sistemi di intelligenza artificiale (AI) per concedere il tempo necessario a elaborare regole per il suo controllo. In materia più terra a terra sono molti a ipotizzare scenari da fantascienza con robot che sostituiranno noi uomini con conseguenze sociali drammatiche, ad esempio nel mondo del lavoro.
Ne ha scritto su Le Monde il sociologo Juan Sebastian Carbonell:
“Ces discours technofatalistes et apocalyptiques n’ont rien de nouveau. Après tout, à chaque révolution industrielle a été proclamée la disparition du travail et a été opposé le « progrès technologique » au bien-être des travailleurs et des populations, même si jamais de telles prédictions ne se sont confirmées”.
Ma esiste forse un elemento di riflessione del sociologo che stuzzica e cioè che vale anche il contrario e cioè una esaltazione dei risultati raggiunti per spingere una “bolla” economica importante: ”D’abord, d’entrepreneurs du secteur du numérique qui cherchent à faire parler de leurs services et à attirer des financements. C’est ce qui explique que les discours sur les révolutions technologiques sont hyperboliques et exagérément optimistes. Ce n’est donc pas un hasard si, après l’engouement autour de ChatGPT en début d’année, Microsoft a décidé d’investir 10 milliards de dollars (9,1 million d’euros) dans OpenAI, entreprise propriétaire du robot conversationnel”.
Anche Google spinge non caso nel settore e Carbonell, con molto realismo, spiega come esista intanto in tutto questo settore digitale uno stato di precarietà, com’è avvenuto - questo lo ricordo io - con licenziamenti decisi da Facebook è da Twitter: “Les discours enthousiastes sur les nouvelles technologies ont une fonction : ils contribuent à leur acceptation, au-delà de leurs conséquences sociales ou politiques, et deviennent une sorte de prophétie autoréalisatrice. La croyance en une révolution technologique favorise l’allocation de ressources supplémentaires pour le développement de ces technologies et leur introduction sur les lieux de travail, renforçant à son tour l’idée d’une révolution technologique”.
Insomma: un tema assai complesso e di cui capire le conseguenze passo a passo o molti aspetti li capiremo solo vivendo. Quel che è certo è che tra i catastrofisti e gli eccessivamente ottimisti esiste un juste milieu. Il progresso non si ferma mai e i possibili rischi di qualunque nuova tecnologia vanno sempre arginati dalle regole e dal loro rispetto.
Conta dunque la reazione dei legislatori, sapendo quanto la democrazia sia in gioco, visto che i player della Intelligenza Artificiale hanno dimensioni globali che pretendono da parte degli Stati risposte condivise ed efficaci. Non è facile e sappiamo già quanto siano troppo spesso inefficaci le istituzioni internazionali, cui spetterà il ruolo di avere una governance seria per evitare che certe preoccupazioni legittime si trasformino in rischi reali.

Verso il 18 maggio

Manca ormai poco all’appuntamento del 18 maggio (giorno della scomparsa della fulgida figura di Émile Chanoux e quindi un simbolo). che spero sarà davvero la prima tappa verso una réunion, réunification, recomposition o come diavolo la si voglia chiamare dell’area autonomista. Una specificità della vita politica, pubblica e istituzionale che va mantenuta e deve essere rilanciata, pur tenendo conto di come le cose nel tempo cambino e di come ci sia bisogno di un sussulto di orgoglio e di idee precise e contemporanee per la nostra amata Valle. Da guardare sempre con fierezza identitaria, sentendosi nel contempo cittadino del mondo, perché il nostro non è un nazionalismo giacobino, ma un patriottismo buono.
Basta guardare l’atto fondativo dell’Union Valdôtaine del 1945 per capire dove si voglia andare con le opportune modernizzazioni rispetto all’oggi, anche se anche già allora molti dei firmatari fecero poi scelte diverse, andando verso i partiti nazionali. I migliori restarono fedeli alla scelta autonomista, come molti di noi, che - pur uscendo a suo tempo e con profondo dolore dal Mouvement - oggi credono che ci siano regole e modi per ripartire uniti.
Circostanza quella di chi sceglie partiti nazionali, allora come ora, che abbiamo visto anche noi autonomisti in questi anni. Infatti, oltre alla diaspora unionista, abbiamo potuto osservare un fenomeno interessante. Se ne sono andati altrove e non saranno della partita il 18 maggio coloro che avevano scelto l’UV solo per opportunismo e che se ne sono andati altrove - una molto casi aggiungerei ”per fortuna!” - per la medesima ragione. Auguro a loro successi e fortuna e su alcuni già in passato avevo espresso perplessità non ad personam, ma con la preoccupazione della malafede di chi sale sul carro dei vincitori solo per ottenere dei vantaggi e non per un credo.
Mi rivolgo in particolare a due categorie in vista del 18. Agli scettici di tutti i gruppi autonomisti, che vivono di vecchi rancori sotto i rispettivi campanili e anche - per essere onesti - di preoccupazioni legittime sulla tenuta di un rimettersi assieme, dopo liti, separazioni e parole grosse che ci sono state gli uni contro gli altri. Nessuno chiede perdono a nessuno - lo dico reciprocamente - ma esiste un interesse superiore per il nostro futuro come popolo valdostano e chi si attarda in polemiche o in preoccupazioni talvolta più personali che politiche non rende un buon servizio alla causa comune.
Il secondo appello riguarda giovani ma pure meno giovani che non abbiano mai militato in area autonomista. E ora di esserci e di scegliere e mi riferisco a chi non ha mai scelto la strada di una militanza politica o si è approcciato in passato, restandone deluso. Capisco tutto e so quanto ci siano comprensibili elementi di delusione o sfiducia, ma è proprio con il proprio impegno personale che si possono migliorare le cose.
Il percorso avviato spero porterà al risultato sperato contro gli scetticismi e i sabotaggi e che possa vedere coi miei occhi un ritorno a epoche in cui, fra liti furibonde e confronti sanguigni, si arrivava infine a scelte comuni per risolvere problemi concreti, aggiungendo al sano pragmatismo anche quegli elementi ideali senza i quali la politica sarebbe solo amministrazione senza valori e speranze. A questi ultimi ci si deve ispirare per dare un senso più elevato al nostro impegno e alla nostra vita.

Per il 25 Aprile ci sono perché…

Sono fuori Valle per questo 25 aprile, ma è come se ci fossi:
Ci sono perché vengo da una famiglia antifascista;
Ci sono perché aborro fascismi vecchi e nuovi e anche le altre forme di totalitarismo;
Ci sono perché questa è una Festa che nasce da un momento di gioia e di Liberazione;
Ci sono perché ho avuto partigiani in casa (il più giovane, zio Mario, aveva 16 anni!) e ne ho conosciuti tanti e li ho ammirati;
Ci sono perché la Resistenza fu, laddove ci fu e ciò non avvenne in tutta Italia, un movimento con tante anime;
Ci sono perché la Resistenza ha significato “salire in montagna”, rifugio e culla di libertà per i partigiani;
Ci sono per affermare che nessuno può impadronirsi, come nulla fosse di valori democratici di tutti, usando solo le proprie bandiere;
Ci sono perché i miei figli sono stati educati ai valori e alle idee che li rendono persone libere;
Ci sono perché dal 25 aprile nasce il lievito che portò alla Costituzione e all’Autonomia della mia Valle anche grazie a chi veniva dal mondo autonomista e federalista in cui credo;
Ci sono perché odio chi infrange la libertà altrui e non può festeggiare questa data chi fa occhiolino ai russi invasori dell’Ucraina;
Ci sono perché da certe radici - compresa la “nostra” Dichiarazione di Chivasso - è nata l’odierna Unione Europea, baluardo della Pace in Europa;
Ci sono perché mio papà e mio zio Émile furono internati in Germania perché non aderirono alla Repubblica di Salò;
Ci sono perché mio papà aiutava durante la guerra a portare gli ebrei in fuga in Svizzera e poi, paradosso, si trovo alle porte di Auschwitz;
Ci sono perché mio nonno, Prefetto di carriera, venne cacciato dal Regime perché considerato non fedele dai fascisti;
Ci sono perché mio zio Ulrico fu capo partigiano di Giustizia e Libertà e mi raccontò tutto;
Ci sono perché il mio collega al Parlamento era il partigiano César Dujany, fieramente cattolico e autonomista;
Ci sono perché mia zia Eugénie venne sospesa dall’insegnamento non avendo portato i suoi allievi al funerale di un gerarca fascista;
Ci sono perché mio zio Séverin (erede in politica di Émile Chanoux), mio zio Antoine (morto purtroppo per un incidente il giorno della Liberazione di Aosta) e mia nonna Clémentine furono nella Jeune Vallée d’Aoste sin da subito;
Ci sono perché mia mamma adolescente, con le due sorelle ragazzine e i miei nonni, dovettero fuggire in campagna per evitare i bombardamenti;
Ci sono perché mi sono stufato di negazionismo e revisionismi delle stupidaggini pericolose dei nostalgici;
Ci sono perché “ora e sempre Resistenza” non giustifica un uso violento dei valori resistenziali di certi facinorosi.
Ci sono perché “Insieme a oppressione e sangue, volgarità e cattivo gusto, la caratteristica principale di una dittatura fascista è l’ignoranza, il disprezzo per la cultura, l’analfabetismo”(Oriana Fallaci)
Ci sono infine perché sono contro qualunque dittatura: “ll suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione tra realtà e finzione, tra vero e falso, non esiste più” (Hannah Arendt)”.

Valens è Lassù

Muore Paolo, il mio più cara amico ai tempi del Liceo e lo fu poi negli anni successivi. Undici anni fa aveva scoperto di avere un cancro al pancreas. Mi telefonò allora per dirmi che aveva pochi mesi di vita. Era disperato. Poi, a dispetto della diagnosi infausta, reagì ad una cura, partecipò a congressi medici come esempio positivo e collaborò con l’associazione sui tumori neuroendocrini, cui si rivolse anche un mio conoscente malato e lui fu gentile e disponibile, come da suo carattere.
Valens, come lo chiamavamo a scuola usando un latinismo per scherzare sul suo cognome, era un canavesano doc e ci teneva. Con lui, acuto e scherzoso, abbiamo non solo studiato e giocato a scuola in un clima divertente e goliardico, proseguito anche nei primi anni di Università. Ogni tanto si saliva a casa sua a La Thuile e il clima era sempre da ”Amici miei”: quella complicità che si crea con persone che si capiscono al volo e hanno una legittima joie de vivre. La stessa chimica che ci ha legati sino ad oggi, anche quando non ci si sentiva abbastanza per le strade diverse della vita. Preziosi gli incontri con tutti i compagni di classe della nostra Terza B del Liceo Classico Carlo Botta di Ivrea. Un campionario di personalità varie, affiatato ancora ora come allora e con legami forti non spezzati dalla Maturità del 1978. Lo dimostra un bizzarro gruppo Whatsapp con cui comunichiamo da tempo, come se fossimo seduti in classe nei nostri rispettivi banchi.
Paolo ha scoperto il ritorno del cancro alla fine dello scorso anno e non me lo ha detto. Penso che ritenesse con il suo garbo di dirmelo ad allarme spento. E invece - quando lo abbiamo scoperto - è andato tutto diversamente e non ha voluto vedere me e neppure altri, lasciando il mondo con quel suo modo di fare sabaudo, di cui era fiero e assieme un pizzico caustico.
Lascia il suo amato figlio, la cara mamma e la compagna che lo ha assistito nel suo ultimo tratto di vita.
Purtroppo non me la sento di sorridere, come avevamo sempre saputo fare, anche quando le cose non giravano come avremmo voluto. Però mi sforzo di pensare solo alle cose belle, a come si stava bene assieme e a come sapevamo distillare il buono e scartare il cattivo.
Aveva scelto per senso del dovere, avendo perso il papà troppo giovane, di restare a lavorare nel tuo grande mulino industriale del Canavese. Gli avevo chiesto qualche tempo fa di capire le conseguenze sul prezzo del grano a causa della guerra in Ucraina e me lo avevo spiegato bene con la competenza di chi, ogni settimana, combatteva alla Borsa del grano a Torino. Ora so che stava già combattendo una battaglia ancora più difficile.
Ora mi rivolgo a te.
Chissà cosa avresti fatto nella vita, se avessi tagliato il cordone ombelicale con il mulino. Penso che con la tua intelligenza avresti potuto fare qualunque cosa e so bene che la routine un po’ ti annoiava, come certe ingiuste delusioni d’amore ti avevano ferito, ma eri troppo responsabile per lamentartene ed eri sempre attento - ad impegnare il tuo grande cuore - al tuo ruolo di papà.
Ora te ne vai troppo presto e fallisce quella nostra idea di passare più tempo un giorno assieme, quando saremmo stati vecchi come il cucco e, invece, ti sei portato avanti e io ti voglio bene, perché nessuno - neppure il maledetto tumore - può cancellare i nostri ricordi con quella nostra giovinezza piena di gioia, ideali e speranze. Ricordo come oggi quando il Professore di Filosofia ci fece illustrare quella nostra teoria sul ciclo della vita e sul fatto che non si moriva mai davvero. Per non dire delle discussioni infinite sul mondo nelle sere passate in via Gioberti a Torino in quella specie di comune di studenti, cui partecipava - come saggio - anche mio fratello Albert!
Sappi, caro Valens, che sarai con me finché vivrò e magari ci rivedremo Lassù.
Valens era fiero di essere stato Alpino e come dice il canto “Signore delle Cime”:
Santa Maria, Signora della neve, copri col bianco, soffice mantello
il nostro amico,
il nostro fratello.
Su nel Paradiso,
su nel Paradiso lascialo andare
per le sue Montagne.

Preoccupazioni alpine

Gira che ti rigira alla fine molte comparazioni che riguardano il territorio valdostano guardano obbligatoriamente verso Trento e Bolzano, le due Province autonome sono - fra i territori italiani che godono di un’autonomia speciale - quelli più simili a noi.
Per questo leggo ogni giorno le notizie che vengono dal Trentino-Alto Adige/SüdTirol e trovo sempre argomenti interessanti e di questi tempi spicca la questione dell’orso e già da tempo gli interventi loro, talvolta concertati con noi, sul lupo è la sua espansione.
Leggevo in queste ore di questa preoccupazione che ci accomuna sul Corriere dell’Alto Adige: “Circa l’80% delle aziende alpicole altoatesine vede nel ritorno dei grandi predatori la sfida principale da affrontare. Per fare un paragone, la scarsità d’acqua è percepita come un problema da meno del 20%. L’analisi, pubblicata dall’Istituto ricerca economica della Camera di commercio di Bolzano, ha riguardato 420 aziende alpicole attive. Un tema, purtroppo, tornato drammaticamente d’attualità dopo quanto successo a Caldes.
In Alto Adige, da sempre gli agricoltori chiedono maggiori tutele per gestire lupi e orsi: le misure di tutela considerate più urgenti sono soprattutto la regolazione della popolazione di animali pericolosi, l’eliminazione di quelli problematici e la realizzazione di zone senza la presenza di lupo. Anche perché difendersi significa far aumentare le spese di manutenzione. Lo ha ribadito il presidente del Bauernbund Leo Tiefenthaler: «L’alpicoltura tradizionale è incompatibile con la diffusione dei grandi predatori: senza una regolazione puntuale di queste specie, gli animali non saranno più estivati e i pascoli alpini saranno abbandonati, con conseguenze devastanti per il paesaggio, la biodiversità e il turismo»”.
Sono tali e quali - per fortuna sinora senza l’orso - gli argomenti a difesa dei nostri alpeggi e del ruolo capitale di conservazione di ampi spazi del territorio montano. Ma, per alcuni è cioè soliti noti ambientalisti della domenica e degli animalisti salottieri, a dar fastidio sono le attività umane e gli animali allevati sono evidentemente considerate creature di serie B, adatte al sacrificio in nome dei predatori.
Ancora l’articolo, che cita un mio vecchio amico: “Sul tema è nettissimo anche il presidente della Camera di commercio, Michl Ebner: «Il lupo è attualmente una delle principali minacce per gli animali estivati e poiché non è più a rischio di estinzione, il quadro giuridico dovrebbe essere adattato per consentire la regolazione della popolazione e creare zone prive di lupi».
E proprio la regolamentazione dell’abbattimento dei grandi carnivori è uno dei dossier aperti tra la Provincia, il governo nazionale e l’Unione europea: «La conservazione dell’alpicoltura è uno degli obiettivi principali a livello politico ed è di conseguenza sostenuta anche con sovvenzioni. Tuttavia, l’alpicoltura rimane una sfida e ne siamo consapevoli. Per quanto riguarda il problema dei grandi predatori, la situazione attuale in Trentino ha dimostrato quanto sia difficile regolarli. È quindi importante lavorare insieme ad ogni livello. Da parte mia, continuerò ad impegnarmi affinché le aziende alpicole mantengano il loro importante ruolo anche in futuro».
Possibile che certe necessità non vengano capite e basta scrivere qualcosa sugli abbattimenti selettivi e ci si trova di fronte ad una cabra di polemiche e di insulti sui Social?
Ritrovo una vecchia intervista, assai illuminante, fatta da Matteo Nicco su la Repubblica, allo scrittore e filosofo basco,Fernando Savater, in cui si occupa degli animalisti l’antispecismo, forma radicale dell’animalismo, che promuove con toni che arrivano all’abbruttimento della natura umana nella visuale del superamento del cosiddetto specismo, ovvero della concezione secondo la quale la specie umana è superiore a livello ontologico e morale rispetto alle altri specie animali.
Savater: «Il problema dei nostri giorni è che, soprattutto in città, non si sviluppa più alcuna relazione con gli animali. Io ho conosciuto una Spagna rurale. Qui fuori, sulla Gran Via, passavano le pecore per la transumanza. Oggi si conoscono solo gli animali di Walt Disney e si stenta a vedere in cosa essi siano diversi dagli uomini. Ciò ha portato a una sorta di antropomorfizzazione degli animali. Una tendenza che spinge ad accreditare le forme più estreme di animalismo, come l' antispecismo di Peter Singer, ossia l' idea che tra le specie animali non ci siano distinzioni di sorta».
E ancora: «Non distinguere gli uomini dagli altri esseri viventi è nefasto. Perché la morale riguarda solo gli esseri umani. Purtroppo però ormai si tende a scambiare la morale con la compassione. Ora, la compassione è un sentimento buono, per carità, e tuttavia non è la morale. Vede, è molto più semplice di quanto si creda. Mettiamo che passeggiando trovo un passerotto caduto dal nido. So che è in pericolo e poiché sono persona compassionevole, lo raccolgo e lo metto in salvo. Questo è molto bello. Ma è ben diverso dal caso in cui io mi imbattessi in un neonato abbandonato per strada. Lì non si tratta di compassione. Io ho il dovere morale di occuparmene. Questa differenza non la intendono gli antispecisti. Singer è arrivato a dire che se mi trovo di fronte un bambino con tare mentali o fisiche irreversibili e un vitello in perfetto stato devo scegliere il vitello e sopprimere in culla il bambino senza farlo soffrire».
L’estremismo è una brutta storia e investe con la sua forza bruta ogni forma di razionalità e ciò avviene anche nel ragionare sul rischio vero che sulle Alpi non ci siano limiti alcuni allo sviluppo di predatori senza competitori, che non sia l’uomo.

Il “Tu” che deborda

Il grande Umberto Eco scriveva nel 2015 su di una questione che in questi anni si è pure accentuata e cioè l’uso ormai generalizzato e talvolta imbarazzante del “Tu”.
Ecco le sue osservazioni su la Repubblica: “La lingua italiana ha sempre usato il Tu, il Lei (al plurale Loro) e il Voi. Voi sapete che la lingua inglese (reso arcaico il poetico e biblico Thou) usa solo il You. Però contrariamente a quel che si pensa lo You serve come equivalente del Tu o del Voi a seconda che si chiami qualcuno con il nome proprio, per cui “You John” equivale a “Tu, John” (e si dice che gli interlocutori sono in “first name terms”), oppure il You è seguito da Mister o Madame o titolo equivalente, per cui “You Mister Smith” significa “Lei, signor Smith”. Il francese non ha Lei bensì solo il Tu e Vous, ma usa il Tu meno di noi, i francesi “vouvoyent” più che non “tutoyent”, e anche persone che sono in rapporti di gran confidenza (persino amanti) possono usare il Vous. L’italiano (e mi attengo alla Grammatica italiana di Luca Serianni, Utet) distingue tra i pronomi personali i pronomi allocutivi
reverenziali o di cortesia , che sono Ella o Lei o Voi. Ma la storia di questi pronomi è molto complessa. Nella Roma antica si usava solo il Tu, ma in epoca imperiale appare un Vos che permane per tutto il Medioevo (per esempio quando ci si rivolge a un abate) e nella Divina Commedia appare il Voi quando si vuole esprimere grande rispetto (“Siete voi, qui, ser Brunetto?”). Il Lei si diffonderà solo nel Rinascimento nell’uso cancelleresco e sotto influenza spagnola”.
Prosegue con la ben nota competenza: “Nelle nostre campagne si usava il Voi tra coniugi (“Vui, Pautass”, diceva la moglie al marito) e l’alternanza tra Tu, Lei e Voi è singolare nei Promessi sposi . Si danno del Voi Agnese e Perpetua, Renzo e Lucia, Il Cardinale e l’Innominato, ma in casi di gran rispetto come tra Conte Zio e Padre Provinciale si usa il Lei. Il Tu viene usato tra Renzo e Bortolo o Tonio, vecchi amici. Agnese da del Tu a Lucia che risponde alla mamma con il Voi. Don Abbondio da del Voi ad Agnese che risponde per rispetto con il Lei. Il dialogo tra Fra Cristoforo e don Rodrigo inizia col Lei, ma quando il frate s’indigna passa al Voi (“la vostra protezione…”) e per contraccolpo Rodrigo passa al Tu, per disprezzo (“come parli, frate?”)”.
Il Fascismo si era distinto con un’ovvia baggianata: “Il regime fascista aveva giudicato il Lei capitalista e plutocratico e aveva imposto il Voi. Il Voi veniva usato nell’esercito, e sembrava più virile e guerresco, ma corrispondeva allo You inglese e al Vous francese, e dunque era pronome tipico dei nemici, mentre il Lei era di origine spagnolesca e dunque franchista. Forse il legislatore fascista poco sapeva di altre lingue e si era arrivati a sostituire il titolo di una rivista femminile, Lei , con Annabella , senza accorgersi che il Lei di quel titolo non era pronome personale di cortesia bensì l’indicazione che la rivista era dedicata alle donne, a lei e non a lui”. Come non riderne?
Trovo su Le Monde un ideale proseguimento dei ragionamenti di Eco in una articolo di Clara Cini, che mostra l’affermarsi del Tu anche in Francia: “Délaissé du langage familial puisqu’on ne recense en France plus que 20 000 familles utilisant le « vous » – selon la sociologue Monique Pinçon-Charlot –, ce pronom se fait également rare dans le langage du recrutement : l’usage du tutoiement a presque doublé en quelques années dans les offres d’emploi selon le moteur de recherche Indeed. Les échanges contemporains témoignent ainsi de ce que le sociologue Baptiste Coulmont nomme une « culture du tutoiement », vécue tantôt comme une intrusion dans la sphère de l’intime, tantôt comme le relâchement salvateur d’un formalisme langagier”.
Interessante più avanti l’origine della vera e propria svolta: ”C’est après Mai 68 que l’usage du tutoiement s’amplifie de manière notable. En effet, on imagine malaisément les revendications et les devises du mouvement antiautoritaire déclinées au « vous », tel le célèbre « Sois jeune et tais-toi ! ». Refus de l’ordre sociétal et rejet du vouvoiement sont allés une fois encore de pair, infusant durablement les pratiques langagières. Selon le sociologue Jean-Pierre Le Goff, interrogé par La Croix, le tutoiement s’est généralisé dans les années 1970 selon une double dynamique : d’une part, une « évolution sociétale post-soixante-huitarde » aspirant à davantage de liberté, et, d’autre part, l’influence d’un « mode de management d’entreprise inspiré du monde anglo-saxon où tous les salariés sont mis sur le même plan d’implication », du moins en apparence”.
Concludo, a chiusura, con due interessanti citazioni presenti nell’articolo: “Dans La Plaisanterie, le personnage de Milan Kundera, Ludvik, déclare ainsi : « J’avoue ressentir une aversion pour le tutoiement ; à l’origine, il doit traduire une intimité confiante, mais si les gens qui se tutoient ne sont pas intimes, il prend subitement une signification opposée (…) de sorte que le monde où le tutoiement est d’usage commun n’est pas un monde d’amitié générale, mais un monde d’irrespect général. » Plus récemment, Frédéric Vitoux de l’Académie française tonne dans son « Eloge du vouvoiement » que « le “tutoielitarisme” est un totalitarisme » et que le « tu » « uniformise le langage et les rapports entre les individus »”.
Il dibattito è aperto, ma usi e costumi anche linguistici, cambiano.

Più vecchi e l’Europa

Ogni cosa ha il suo rovescio ed è giustamente il caso della crisi demografica in atto pesantemente anche in Valle d’Aosta. Nel senso che giustamente io stesso segnalo spesso le culle vuote e le loro conseguenze sull’assottigliarsi del numero dei giovani nella società futura. Ma è giusto anche riflettere, nella piramide rovesciata, sui molti vecchi (turbo il politicamente corretto…) di un mondo che poggerà su di un vertice sottile anche grazie al sacrosanto aumento della speranza di vita.
Siamo pronti a questa situazione?
Ricordo l’orizzonte valdostano 2036 studiato dal demografo Stefano Rosina. Per le classi di età fra i 20-64 anni si passerebbe dai 72.094 del 2021 ai 62.193 del 2036 e per gli over 65 dai 30.220 ai 37.095. Con il tasso di fecondità attuale la situazione peggiorerà nei decenni successivi in maniera ancora più marcata e si invertirà solo con apposite misure e aggiungerei anche con un cambio di mentalità rispetto a maternità e paternità.
Ho trovato assai interessante a proposito dell’invecchiamento quanto scritto da Niccolò Rinaldi, già parlamentare europeo sul Sito della Fondazione Ugo La Malfa:
“Le cadute peggiori sono quelle che avvengono molto lentamente, impercettibilmente, indolori. Una volta per terra, risollevarsi, chiede uno sforzo mentale oltre che fisico. L’Unione Europea sta scivolando verso la marginalità demografica, e nessuno – nella politica, nei media, nella società – pare accorgersene. Eppure i dati demografici sono noti: siamo la regione più vecchia del pianeta, nessuno è come noi, a parte il Giappone.  Presto la nostra popolazione sarà appena il 4% di quella del mondo, e l’attuale generazione di sessantenni è l’ultima a poter vivere in una società relativamente equilibrata nella distribuzione di fasce d’eptà. Nel 2070 un terzo degli europei avrà più di 65 anni, il 15% addirittura più di 80, e l’aspettativa alla nascita sarà di 90 anni per le donne e di 86 per gli uomini. La sostenibilità del lavoro e dei sistemi previdenziali, oltre che l’approvvigionamento di un’energia vitale della società, saranno assicurate in misura crescente dall’immigrazione. Non è un processo che si possa improvvisare”.
Già, meglio pensarci per tempo e non a caso da anni predico di muoverci nel solco di una norma d’attuazione che spinsi molto sulla questione della sanità integrativa.
Lo pubblico!
DECRETO LEGISLATIVO 24 aprile 2006, n. 208
Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 9 giugno 2006, n. 132
Norme di attuazione dello statuto speciale della regione autonoma Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste in materia di contributi per la copertura di oneri sanitari ed assistenziali.
Art. 1
1. La regione, in attuazione dell'articolo 3 dello statuto speciale e del combinato disposto dell'articolo 117 della Costituzione e dell'articolo 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, nel rispetto dei principi della legislazione statale in materia di assicurazioni sociali, d'assistenza sanitaria e di integrazione socio-sanitaria, puo' disciplinare con legge l'istituzione di contributi, anche obbligatori, a carico dei cittadini residenti nel territorio regionale, destinati alla costituzione di fondi assicurativi volti a garantire ai cittadini l'erogazione delle prestazioni sanitarie e socio-assistenziali previste dalla legge medesima.
2. La legge regionale disciplina le modalita' di accertamento e riscossione dei contributi, nonche' di gestione dei fondi di cui al comma 1, anche mediante affidamento a terzi nel rispetto della normativa comunitaria.
3. La regione puo' altresi' avvalersi, con oneri a suo carico, di enti nazionali operanti nel settore della previdenza e delle assicurazioni sociali o delle agenzie di cui all'articolo 73 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, sulla base di apposite convenzioni”.
Ma torniamo a Rinaldi e alle sue riflessioni: “Per questo la commissaria Dubravka Šuica ha proposto la creazione di un’Agenzia specializzata sulla Terza Età, sperando che le prossime presidenze di turno accolgano bene l’idea per attuarla entro l’anno prossimo. La signora Šuica onora il mandato della sua istituzione, che non è solo quello di fare il guardiano dei trattati, ma anche di guardare avanti, là dove la politica spesso non arriva, per preparare le grandi sfide della nostra società. Finora, tutto tace.
Per quanto l’allergia alla proliferazione di nuove istituzioni possa avere solide ragioni, la commissaria ne ha di più valide. Una risiede proprio nel silenzio con cui la proposta è stata finora accolta: l’Europa ha bisogno di darsi una scossa, di essere più consapevole di cosa l’attende, di cosa lei stessa sta preparando per il suo futuro prossimo, e un organismo permanente avrebbe quantomeno il merito di istituzionalizzare il dramma dell’invecchiamento della società, con un ruolo di monito e di proposte.
Se il mandato accordato a questa agenzia fosse corrispondente all’entità del problema, le mansioni non mancherebbero. L’Europa deve affrontare una transizione verso una società che oltre a essere più vecchia di per sé, lo sarà ancora di più  al cospetto di quasi tutte le altre regioni del mondo. E questo è un fattore capace di condizionare le politiche commerciali e forse anche quelle di sicurezza dell’Unione. L’intelligenza artificiale avrà un ruolo insostituibile nella mobilità, nella connettività e nella medicina. L’organizzazione del sapere – dalla formazione di profili professionali alla stessa industria della cultura e dell’intrattenimento – andrà ridefinita, così come molta parte della logistica e dell’offerta commerciale.
Oltre gli aspetti pratici, vi sono poi quelli macroeconomici, produttivi, finanziari, e l’aggiornamento dell’identità europea – tra le mille cose, sarà forse sempre più difficile anche vincere medaglie alle Olimpiadi?”.
Un’ultimo passaggio illuminante in un periodo in cui una parte della Destra italiana, quella più estrema, si è lanciata sull’orrore della “sostituzione etnica”: “Quanto alle politiche migratorie, tanto quelle in entrata quanto quelle dei giovani in uscita, saranno sempre più condizionate dal fattore Terza Età, per questo dovranno essere ridisegnate uscendo dall’attuale improvvisazione. E ribaltando certe percezioni: l’Europa avrà bisogno di essere attrattiva – e non è detto che non mancherà la concorrenza.
Soprattutto, l’Europa ha già bisogno, da adesso, di leggere la sua storia futura e di impostare molte scelte politiche pensando a quanto più vecchia sarà presto la sua popolazione. È il senso della proposta della commissaria, che ha anche evocato le politiche urbanistiche del territorio, allargando le possibilità di vita nelle campagne sia per gli anziani che per le giovani famiglie, tutti sempre più in difficoltà nelle città. Oggi l’80% del territorio dell’Unione è zona rurale e ospita appena il 30% della popolazione, anche per la scarsità di servizi primari e secondari. Šuica ha suggerito che basterebbe creare una wi-fi di campagna e le cose cambierebbero drasticamente, permettendo ai più giovani di lavorare a distanza, ai più anziani di vivere e farsi curare con maggiore qualità della vita. Forse, potrebbe essere la prima decisione della nuova agenzia. 
Ma ancora più arduo è affrontare il primo dei problemi, ovvero il rovesciamento del ruolo dell’anziano europeo, un tempo depositario di un sapere e capostipite di una comunità e oggi sempre quantitativamente maggioritario ma, per la minore capacità di continuo aggiornamento, considerato qualitativamente marginale. Che poi è la ragione dell’assenza di dibattito”.
Parole sacrosante.

Acronimi e leggi oscure

Capisco - e lo dico subito - di non poter fare troppo lo spiritoso rispetto al tema odierno. Per la semplice ragione che ho nella dizione del mio assessorato PNRR e tra poco capirete il perché.
Ha scritto, infatti, Salvatore Merlo suo Foglio, evocando anzitutto l’ennesima gaffe (in italiano “topica”) di certo nazionalismo all’amatriciana di Fratelli d’Italia: ”Fabio Rampelli voleva rendere più comprensibili le leggi e i provvedimenti impedendo l’uso delle parole straniere. Tuttavia a noi pare che le parole straniere siano talvolta l’unica cosa più o meno comprensibile della Pubblica amministrazione e del linguaggio legislativo. Prendiamo l’ultimissima notizia relativa al Reddito di cittadinanza, quello che il governo Conte chiamava “Rdc” e che il governo Gentiloni, altro esempio di schiettezza espressiva, aveva all’incirca già introdotto (ma battezzato col nome di “Rei”, che non è né la protagonista di Star Wars né la versione catanese di Ray Charles). Ebbene anche il governo Meloni ha dato il suo estremo contributo. Con una riforma. Che suona all’incirca in questo modo, state bene attenti: “Il Reddito di cittadinanza viene ora diviso in Pal, Gil e Gal a cui si accederà attraverso la piattaforma Siisl da tradurre poi nel progetto Gol”. Arrivati a questo punto riteniamo probabile che per formare un autore di acronimi legislativi ci voglia un allenamento che inizi sin dalla più tenera infanzia, in scuole apposite”.
Noto, come annotazione, che - per chi ama il francese, ma so che capita anche in inglese - questa storia degli acronimi è vecchia come il cucco, mentre da noi ha cominciato a dilagare nel tempo e ormai si è diffusa come un virus e rende difficile il dialogo. Quando mi occupavo di scuola e oggi che mi occupo di innovazione, mi trovo chiuso nella morsa di sigle varie, che devono apprendere per non perdersi e mi accorgo con orrore di adoperarle io stesso troppe volte!
Ancora Merlo: “Sarebbe altrimenti impossibile spiegare questa prodigiosa fioritura di talento (a volte di genio) che attraversa in maniera trasversale il nostro ceto politico e amministrativo: Aato, Aec, Avcp, Atem, Ato, Bat,bit, Bod, Cimo, Cial, Cip, Dps, Dpr, Dpf, Fsn, Fos, Fnps, Gpp, Gui, Ipl, Ires, Isee, Liveas, Pum, Put, Pul, Pai, Pci, Ruc, Ruc, Rd, Sis, Sit, Soa, Tari, Trise, Tuir, Upi, Urp, Uo... E adesso anche “Pal”, “Gil” e “Gal”, che sembrano i tre elfi di Tolkien. Per raccapezzarcisi ci vorrebbe un nuovo “Vli” (vocabolario della lingua italiana). E pare quel racconto di Ennio Flaiano, quando il vecchio che è andato a colonizzare la Luna ricorda senza rimpianto la Terra: “Troppi verbi, troppi concetti. Sulla Luna abbiamo una sola lingua. Per mangiare diciamo ‘gnam’, per bere ‘bomba’ e per dormire ‘dodò’”. Ciascuno di noi (idraulico, medico o banchiere) fa un mestiere il cui successo si basa anche sulla fiducia che gli altri hanno nella nostra capacità di avere opinioni chiare e di esprimerci in maniera comprensibile”.
Ma fossero solo gli acronimi a metterci all’angolo, personalmente noto come le leggi, i regolamenti, le circolari siano scritte con i piedi e il burocratese dilaghi e renda difficile si cittadini la comprensione e ci vorrebbe una App che consentisse di avere traduzioni terra a terra. Esiste un sadismo di certi “scrittori” e talvolta questa oscurità è una scelta apposita per consentire comode interpretazioni, spesso espansive sul lato della spesa.
Chiosa il commentatore: “Che sia incomprensibile lo stato, comincia a diventare un affare serio. E non è certo un caso se già nel 1993 Sabino Cassese, ministro della Funzione pubblica, riunì un gruppo di linguisti per dare alle stampe un dizionario utile, ma ampiamente disatteso, a tradurre in maniera comprensibile i testi delle leggi. Rampelli in fondo voleva dire questo, crediamo. Ma non se la doveva prendere con l’inglese: è l’italiano che non si capisce”
Scrisse il mio amico, Roberto Zaccaria, che si trovò a presiedere il Comitato per la Legislazione in Parlamento, che avrebbe dovuto vigilare su questo: “Come sembrano lontani i tempi in cui l'Assemblea costituente decise di affidare ad alcuni eminenti scrittori e letterati il compito di controllare il testo finale della Il controllo sulla lingua dei testi di legge si lega intimamente al controllo dei concetti e delle categorie giuridiche: la scelta linguistica del legislatore coincide immancabilmente con una scelta di impianto logico e valoriale.
Adolf Merkl sosteneva che la lingua «non è affatto una vietata porticina di servizio attraverso la quale il diritto s’introduce di soppiatto. Essa è piuttosto il grande portale attraverso il quale tutto il diritto entra nella coscienza degli uomini».
In definitiva è proprio attraverso la buona scrittura delle leggi che il legislatore può perseguire effettivamente ed efficacemente l’obiettivo politico che si prefigge”.

Il Nord Ovest e il rebus dei trafori

Leggo sempre con curiosità e a volte con stupore quanto si dice e si scrive sul Traforo del Monte Bianco, di cui credo di essere - e non solo per una questione anagrafica - fra i pochi che ne hanno studiato la storia sin dalla progettazione e a conoscere anche le vicende degli ultimi 40 anni, che sono interessanti e servono a districarsi.
Curiosità: perché il Bianco fa parte di un sistema complesso dei trasporti in particolare a vantaggio del Nord Ovest, ma in realtà a servizio di diverse rotte. Nel nostro caso gran parte del traffico che ci riguarda ruota attorno al valico di Ventimiglia, al traforo del Fréjus (raddoppiato alla fine di quest’anno) e appunto al nostro traforo, che aprì nel 1965 per il solo traffico turistico ed è stato, infine, assaltato dal traffico pesante.
Stupore: quando si mischiano i lavori obbligatori da fare sul tunnel perché invecchiato (e dunque necessitano interventi strutturali profondi con chiusura di tre mesi per circa 18 anni con le attuali tecnologie) con l’eventualità discussa da tempo del raddoppio. Scelta che riguarderebbe, se fosse in parallelo, un orizzonte di almeno 10 anni per scavarlo (per il Fréjus ne sono occorsi una dozzina da inizio lavori) e dunque non c’entra con la modernizzazione indispensabile e urgente di quello già in esercizio. Non bisogna mischiare le mele con le pere.
Sul raddoppio i francesi, con cui va stipulato un accordo internazionale ratificato dai rispettivi Parlamenti e bisogna concordare il progetto, non ci sentono e mi pare che segnali di apertura Oltralpe non ci siano. A meno che non ci siano trattative in assoluta segretezza e un’inversione a U dei nostri cugini.
Pure la nuova direttiva sulla Rete Transeuropea dei Trasporti (di cui fa parte il Bianco), appena votata dal Parlamento europeo e che ora va al trigono con Commissione e Consiglio, non fa cenno - purtroppo, mi vien da aggiungere - a opere su questa direttrice e dimostra un’inerzia che non è certo colpa dei valdostani.
Tocca all’Italia e alla politica nazionale porre la questione a Parigi e a Bruxelles, evitando atteggiamenti muscolari ma trovando una soluzione ragionevole. Personalmente dubito - ma si tratta di una posizione personale, ma motivata - che la soluzione possa essere il raddoppio in parallelo del traforo attuale.
Sapendo che le linee dell’Unione europea obbligano all’utilizzo di metodi intermodali che sono la stella polare della politica comunitaria, specie per l’attraversamento della barriera alpina.
Lo dico con pieno rispetto per chi crede, invece, che il dossier sia facile e che i francesi saranno malleabili sul punto e che i politici che chiedono, come me, decisioni rapide ma concertate siano dei perdigiorno. Chiedo solo che chi ne discute lo faccia conoscendo le cose e non con posizioni fotocopia tipo catena di Sant’Antonio, fatte di mugugni e pure di un vago disprezzo per chi afferma quanto il dossier sia complesso. Personalmente non sono certo per rallentare ma per accelerare, sapendo che una soluzione va trovata in fretta, perché i tempi sono lunghi per fare dei trafori ovunque li si posizionino.
Esiste a questo proposito un tema capitale che spinge a decidere e cioè la possibilità che la famosa nuova direttrice ferroviaria Torino-Lione (uno degli alibi francesi per non decidere) possa essere completata solo nel 2045 (ho scritto giusto!) e non nel previsto e già tragico rispetto alle previsioni 2034.
Cito una parte di articolo di Batiactu: ”Alors que le Gouvernement travaille à une nouvelle trajectoire de ses investissements dans les mobilités, les élus des territoires traversés par le Lyon-Turin ferroviaire s'inquiètent de la proposition du Conseil d'orientation des infrastructures de reporter la livraison des voies d'accès au tunnel de base. Une soixantaine de parlementaires de tous bords ont choisi d'interpeler le président de la République, pour "lever les pesanteurs" qui freinent le projet”.
Traggo da altra fonte, Lyon Capitale: “Le Comité d’orientation des infrastructures (COI) a rendu son rapport sur les projets de transports à la Première ministre Élisabeth Borne. Or cette dernière a annoncé prendre pour base de travail le scénario de "planification écologique". Ce dernier propose de multiples mesures en France, dont certaines sur le Lyon-Turin. Parmi celles là : repousser la construction de nouvelles voies d'accès au tunnel transfrontalier à 2045 et donner la première place à la modernisation de la ligne existante entre Dijon-Modane”.
Commento importante: ”La Transalpine, l’association réunissant les acteurs défendant le Lyon-Turin, a réagi : "les propositions alternatives du COI tendent à pérenniser, sur la base de calculs théoriques à mille lieues des réalités ferroviaires locales, la ligne historique Dijon-Modane qui ne correspond en rien aux engagements de la France ni aux objectifs de report modal du Lyon-Turin tel qu’il a été conçu avec nos partenaires internationaux." Elle déplore aussi "le risque d’une telle aberration écologique et économique qui fait peu de cas de l’avis des parlementaires et des collectivités des territoires concernés, des acteurs économiques, des opérateurs ferroviaires, de la Fédération Nationale des Associations d’Usagers des Transports, de l’Union internationale du transport combiné rail-route."
Insomma: è ora di muoversi e basta con questa storia dei poteri locali che boicotterebbero. Bene compartecipare alle scelte, ma certe responsabilità nazionali ed europee riguardano altri soggetti e il caso di scuola della Val di Susa, cui si sta affiancando la protesta della Vallée de la Maurienne, dimostra che le popolazioni vanno comunque coinvolte.

La crisi dei Parlamenti

I parlamenti sono il pluralismo politico per eccellenza e luogo, laddove beninteso ci sia la democrazia, nel cuore delle discussioni politiche e soprattutto fabbrica produttiva della legislazione.
Chi ha, com’è capitato a me, sperimentato diverse assemblee elettive ha goduto della ricchezza delle personalità varie che fanno parte di queste istituzioni. So bene come ci sia di tutto, ma questa è proprio la logica della rappresentanza, che è specchio riflettente, nel bene e nel male, di quanto c’è nella società.
Ma la crisi oggi è profonda. Ne ha scritto sul caso italiano ma non solo su Repubblica il costituzionalista Michele Ainis:
“C'era una volta il Parlamento. Adesso rimane la parola, non la cosa. Ne è prova, per esempio, la legge sull'equo compenso dei professionisti, approvata il 12 aprile: la prima e l'unica legge d'iniziativa parlamentare giunta in porto durante questi sei mesi di legislatura. Guarda caso, prima firmataria Giorgia Meloni. Che è anche a capo del potere esecutivo, lo stesso esecutivo che ha deciso le altre 34 leggi firmate dalle Camere, o meglio scritte sotto dettatura.
Leggi di delega (al governo, e a chi sennò?), leggi di bilancio predisposte dal governo, e in 29 casi leggi che convertono decreti del governo. Da qui uno scambio di ruoli: il potere esecutivo legifera, il potere legislativo esegue. E il decreto legge - concepito per fronteggiare situazioni straordinarie - diventa lo strumento ordinario della legislazione”.
Non si stupisce chi per anni ha visto la crescita dello strumento del decreto legge e lo svuotamento della democrazia anche per eccesso del ruolo dell’esecutivo e questo avviene senza riforme costituzionali vere e proprie.
Lo ricorda bene Ainis: “Non che il fenomeno s'affacci all'improvviso: l'abuso dei decreti dura da decenni. Né che rimanga circoscritto alle nostre latitudini, giacché il predominio dei governi - in tempi d'emergenza permanente - avviene in molti altri sistemi. Ma in Italia avviene a lettere maiuscole, destando tuttavia una minuscola attenzione”.
Apro una parentesi. Chissà se i paladini dell’elezione diretta del Presidente della Regione in Valle d’Aosta ragionano su questa aria dei tempi così pesante per le assemblee, comprese quelle regionali, che sono state frustrate dal presidenzialismo imperante? Chiusa parentesi.
E torniamo ad Ainis: “Così, nei principali Paesi europei (Francia, Regno Unito, Spagna, Germania) la percentuale di leggi d'iniziativa parlamentare si aggira intorno al 20 per cento; il Parlamento italiano ne ha battezzata una su 35. Molto peggio che in passato, dato che nella legislatura scorsa furono approvati, bene o male, 40 progetti di legge proposti da deputati e senatori.
Nel frattempo si gonfia a dismisura l'otre dei decreti. Come attesta l'Osservatorio sulla legislazione della Camera: i 61 decreti legge convertiti nel primo triennio della XVII legislatura contavano 3 milioni e mezzo di caratteri; quelli convertiti durante i primi tre anni della XVIII legislatura superano 5 milioni e mezzo di caratteri”.
Pessimo l’uso, orrendo pure il lessico ingarbugliato con cui si scrivono le norme: ”Mentre il decreto sull'energia del 30 marzo scorso - per dirne una - usa 9 mila parole, congiunte in filastrocche impronunziabili, come quella con cui s'apre l'articolo 15: "Sino all'adozione dell'intesa di cui al comma 2, e comunque non oltre sei mesi dall'entrata in vigore della presente legge, si applicano le disposizioni recate all'articolo 6-bis del decreto-legge del 23 luglio 2021, n. 105, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 16 settembre 2021, n. 126 e all'articolo 13 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27" “.
Incredibile, davvero!
Conclude Ainis: ”Ma il problema non sta solo nella lingua arcana del diritto - altro malanno cui non prestiamo più attenzione, per rassegnazione o per disperazione. Tocca piuttosto la democrazia italiana, che ha (dovrebbe avere) nel Parlamento il suo santuario. Perché quest'ultimo è l'unico luogo delle istituzioni dov'è rappresentata pure l'opposizione, oltre alla maggioranza di governo; se perde la voce, viene silenziato anche il dissenso.
Perché il Parlamento è lo specchio del Paese, mentre l'esecutivo ne riflette soltanto una frazione. E perché le Camere deliberano con una discussione pubblica, il Consiglio dei ministri decide in gran segreto. Quando decide, giacché l'officina dei decreti si trova piuttosto negli uffici legislativi dei ministeri, sono loro gli oscuri meccanici delle regole che abbiamo sul groppone.
E le conseguenze ci riguardano, benché i più non ci facciano caso. Lo spettacolo d'un Parlamento perennemente litigioso ma in realtà prono ai voleri del governo; del tutto incapace d'iniziative e di proposte autonome; per giunta generato con il perverso sistema delle liste bloccate, che vietano agli elettori di scegliere gli eletti - ecco, è questo spettacolo che ha allevato il nostro disamore.
Però la crisi di fiducia sulle assemblee parlamentari mina pure la fiducia in noi stessi, ci allontana gli uni dagli altri, ci impedisce di riconoscerci come un popolo unitario, avendo perso la rappresentanza unitaria delle nostre diverse solitudini.
Per uscirne fuori servirebbe una riforma, un cambio di stagione che rivitalizzi il Parlamento; ma la paralisi delle assemblee legislative blocca ogni tentativo di riforma, e d'altronde la riforma - se viceversa fosse licenziata - negherebbe l'antefatto, ovvero l'impotenza delle medesime assemblee. Un doppio paradosso, una maledizione al quadrato”.
Mutatis mutandis, queste ultime righe vanno a pennello anche per la Valle d’Aosta.

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