L’isolamento della Meloni

Il confronto fra l’allure internazionale di Mario Draghi e l’approccio alla vaccinara con il resto del mondo di Giorgia Meloni imbarazza.
Per chiunque fosse andato a Palazzo Chigi dopo l’ex big della BCE il confronto sarebbe comunque risultato difficile. Draghi ha di certo sbagliato molte cose e mi riferisco alla totale incomprensione del regionalismo, ben visibile dal montaggio sbagliato del PNRR e dalla scelta di snobbare la democrazia locale su tanti dossier, ma la sua capacità di dialogare senza complessi, grazie allo status conquistato sul campo, con i leader mondiali è stata indiscutibile.
Fatto fuori interrompendo la Legislatura senza motivi plausibili, l’esperienza con Draghi è finita bruscamente e a furor di popolo è spuntata Meloni. La giovane donna dal passato di estrema destra di estrazione fascista (dirlo è una constatazione) è stata bravissima a sfruttare la situazione con un berlusconismo al tramonto e un salvinismo in crisi. Il centrosinistra tafazziano ci ha messo del suo e la Meloni è assurta al ruolo che ricopre legittimamente e lamentarsene sarebbe ridicolo, avendola spinta una forza elettorale.
Ma questo non significa evitare di notare che, specie nell’Unione europea ma anche nella considerazione con altri Paesi del mondo, siamo scesi di graduatoria e questa è una facile constatazione, priva di qualunque compiacimento. Altri leader italiani del passato sono state figure non particolarmente considerate e dunque non è una novità, però oggi siamo molto giù.
Forse una novità deriva da una qual certa aggressività che, benché neofita nei rapporti internazionali, la Meloni sta dimostrando. In particolare questo vale per il rapporto con la Francia, che sembrava partito bene nel primissimo incontro a Roma, dopo l’elezione della Meloni con buon faccia a faccia con Emmanuel Macron, poi degradatosi. Ultimo episodio la critica, inconsueta nei toni usati dal Presidente (Meloni gradisce il maschile) per la visita a Parigi (ma prima era stato a Londra e anche a Bruxelles) del Presidente ucraino Zelensky e contro il summit franco-tedesco con lo stesso Zalensky. Essere stata snobbata, dopo non aver avuto polso consentendo all’Ucraina di avere voce e soprattutto video al Festival di Sanremo, è bruciato sulla pelle della Meloni, che ha reagito malamente. Si direbbe: coda di paglia e isolamento politico.
Ma esiste qualcosa di profondo in questa lite con Parigi, che ci deve preoccupare. Noi valdostani, con buona pace dei fessi che guardano anche da noi Oltralpe con spirito polemico, coi francesi abbiamo tutta la necessità di mantenere rapporti stretti e di grande comunanza.
Non è solo la francofonia e neppure il confine comune, è il buonsenso tenendo conto della storia vissuta nel tempo coi territori vicini e delle molte cose - rese evidenti dai fondi comunitari - di lavori assieme in diversi settori.
Lo dimostra la questione del traforo del Monte Bianco e chi polemizza coi francesi dimentica la necessità di accordi per disegnare un futuro del tunnel. Ma il quadro è enormemente più vasto: il Trattato del Quirinale, con la cooperazione rafforzata Italia-Francia, è per la Valle uno strumento preziosissimo in molti campi e bisogna essere miopi o ignoranti ad negare la portata storica per il nostro futuro.
Ma la conditio sine qua non è che i rapporti bilaterali Italia-Francia non vengano avvelenati da logiche di un nazionalismo italiano da operetta, pernicioso se non ridicolo. Meloni capirà presto che solo con dei buoni rapporti con tutti (che non vuol dire non difendere le proprie posizioni) avrà un posto e non uno sgabellino con i Grandi del mondo e otterrà - se ne sarà capace - quel peso essenziale per avere un ruolo motore nell’Unione europea.

Sanremo e la Costituzione

Leggo diversi commenti sulla performance sanremese di Roberto Benigni sulla Costituzione italiana. Quanto già fece in passato con apposita trasmissione televisiva, che si chiamava con enfasi “La più bella del mondo”. Introdotta da l’Inno di Mameli, la cui bruttezza specie del testo è ormai manifesta, cantata da Gianni Morandi (sic!), l’occasione era ghiotta per la presenza in una sorta di tribuna d’onore in velluto nel cinema-teatro Ariston del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che assomigliava purtroppo alla tribunetta con i vecchietti terribili del Muppet show.
Cito un pezzo di un Tweet di Marco Cantamessa, professore universitario che stimo anche per il suo ruolo di Presidente di CVA: “Fatico a ritrovarmi nel tentativo di rappresentare la Costituzione come forma d’arte, o come testo sacro. E’ la legge fondamentale del nostro Paese, e ne definisce le Istituzioni e il perimetro delle norme, il che è tanto, ma nulla più”.
Le norme giuridiche servono a questo e quel che è bello della Costituzione italiana, almeno nelle parti originali e non in certe norme successivamente inserite, è l’antiretorica presente nel suo articolato con frasi tacitiane, scritte in un italiano inappuntabile. Per questo l’ampollosità sul testo stride, specie se a commentarla – diciamoci la verità – è un comico, pur intelligente e sensibile come Benigni, che incomincia ad avvertire il rischio di ripetitività. Ed anche - spiace aggiungerlo - che ha una scarsa attenzione al fatto che i tempi televisivi si sono fatti più corti e cala facilmente la palpebra.
Tornerò al tema, ma intanto fatemi dire che a Sanremo (dove l’unica digressione accettabile sarebbe stato il video di Zalensky) delle volte bisognerebbe ricordarsi che siamo al Festival della canzone e di conseguenza certi monologhi, come quello imbarazzante di Chiara Ferragni che ha scritto a se stessa bambina, sarebbero meritevoli di spazi altrove.
Dicevo della Costituzione e del suo uso “sanremese”. Evito un excursus storico sul significato profondo delle Costituzioni, quel che conta, senza svolazzi e eccessi, è che le carte fondamentali indicano la strada. Per questo la vecchia educazione civica - oggi riproposta sotto nuova forma - si dovrebbe occupare di un tema cruciale come questo, al posto spesso di spaziare in terreni troppo diversi. Vale a dire della necessità, cominciando appunto dalla scuola ma non ritenendola esaustiva, di avere cittadini che capiscano le fondamenta della Repubblica. Per ottenere la necessaria conoscenza della Costituzione anche i messaggi di Benigni sono utili, ma la spettacolarizzazione non basta, perché poi a seguire ci vuole la sostanza, che non si esaurisce sul palco di Sanremo.
Ci penso sempre rispetto anche al nostro Statuto, che alla fine sono pochi a conoscere davvero e ci vogliono sforzi per far capire come l’Autonomia debba avere una base giuridica, senza la quale ci sarebbe il nulla.
Da un certo punto di vista, proprio in maniera esemplare, ricordo quanto scritto nel decreto luogotenenziale del 1945 all’inizio dell’articolo 1: “La Valle d'Aosta, in considerazione delle sue condizioni geografiche, economiche e linguistiche del tutto particolari, è costituita in circoscrizione autonoma…”.
C’è tutto un mondo in quei tre termini. Geografico è condensato in un solo aggettivo la Montagna nella sua essenza più forte e questo ha a che fare con l’economia e le sue conseguenti particolarità, ma anche con l’aspetto linguistico che non è frutto del caso ma della naturale logica di appartenga a una medesima area con Francia e Svizzera.
Una sorta di triangolo - i luoghi, le attività umane e le lingue parlate - che fonda le ragioni del nostro ordinamento e che sono da tenere a mente in ogni circostanza. Ciò non riguarda solo la storia contemporanea ma un lunghissimo fil rouge che iniziò già in un lontano passato, di cui noi bene o male siamo l’attuale espressione e dovremmo esserne fieri e pure degni.

Sanremo e l’Italietta

Edoardo Bennato, con grande ironia, usava in una celebre canzone l’espressione “Sono solo canzonette”.
Nel testo figura, al limite del sarcasmo, quanto riporto:
“Non potrò mai diventare/ Direttore generale/ Delle poste o delle ferrovie/ Non potrò mai far carriera/ Nel giornale della sera/ Anche perché finirei in galera/ Mai nessuno mi darà/ Il suo voto per parlare/ O per decidere del suo futuro/ Nella mia categoria/ È tutta gente poco seria/ Di cui non ci si può fidare/ Guarda invece che scienziati/ Che dottori, che avvocati/ Che folla di ministri e deputati/ Pensa che in questo momento/ Proprio mentre io sto cantando/ Stanno seriamente lavorando”.
Lo ricordo mentre l’Italia giunge nella settimana canonica del Festival di Sanremo. Un crescendo che ci porterà alla serata finale di sabato con la solita ripetitività che ci accompagna dall’infanzia.
Lo posso testimoniare dell’importanza di Sanremo, dove pure mi trovai con un gruppo di colleghi parlamentari a cantare in playback e ne rido ancora oggi. Era il
1995 e un’agenzia stampa così ci descriveva: “Sono 35 i parlamentari del coro per il Festival di Sanremo, che domani sera sara' sul palcoscenico del Teatro Ariston per cantare ''Cosa sara''', brano composto da Alberto Laurenti, Marco Carmassi, Francesco Migliacci, Marco Dane', a scopo benefico. La formazione dei parlamentari, alcuni dei quali eurodeputati, rappresenta tutte le forze politiche presenti alla Camera e al Senato”.
Fummo persino applauditi, oggi saremmo sommersi da fischi.
La canzone, che ricordo a memoria, per qualche serata in sala d’incisione a Roma faceva così:
“Cosa sarà, cosa sarà/ Che fa nascere una canzone/ Cosa sarà, cosa sarà/ Che fa crescere un’illusione/ Se hai visto il cielo abbracciare il mare/ Se conti le stelle ogni notte come me/ Ma la mia stella poi qual è”.
Mi fermo per carità di patria, ma mai rinnegare le cose fatte!
Quel che da allora è cambiato è l’idea politicamente corretta di aggiungere nella lunga maratona televisiva della Città dei Fiori anche una coloritura politica su temi sociali i più vari per far finta di dimostrare chissà quale impegno.
Così nelle ultime edizioni ci siamo sorbiti crescenti predicozzi, quando lo scopo unico della visione è - quanto mi è capitato di fare - ridere con gli amici di cantanti e canzoni.
Questa volta era l’occasione per parlare di Ucraina, come già stato fatto in tutto il mondo per serate di vario genere nel mondo dello spettacolo.
Doveva spuntare in video Volodymyr Zelens'kyj, Presidente dell'Ucraina, per raccontare gli orrori della guerra e la tragedia del suo Paese aggredito dai russi. Appena resa nota questa presenza i filorussi di diversa specie si sono scatenati.
La RAI aveva annunciato la granita scelta di tener duro, poi - da veri conigli mannari- prima l’annuncio di una sorta di censura preventiva sul possibile messaggio e infine sarà Amadeus a leggere un messaggio.
Una vera schifezza di cui vergognarsi. Chi ha conosciuto la RAI contemporanea, come il sottoscritto che ci ha lavorato, non si stupisce.
Troppi Don Abbondio in posti di responsabilità.
Resta un’occasione persa per scuotere la vasta platea sanremese, che ha sicuramente una larga parte di disinformati o di distratti dalla lunga durata della guerra. Un passaggio del leader ucraino sarebbe stato salutare, ma esce fuori il peggio dell’Italietta, che invece ieri si è sorbita - intrisa di retorica patriottarda - un inizio serata con un Roberto Benigni che per l’ennesima volta ha esaltato la Costituzione repubblicana, perlopiù sconosciuta agli italiani.
In questa circostanza con il no a Zelens'kyj vale la feroce definizione di Piero Calamandrei: “Il rinvio, simbolo della vita italiana: non fare mai oggi quello che potresti fare domani. Tutti i difetti e forse tutte le virtù del costume italiano si riassumono nella istituzione del rinvio: ripensarci, non compromettersi, rimandare la scelta; tenere il piede in due staffe, il doppio giuoco, il tempo rimedia a tutto, tira a campa’ “.

La falce della Morte

Ci sono argomenti difficili da affrontare. Fra questi – uso non a caso la maiuscola – quello della Morte.
Non so esattamente che età avessi, quando ho visto il primo morto. Ero bambino e dovessi dire la verità non ricordo neanche bene chi fosse. Ero con i miei genitori e la cosa mi impressionò non poco a vedere un corpo esposto.
Già la giornata dei morti, in quegli stessi anni, mi metteva un certo disagio. La visita alle tombe, compresa quella di famiglia, al cimitero di Aosta mi faceva fare nei giorni successivi brutti sogni. Lì giacevano i nonni paterni (la nonna, Clémentine Roux mancata nel 1945 e nonno René nel 1948) e mio zio Antoine, morto per uno stupido incidente il giorno della Liberazione di Aosta nel 1945.
Quando mio papà era quarantenne, ed io ero piccolo mi era venuta la paranoia che potesse morire d’improvviso e certo – essendo poi morto 86enne – non avevo fatto altro che allungargli la vita.
Gli anni Settanta poi furono un disastro: mancarono la gran parte dei miei zii di parte paterna e poi poco più avanti i nonni materni (Emilio Timo e Ines Luzietti). Con il passare degli anni, come pezzi mancanti di una scacchiera, mi sono abituato a perdere persone care e tanti amici, ed è un fatto ineluttabile, compreso papà e mamma. Orribile quando ci si deve occupare dei funerali e doverlo fare pressati dai tempi che conseguono alla morte.
Incomprensibili sono la morte dei bambini e delle persone giovani e ogni volta ascolto con attenzione le omelie dei preti, che diventato una specie di test di sensibilità ed empatia verso chi piange i propri congiunti. C’è chi ce la fa ad affrontare il dolore, specie chi è soccorso dalla Fede, e chi – altrettanto legittimamente – esprime tutta la sua rabbia per perdite precoci e vuoti incolmabili per sempre. Posso testimoniare di vite davvero spezzate di genitori per una fine anzitempo con molte cose che cambiano in una profondità che diventa come un pozzo senza fondo.
Ci pensavo, per l’ennesima volta, di fronte alla morte spietata che ha portato via un giovane insegnante, caduto in biciletta in circostanze banali. Mi riferisco a Victor Vicquéry, giovane walser, che viveva a Saint-Vincent. Lo avevo conosciuto come allievo della Scuola alberghiera, dove aveva scalato i diversi ruoli, sino a vincere il concorso da insegnante. Era un educatore con spirito imprenditoriale nel far capire che alla teoria bisognava far seguire la pratica.
Solare con il suo sorriso e sempre attento a fare in modo che la cultura del turismo e dell’accoglienza si esprimesse al meglio. Posso dire che eravamo amici e capitava spesso di parlare dei destini della nostra Valle, che era in grado di seguire con uno spirito critico sempre costruttivo. E se siamo in tanti a ricordarlo e a piangerlo lo si deve proprio alla sua naturale simpatia e a quell’impegno che emergeva nel suo percorso di vita. E’ una morte ingiusta, comunque la si veda e colpiscono non solo la giovane età, ma per le circostanze tragiche avvenute davvero in un batter di ciglia.
Chi ha scritto delle pagine straordinarie sulla morte, specie nel declinare della sua vita quando aveva consapevolezza dell’avvicinarsi dell’ultimo giorno, è stato il giornalista e scrittore Tiziano Terzani, che osservava tra l’altro un paradosso, per fortuna meno presente in piccole comunità come le nostre: “Quand’ero ragazzo era un fatto corale. Moriva un vicino di casa e tutti assistevano, aiutavano. La morte veniva mostrata. Si apriva la casa, il morto veniva esposto e ciascuno faceva così la sua conoscenza con la morte. Oggi è il contrario: la morte è un imbarazzo, viene nascosta. Nessuno sa più gestirla. Nessuno sa più cosa fare con un morto. L’esperienza della morte si fa sempre più rara e uno può arrivare alla propria senza mai aver visto quella di un altro”. Invece la Morte va tenuta da conto ed è frutto degli eventi spesso nella loro banale semplicità.
Victor resta nei nostri cuori. Come ha scritto argutamente Marcel Proust: “Le persone non muoiono immediatamente, ma rimangono immerse in una sorta di aura di vita che non ha alcuna relazione con la vera immortalità, ma attraverso le quali continuano ad occupare i nostri pensieri nello stesso modo di quando erano vivi”.
 

Il tempo delle mimose

Che cosa annuncia il lento declinare dell’inverno e l’arrivo in un orizzonte, pur ancora lontano, della primavera?
Intanto, verrebbe da dire - nel solco del solito luogo comune ”non ci sono più le mezze stagioni” - che ormai le stagioni sembrano sempre più una macedonia. Soffiava giorni fa il Foehn e ora spunta il freddo siberiano, intanto in America del Nord si registrano temperature rigide epocali e invidiabili nevicate.
Rispondo alla domanda iniziale. Per me, ma non vi è nulla di casuale nella collocazione temporale perché la Natura inizia il suo risveglio. La Foire de la Saint-Ours appena trascorsa è già un campanello che suona con il palese allungamento delle giornate, ristrettesi sino a pochi giorni dal Natale.
Ma poi arriva a svegliare tutto il Carnevale che già a Gennaio accende le sue prime luci nella Coumba Freida e poi arriva il ”mio” Carnevale, quello di Verrès, dedicato a Catherine de Challant. Siamo nel cuore del Quattrocento e la Contessa difese il suo feudo, che poi perse, con le unghie e con i denti.
Ebbene, quei festeggiamenti ormai imminenti sono per me un passaggio stagionale, che finisce per essere rappresentato dal fiore che domina i festeggiamenti, la mimosa.
Leggo per caso un articolo di Léon Prost su Le Monde: ”Quel est le point commun entre Meghan Markle, le fils de Popeye et la lauréate du prix Marcel-Duchamp 2022 ? Le mimosa. Cet arbuste flamboyant aux petites boules jaune vif duveteuses originaire d’Australie, qui, depuis le XIXe siècle, s’est acclimaté à merveille au climat de la Côte d’Azur (le massif du Tanneron est la plus grande forêt de mimosa d’Europe), est devenu un nom propre au large champ qualificatif. Dans la série documentaire Harry & Meghan, diffusée sur Netflix, la duchesse du Sussex révèle sans langue de bois avoir sifflé un mimosa (cocktail à base de champagne et d’agrumes) juste avant la cérémonie de son mariage princier”.
Insomma: mimosa fiore e mimosa cocktail. E Braccio di Ferro?
Spiega il giornalista: ”Mis à part les bédéphiles avertis, peu de gens savent que le fils adoptif de Popeye et Olive Oyl déteste les épinards et porte le même prénom que Mimosa Echard, jeune pousse française de l’art contemporain”.
Da un nome ad un piatto di cucina: ”Mimosa est aussi le nom de baptême d’un œuf dur farci de mayonnaise, travaillé de mille façons par le chef étoilé Jean-François Piège dans son restaurant parisien de l’Hôtel de la Marine qui s’appelle justement… Mimosa. Dans la confiserie traditionnelle, le mimosa désigne de petites billes jaunes grumeleuses et sucrées, d’un goût discutable, utilisées pour décorer les gâteaux”.
Il finale è allegro e fa un link con tante cose nel nome del fiore: ”Cette fleur « soleil d’hiver » – qui, depuis 1946, envahit les rues des villes italiennes le 8 mars, pour la Journée internationale des droits des femmes – s’est aussi illustrée en illuminant les œuvres des peintres Bonnard, Matisse et Chagall. Au fond, le seul défaut du mimosa (hormis que son pollen peut être allergène) est de ne pas savoir jouer les prolongations. Si son parfum de miel vanillé a inspiré à de grandes maisons de luxe quelques-unes de leurs fragrances intemporelles (Paris, d’Yves Saint Laurent, Coco, de Chanel, Kelly Calèche, d’Hermès, Infusion de mimosa, de Prada…), ses pompons, une fois le bouquet plongé dans un vase, se dessèchent, et l’ensemble perd de sa superbe en diffusant un parfum moins agréable. On peut le déplorer ou se réjouir : après tout, la fin du mimosa annonce le début du printemps”.
Si torna, insomma, a quanto detto all’inizio.

Attorno al “ma”

Mi accorgo di scrivere molto adoperando il ”ma”. Sarà forse un mio modo di ragionare, perché cerco sempre in ogni cosa di vederne i diversi aspetti. Mi è capitato di dire che bisogna sempre, rispetto a qualunque problema, avere la capacità di guardarlo in modo plastico. Per capirci: bisognerebbe fare come avviene con una montagna iconica come il Cervino, di cui ognuno di noi ha una visione. Però se ci giri attorno tutto cambia a seconda del versante. Lo so perché ho avuto la fortuna di sorvolarlo in elicottero e di girarci attorno e l’ho fatto anche una volta con un aereo. Lo stesso vale - altra esperienza - non per una montagna singola, ma per un massiccio, che è una sinfonia di montagne, com’è ad esempio il Monte Rosa.
Ecco: bisogna fare così con tutto, mai fermarsi ad una prima considerazione, ad un solo giudizio, ad un pensiero unico.
Per questo, come un flash illuminante, ho letto sul Foglio l’inizio di un articolo di Giuliano Ferrara sul Sudan. Non parlerò di questo, ma della sua riflessione iniziale, che offre una prospettiva diversa e stimolante.
Eccola: ”Il “ma” è una particella di coordinazione del discorso, però avversativa, e ha un grande potere logico, politico, civile, un potere esagerato, assoluto in certi casi, e un infido carisma. Una persona che conosco non poi così bene, cioè Io stesso, me stesso, è spesso oggetto di giudizi segnati fatalmente dal “ma”: è cattivo, ma intelligente. Questa persona si irrita e si turba e vede in quella particella una insidia, vorrebbe, se proprio bisogna mantenerla in vita, rovesciarne il senso: è scemo, ma è buono, meglio ancora: è scemo e buono. Così infatti Io stesso si sente e pretende di essere, senza se e senza ma. Questa però è psicoanalisi, per fatto personale. Grave è che la dittatura della Particella affligga l’informazione intorno non si dica alla verità, basta dire alla verisimiglianza, una certa conformità, tra i dubbi, all’indubbio dei fatti accertati, adaequatio rei et intellectus come diceva sor Tommaso d’aquino. Se leggete bene articoli e titoli di giornale, di servizi televisivi, di siti che influenzano la percezione immediata, nelle 24 ore, della realtà, vi accorgerete che un certo tipo di notizie, specie quelle riguardanti l’economia (anche la climatologia fa la sua brava parte), è sempre soggetto all’egemonia tremenda, apparentemente dialogica e invece irrecusabile, univoca, del “ma” ”.
Il ”ma” siffatto non è indagatore o pluralista, perché è uno zampino negativo, se viene usato per tenere la barca piana e non fissare in modo certo un’opinione.
Cambio scenario e plano su una questione tutta valdostana, senza che appaia un approccio balzano. Si tratta - ne parlo da anni a costo di diventare noioso e pure ripetitivo - del momento di ritorno ad una casa comune degli autonomisti. Reso necessario dalle circostanze e pure da certa pulizia nell’area autonomista per chi ha scelto di uscirne, facendo chiarezza sulle proprie posizioni e intenzioni.
Anche in questo caso esiste il rischio del ”ma” in frasi tipo: ”Ottimo, torniamo insieme! Ma…”. Questa sembra una sorta di maledizione e pure di autocastrazione.
Allora può essere usato meglio se si completa la frase con: ”Ma dobbiamo farlo in fretta e senza tentennamenti”.
Ci credo e vorrei che dopo tanti anni di divisioni e incomprensioni - ciascuno con le propri ragioni su cui non bisogna tornare - ci si trovasse non solo per noi, ma (in questo caso rafforzativo!) per il ”dopo di noi”.
Uno scrittore americano William Hodding Carter ha scritto: ”Ci sono solo due cose durature che possiamo sperare di lasciare in eredità ai nostri figli: le radici e le ali”.

L’autonomia differenziata e il Sud

Parte l’autonomia differenziata con un testo presentato in Parlamento. Dare corso alle previsioni di una parte nuova del 116 della Costituzione era un atto dovuto, atteso dal lontano 2001, quando ci fu questa innovazione che trasferisce un certo numero di competenze alle Regioni a Statuto ordinario che lo richiedano.
Inutile oggi mettersi a scavare nel testo, perché la verità è che è facile prevede tempi molto lunghi e grandi stravolgimenti dell’articolato governativo.
Quel che più mi interessa è il clima litigioso che ha accolto una riforma per nulla stravolgente, diventata invece oggetto di polemiche infinite. Ciò mostra come il regionalismo si scontri ancora con un clima centralista in Italia che non ha colore politico e mette assieme un mare di stupidaggini in controtendenza con processi autonomistici ampiamente presenti nelle democrazie occidentali.
Un vulnus iniziale in questo iter c’è stato: è del tutto impensabile che la proposta del Governo non sia stata sottoposta previamente nella Stato-Regioni al parere dei Presidenti di Regione e che loro stessi non abbiamo potuto discuterne con i Consigli regionali. Questo fa capire di come i Presidenti ad elezione diretta si muovano come delle specie di monarchi in barba alle proprie assemblee e chi vuole trasferire in Valle d’Aosta questo modello, brandendo l’ingovernabilità, dovrebbe pensare a questo svuotamento della democrazia rappresentativa. Ad alcuni epigoni dell’elezione diretta verrebbe voglia di dire..”dite qualcosa di Sinistra”. Ma, se scavi in certe vite, scopriresti il marchio del giacobinismo e quello è da sempre contro la democrazia, specie quella di prossimità.
Inutile contarsi storie sulla riforma: era necessario, specie per la Lega in vista di appuntamenti elettorali, marcare il territorio con una riforma a lungo promessa dai loro Presidenti e spinte persino in Veneto e Lombardia da un referendum popolare. I delicati equilibri nel centro-destra hanno obbligato la premier Meloni - assai scettica sull’autonomia differenziata - a fare di necessità virtù e a dare il suo assenso al passaggio al Consiglio dei Ministri.
Ma quel che stupisce è che Presidenti di varia estrazione siano in ebollizione contro il disegno di legge, compreso Stefano Bonaccini, Presidente dell’Emilia-Romagna, candidato alla leadership nel PD, che pure aveva chiesto tempo fa di accedere a quanto previsto dal nuovo 116. Con lui protesta Michele Emiliano, Presidente della Puglia, anche lui piddino e pure il Presidente della Campania dello stesso schieramento, Vincenzo De Luca, che pareva interessato dall’autonomia differenziata e ora spara sulla riforma. Giano bifronte.
Il fronte del NO è granitico al Sud anche nel centrodestra. Si parla con enfasi e qualche piagnisteo di un vero e proprio attentato al Mezzogiorno da parte del Nord che spinge per la riforma per impoverire il Sud già tartassato.
Si tratta di una rappresentazione sbagliata e grottesca, cavalcata da chi ha fatto della retorica del complotto dei settentrionali una delle chiavi di un vittimismo vecchio stampo, senza mai elementi di autocritica. Penso ai miliardi di fonte europea piovuti nel Sud con esiti miseri di fronte agli investimenti possibili e penso al PNRR sbilanciato largamente al Sud con la curiosità di vedere come queste vagonate di denaro verranno utilizzate e quali pretesti verranno adoperati se, come già si teme, questi investimenti resteranno in parte sulla carta.
Ma i Masanielli (Masaniello fu un capopopolo napoletano assurto a simbolo) non mancano mai e aizzano la solita storia del Nord brutto e cattivo sino a rinfocolare sentimenti antisabaudi, accusando di colonialismo chi volle l’Unità d’Italia e facendo dei Borboni i protagonisti rimpianti di un Sud prospero ed efficiente, migliore del Piemonte invasore. Roba da non credere e leggendo certi libri "sudisti” si capisce bene come si cerchi di falsificare la Storia con ridicolaggini tipo i briganti come “partigiani” contro l’annessione…forzata.
Ci vuole equilibrio e questo non significa affatto negare una questione meridionale annosa e dannosa anzitutto per le popolazioni, ma personalmente ritengo che l’autonomia differenziata sia una chance per tutti, a condizione che ci si assumano la proprie responsabilità e che chi reagisce stizzito alle novità, oltre a reclamare i legittimi diritti, si dia uno sguardo anche ai propri doveri.

Certe solitudini

Mi assilla da sempre un problema che alla fine non so bene come definire. Si tratta - e ne ho scritto spesso - della difficoltà di capire la contemporaneità. Facile analizzare quanto avviene se lo si fa a bocce ferme, molto più difficile capire, vivendolo, dove stiamo esattamente andando.
Mi riferisco in particolare ai cambiamenti sociali, che si affermano come un fiume in piena da cui veniamo travolti, senza essere in grado di pilotare in qualche modo il fenomeno. Colpisce oggi, come se fosse un pugno in faccia, questa storia delle nuove solitudini e del restringersi progressivo della socialità. Il che è ovviamente paradossale, pensando a certe occasioni per stare assieme - come in Valle d’Aosta la recentissima Foire de Saint-Ours - che è occasione ricchissima per incontrarsi e vivere momenti collettivi. Parrebbe essere, tuttavia, come un lampo di luce nel buio di un mondo in cui tendiamo a chiuderci.
Ne ha scritto Aldo Cazzullo, giornalista del Corriere, che si sta affermando sempre più come attento osservatore nella sua vasta attività di scrittura, che invidio e mi domando dove trovi il tempo.
Ossserva Cazzullo, rivolgendosi al suo interlocutore: ”Oggi la vera rivoluzione è il telefonino, che cambierà l’essere umano e le sue relazioni più del fuoco e della ruota. Non si lasci ingannare dai capannelli fuori dai bar con il bicchiere in mano. Oggi i ragazzi sono drammaticamente soli. Faticano a trasformare i rapporti virtuali in rapporti reali. Hanno paura della fisicità. Per una minoranza che affronta il sesso in modo compulsivo, con mentalità da collezionista e senza coinvolgimenti sentimentali o almeno emotivi, ci sono moltissimi giovani che non riescono a trovare un partner o anche solo un amico”.
Questo chiudersi non è nuovo e concordo sulla successiva ossservazione: ”Il degrado dei rapporti umani era cominciato prima della rivoluzione digitale. Quante persone nuove conosciamo ogni anno? Quante persone lasciamo entrare nella nostra vita? Poche, temo. Ormai, oltre una certa età, la vita ce la siamo giocata. Ma chi invece la vita, la famiglia, il futuro se lo deve ancora costruire? Sul Corriere Walter Veltroni ha scritto della solitudine come dimensione esistenziale di quella che si autodefinisce «l’ultima generazione». Leonard Berberi ha scritto tre mesi fa un’inchiesta sugli amori nati su Tinder, che non serve solo a organizzare incontri casuali ma a costruire storie che durano nel tempo. La Rete rappresenta senz’altro una grande opportunità, certo più rapida delle antiche agenzie matrimoniali. Però l’impoverimento della vita reale è una delle cause del disagio psicologico che segna le giovani generazioni”.
Non voglio apparire pessimista, ma concordo su questo fatto di una progressiva chiusura, che genera disagio e malessere da una parte e dall’altra riduce la socialità a cerchi più ristretti. Il mondo virtuale, fatto cioè di contatti senza vicinanza e fisicità, appare come grottesco rispetto alla natura umana come si è costruita nel tempo.
Vedo mio figlio, quello più piccolo che fa le scuole medie (pardon, scuola secondaria di primo grado!). che vive l’esperienza scolastica come una realtà fatta di amicizie rarefatte, pur essendo lui per natura un compagnone.
Eppure è quella una cartina di tornasole, pensando alla socialità della mia generazione, di quanto sta cambiando in peggio il nostro modo di vivere. Resto certo che il nostro essere “animale sociale” (come scrisse il filosofo greco Aristotele ne IV sec. a. C.) prevarrà in qualche modo.

Dire quel che si pensa

L’anzianità di servizio in politica mi consente una certa serenità in più nell’esprimere il mio pensiero, quando lo ritengo utile. Chi mi segue da tempo lo sa: se devo esplicitare una posizione non mi tiro mai indietro. Trovo sia giusto dire quel che si pensa senza troppi giri di parole e senza peli sulla lingua, ma la franchezza diventa ancora più forte quando hai scoperto nel tempo - attraverso le esperienze vissute - quanto dire pane al pane e vino al vino sia una dote e non un difetto. Perciò se il passare degli anni ha un senso, questo vissuto serve a non dover scegliere la strada che aborro di giocare con le parole per non esporsi.
Può essere che questa spontaneità - chiamiamola così - non sempre mi abbia portato bene. Osservo con curiosità, perciò, ma non condivido l’attitudine, di chi mantenga atteggiamenti prudenti o peggio silenti e si esprima poco sulle cose per non dispiacere a nessuno. Ma questo essere né carne né pesce per piacere a tutti e non avere guai per quel che si pensa non mi appartiene affatto. Somiglia a certo mimetismo degli animali che serve per evitare problemi con chi ti vuole fare del male e rischia - non appaia un paradosso - di sfociare nel camaleontismo e cioè cambiare le opinioni a seconda delle circostanze, come se nulla fosse. Sono equilibrismi rischiosi, perché prima o poi chi ondeggia viene beccato in fallo.
Esiste questa espressione francese suggestiva, che è “langue de bois”, che qualcuno in italiano traduce - ma lo trovo artificioso - con “politichese”.
In realtà questa potrebbe essere una definizione accettabile: “langage coupé de la réalité ; message intentionnellement truqué ; parole qui ne répond pas à la question posée ; manipulation par un message truqué ; discours vague et imprécis qui vise à travestir la réalité”.
Su di una rubrica de Le Figaro che scava nelle espressioni, così se ne chiariscono le origini:: “Il apparaît cependant certain qu'elle ait bourgeonné dans les pays de l'Est, «notamment en Russie tsariste où on l'appelait ‘‘langue de chêne'' pour désigner le langage bureaucratique particulièrement pesant et rigide de l'administration, puis en Union soviétique», explique Gilles Guilleron dans son livre Langue de bois (First).
Ma la questione è ancora più ramificata anche in altre lingue: “L'expression a étendu ses racines jusqu'en Pologne: nowo mowa, langue de bois, et son synonyme, jezyk propagandy, langage de propagande. On retrouve cette idée en Chine sous le terme «langue de plomb» et en Allemagne, «langue de béton». Des matériaux dans lesquels on retrouve «les mêmes pesanteurs et rigidités, caractéristiques de cette langue dont la finalité semble être d'extraire des mots tout signe de vitalité, d'invention» “. Un piattume insulso.
È giusto rimarcare come, su impulso di un’attitudine americana, oggi - spesso per non dire come la di pensi realmente su di un certo tema - ci si nasconda nella logica del “politicamente corretto”, che tende a ingessare ogni discussione nel nome di principi intangibili. Modo di comportarsi - lo scrivo scherzosamente - che si sposa con il “democristianismo” (scusate il neologismo orrendo) e cioè quello stare “entre les deux” per non dispiacere a nessuno. Ponziopilatismo, si potrebbe aggiungere.
Il che beninteso non ha nulla a che fare con l’intestardirsi quando su di un punto quando gli elementi che si acquisiscono dimostrano il contrario. Sarebbe la famosa “onestà intellettuale”, che è più o o
l’atteggiamento di correttezza e lealtà che caratterizza chi riconosce, senza farsi condizionare da pregiudizi soggettivi o di parte, la consistenza reale di un fatto o di un’idea, un’opinione, un’affermazione altrui.
Insomma: dico sempre quel che penso, ma questo non deve mai precludere, per partito preso, la discussione con chi non la pensa come me e farne, se il caso, tesoro. Ma alcuni - questo è davvero il peggio - non si esprimono anche in politica per poter tenere i piedi in più scarpe e l’esercizio resta ardito per chi lo fa e pure per le loro estremità.

Alla ricerca degli alieni

Nulla come l’epopea dell’uomo nello spazio e poi sulla Luna, di cui ho vissuto gran parte come spettatore stupito e a tratti ammirato, mostra in modo evidente lo spirito di avventura della razza umana. Finite le grandi scoperte e la pulsione verso l’ignoto sulla Terra, lo sguardo si è rivolto al cielo.
Prima i libri di fantascienza (spesso incredibilmente visionari) e poi i film con il medesimo soggetto hanno inseguito una figura mitica: l’extraterrestre, all’inizio denominato marziano, oggi diventato l’alieno.
Esiste pieno il mondo di persone che dicono di averli visti o persino di essere stati rapiti sui famosi dischi volanti, ci sono sette che sostengono di essere in contatto con loro e alcuni specificano che alieni (rettiliani) sono già fra di noi, ci sono seri scienziati che spiegano che non si capirebbe perché nello spazio più profondo non ci dovrebbero essere forme di vita intelligenti.
La penso esattamente come questi ultimi e ogni tanto mi perdo in certi misteri, indagati sin dall’antichità, su questo nostro mondo e su di noi che ci viaggiamo sopra e sul significato dei confini sempre più larghi di quanto scorgevamo prima con i telescopi e oggi con satelliti, che indagano le profondità delle galassie più lontane e chissà che cosa ci sarà sempre più in là da scoprire. Ai posteri l’ardua sentenza.
A supportare questa curiosità che coltivo, ho letto un articolo su Internazionale di Chiara Dattola sui messaggi da tempo inviati ben oltre le frontiere terrestri alla ricerca di interlocutori che rispondano a nostre sollecitazioni.
Così esordisce: “Quando Jonathan Jiang era bambino, suo padre gli raccontò che alcuni astronomi avevano mandato un messaggio nello spazio sperando che arrivasse agli alieni di una lontana galassia. “Io non sono d’accordo”, gli disse anche. “Il testo avrebbe dovuto essere approvato dagli abitanti della Terra”. Il messaggio, inviato nel 1974 dal radiotelescopio di Arecibo, a Puerto Rico, raggiungerà l’ammasso globulare di Ercole (M13) tra venticinquemila anni.
Ovviamente non sappiamo se laggiù ci sono forme di vita aliene. Sappiamo però che la maggior parte delle stelle della nostra galassia ha dei pianeti, molti dei quali potenzialmente abitabili. Quindi è possibile che ce ne sia almeno uno con forme di vita intelligenti”.
Più avanti spiega: “Abbiamo cominciato a pubblicizzare la nostra presenza nello spazio un secolo fa, con la diffusione della radio. A partire dagli anni cinquanta è stata la volta della tv. “I primi programmi tv hanno raggiunto finora più di diecimila stelle”, dice Dan Werthimer, un radioastronomo dell’università della California a Berkeley. “Le più vicine hanno già visto I Simpson”.
Nel 1962 gli scienziati sovietici inviarono tre parole in codice Morse verso Venere: mir (pace), Lenin e Urss. Il tentativo successivo, quello ricordato da Jiang, era più ambizioso. Nel 1974, infatti, gli astronomi del radiotelescopio di Green Bank, nel West Virginia, inviarono il primo messaggio esplicitamente rivolto agli alieni. Noto come messaggio di Arecibo, era diretto all’ammasso M13, che ospita trecentomila stelle e almeno altrettanti pianeti.
Gli alieni, se ci sono, riceveranno un messaggio costituito da un codice binario di 73 righe da 23 caratteri. Una volta decifrato, riproduce la doppia elica del dna sopra un disegno stilizzato di un essere umano e alcuni numeri, tra cui quattro miliardi, la popolazione terrestre dell’epoca. C’è anche una mappa del sistema solare, con l’indicazione della Terra e del radiotelescopio di Arecibo”.
Segue un lungo elenco di analoghi tentativi: “Nel 1983 gli astronomi Hisashi Hirabayashi e Masaki Morimoto dell’università di Tokyo, dopo un paio di bicchieri, ne mandarono uno verso la stella Altair con il simbolo chimico dell’etanolo e la parola “cin cin”. Poi è stato il momento degli annunci culturali e commerciali. Nel 2008 la Nasa ha inviato Across the universe dei Beatles verso Polaris, mentre l’università di Leicester, nel Regno Unito, ha mandato uno spot del marchio di snack Doritos verso la costellazione dell’Orsa maggiore. Lo stesso anno un potente segnale radio con 501 messaggi, selezionati sull’ormai defunto social network Bebo, è partito per Gliese 581, una stella nota per la “super-Terra” che le orbita intorno. Nel 2010 un’opera in lingua klingon è stata inviata verso la stella Arturo”.
Segnalo che lo snack Doritos è in realtà un insieme impressionate di prodotti salati e di dolci, mentre la lingua klingon è la parlata di una razza aliena immaginaria nell'universo di Star Trek.
Ma torniamo a chi abbiamo già citato all’inizio: “Secondo Jiang, però, possiamo fare di meglio. Con alcuni colleghi di tutto il mondo ha creato una versione aggiornata del messaggio di Arecibo, più facile da decifrare. Il gruppo ha messo a punto una mappa della Via Lattea le cui coordinate sono gli ammassi globulari, gruppi di stelle luminose vicine tra loro. Anche la nuova versione contiene la struttura del dna, ma in più ha una mappa del nostro pianeta con le molecole presenti tra terra, mare e aria. Il messaggio si conclude con l’indirizzo del mittente, cioè la posizione della Terra, e la data d’invio. “Vogliamo una risposta”, dice Jiang”.
Speriamo che abbiano torto coloro i quali pensano ai pericoli possibili se spuntasse chissà quale civiltà dal buio dello spazio, dando per scontata che si mostrerebbe ostile. Copione della gran parte dei film di fantascienza girati in questi anni. In genere con un lieto fine per l’umanità che ricaccia con successo gli invasori spaziali.
Banale e ottimista.

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