La violenza delle canaglie

Berlusconi gravemente malato - e come tale oggetto di doveroso rispetto - è invece nel mirino degli odiatori del Web e questo, oltre a far riflettere sulla stupidità umana, fa venire il mal di stomaco, leggendo certe porcherie che emergono contro il Cavaliere. La politica è la politica ed è certo fatta anche di odio e amore, ma nulla può giustificare violenze scritte che arrivano addirittura ad augurare la morte a chi si considera come un avversario. I veleni non sono mai sopportabili e ormai è davvero inconcepibile che certe prese di posizione vomitevoli non siano fermate dai gestori dei Social, dove si concentra il peggio con mancate sospensioni dei peggiori.
L’odiatore è ormai un personaggio definito: chi usa la rete, e in particolare i social network, per esprimere odio o per incitare all’odio verso qualcuno o qualcosa.
Aggiunge la Crusca: “Dall’inglese hater, ‘odiatore’, a sua volta dal verbo to hate ‘odiare’, in uso in inglese sin dal sec. XIII. Già in Middle English esisteva il sostantivo hatere ‘chi odia’, mentre in Old English hetend significava ‘nemico’“.
Trovo un articolo interessante di Elena Cabras, fondatore Psicotypo e. direttore di Psicoterapia: “Sono diversi i motivi che spingono una persona a diffondere online la propria frustrazione. Prima di tutto, abbiamo una sensazione di impotenza che la persona prova nella vita reale. Molto spesso si tratta di soggetti che nel loro contesto familiare e sociale hanno un diritto di parola e di replica limitato. Si sentono, per questo, di non avere potere decisionale nella vita reale, mentre online si credono rivestiti da questo senso di onnipotenza in cui sono liberi di esprimere tutto ciò che provano senza che si applichino restrizioni di alcun tipo”.
C’è chi attacca e addirittura perseguita persone assai famose, come appunto Berlusconi, ma non solo: “Queste persone non fanno altro che attaccare soggetti “deboli”, che non devono essere necessariamente famosi, ma che semplicemente non rispondono, lasciando loro la libertà di dare sfogo ai disagi fino a quel momento repressi. Altri invece insultano per il puro divertimento di farlo; non hanno motivazioni intrinseche, lo considerano un passatempo; insultano e denigrano per ammazzare la monotonia e realizzare una “guerra tra poveri” in cui ognuno insorge per dire la sua”.
L’esperta aggiunge: “Abbiamo, poi, gli egocentrici: usano mezzi e modalità spietati per farsi notare dagli altri, credono che andare controcorrente generi notorietà, nel bene o nel male. È sufficiente un semplice commento negativo per far sì che attraverso risposte, o like, si emerga tra tutti gli altri“.
E ancora: “Gli hater seguono un principio fondamentale: più se ne parla, meglio è. È proprio per questo che le tematiche oggetto di odio variano; spesso sono i personaggi più famosi sul web, i politici, gli omosessuali, ed i soggetti considerati “prede” ad essere bullizzati e denigrati dagli haters. Distruggerli ed annientarli psicologicamente aumenta il loro ego e la voglia di insultarli cresce sempre di più, sentendosi appagati e soddisfatti una volta aver premuto il tasto “invio” del loro smartphone.
Più è violento l’attacco, maggiore sarà la soddisfazione personale provata. Per gli haters, essere presi in considerazione ed essere sicuri di aver scatenato la rabbia altrui è il massimo della gratificazione, poiché hanno vinto; hanno raggiunto il loro obiettivo egregiamente: aver fatto arrabbiare un altro individuo ed aver scatenato la sua reazione. Ogni hater, poi, avrà il suo periodo di attacco: possiamo avere odiatori che insultano con cadenza quotidiana un soggetto che hanno preso di mira, mentre altri agiscono in maniera casuale, insultano chi vogliono quando lo vogliono, senza una continuità periodica particolare. L’importante è che la rabbia e la frustrazione siano sfogati sul web, e che il loro senso di odio verso il mondo sia appagato facendo del male ad altri”.
Torno a odio e scorro i sinonimi, che poi in realtà non sono affatto sovrapponibili: esecrazione, avversione, fobia, inimicizia, risentimento, rancore, ripugnanza, astio, livore, ribrezzo, ostilità, ruggine, disprezzo, antipatia, animosità, malanimo, accanimento, intolleranza, contrarietà. Insomma: ci sono sfumature assai diverse, ma quel che colpisce in queste circostanze - lo ripeto - è la violenza, scelta estrema delle canaglie.

Verità e sincerità

Mi è capitato poche volte di testimoniare in un processo e di leggere la formula di rito: ”Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza”.
La verità! Userei per definirne i contorni difficili questa citazione: “L'uomo appassionato di verità, o, se non altro, di esattezza, il più delle volte è in grado di accorgersi, come Pilato, che la verità non è pura”.
Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano”.
Il caso vuole che Repubblica si sia occupata in questi giorni di Ponzio Pilato nella serie “Sulle tracce della Via Crucis” scritta da Stefano Massini: “Egli ci viene descritto come un funzionario niente affatto illuminato, anzi piuttosto incline all'angheria e al sopruso, noto per aver sedato con mattanze di sangue ogni minimo vagito di protesta. Ma ciò che più vale è che il signor governatore non perdeva occasione per mostrarsi un gradasso, tipicamente affetto da abuso di potere: aveva umiliato i locali esponendo nel perimetro della Città Santa i vessilli divini di Tiberio, e quando (dall'imperatore stesso) era stato obbligato a rimuoverli, aveva insistito con ulteriori gesti di disprezzo, per cui in più occasioni era stato richiamato all'ordine dai suoi superiori. È sufficiente a delineare il personaggio, o occorre aggiungere che non mancano accuse di venalità e corruzione?”.
E ancora: “La storiografia ci consegna l'immagine di un politicante dozzinale, di bassissima lega, un lillipuziano che d'un tratto si scopre davanti a qualcosa di molto più grande di lui: quel giovane profeta che era entrato a Gerusalemme accolto da tripudi di folla, adesso gli veniva consegnato dai Sacerdoti che lo volevano morto, e può perfino darsi che Pilato avesse percepito un'energia insolita negli occhi di quel figlio di falegname, ma resta agli atti che per paura o per menefreghismo egli subodorò che la faccenda stavolta era seria, che c'era da compromettersi, e non si volle sporcare le mani”.
Ricordo, incidentalmente, che il rudere del castello di Nus in Valle d’Aosta, chiamato ”di Pilato”, deriva da una leggenda, perché storicamente infondata essendo la costruzione di epoca medioevale, secondo la quale il procuratore romano Ponzio Pilato vi avrebbe soggiornato mentre si recava a Vienne in Gallia, dove sarebbe stato esiliato da Caligola e dove sarebbe morto suicida.
Il ponziopilatismo è, comunque sia, pessimo ed è un modo per far decidere ad altri, quel orribile ”furor di popolo”, che tanto piace ai populisti, che amano aizzare le piazze, perlopiù in alternativa ai meccanismi della democrazia rappresentativa.
Dovessi dire a me piace molto il termine “sincerità”, che fa parte del mio carattere e la considero una medaglia, mentre chi non mi ama ritiene questa caratteristica un grave difetto.
Ricorda Miriam Di Carlo sul sito dell’Accademia della Crusca, attorno al termine “sincero”: “Obsequium amicos, veritas odium parit” e cioè ”l’adulazione procura amici, la sincerità i nemici”: è un verso tratto dall’Andria di Terenzio (v. 68), ripreso poi da Cicerone nel De amicitia”.
Esiste su ”sincero” un’etimologia falsa: “Anche la parola sincero ha un’origine illuminante nella sua etimologia, sine ceris = senza cera. Nell’antichità, quando una statua aveva dei difetti, si poteva aggiustare con la cera, che andava a mascherare e a levigare il marmo corrotto. Invece quando era perfetta, e non aveva bisogno di correzioni, veniva definita sincera, senza cera. (Alessio Atzeni, Arte del risveglio)”.
Proprio l’esperta della Crusca così aggiusta il tiro: “In realtà, come indicano i principali dizionari, l’aggettivo latino sincerus ha tutt’altra etimologia: deriva dalla radice *sem-/*sim- ‘uno solo, unico’ (da cui anche l’avverbio latino semel ‘una sola volta’ e l’aggettivo simplex ‘semplice’) e da -cērus, corradicale del verbo crēscere ‘diventar grande, aumentare’ e significa dunque ‘di una sola/unica origine; tutto d’un pezzo“.
E ancora più avanti: “L’etimologia rispecchia il primo significato della parola in latino: la sincerità è una virtù che in primis riguarda l’integrità dell’uomo a prescindere dall’aspetto “sociale” e relazionale. Per estensione poi, chi è sincero, ossia puro e incorrotto nel cuore, è automaticamente leale e franco nella relazione con l’altro“.
Che bello sentirsi sincero, anche se talvolta - ecco l’autocritica - può capitarmi di essere un pochino…ruvido.

Noi e gli animali

Mi ha sempre molto divertito la catalogazione fra ”gufi” e “allodole”, termini entrati in uso per definire individui con spiccata preferenza per comportamenti serotini o mattinieri e dunque - si dirà così? - con un differente ritmo circadiano.
Si sa che i gufi tendono a dormire molto tardi e, se possono, a prolungare il sonno fino a tardi il mattino seguente. Le allodole invece si alzano presto al mattino e dormono presto alla sera.
Io sono abbastanza allodola e confesso che mi ha sempre divertito l’esercizio di noi umani di trovare assonanze fra le nostre singole caratteristiche e i diversi animali che popolano la terra. Un tempo, per altro, il confronto aveva una scala più locale, mentre oggi si espande ad una dimensione globale.
Per dire: un pigrone in Valle d’Aosta sarebbe stato equiparato ad una marmotta (tra letargo e vita quieta fra tana e praterie), mentre oggi potrebbe spuntare l’esempio del bradipo, che - attenzione alla topica! - non è neanche lontano parente delle scimmie, appartenendo invece all'ordine degli xenartri (o sdentati) come il formichiere e l'armadillo.
Ma torniamo al parallelo fra uomo e animale. Certo le scimmie - anche noi apparteniamo all’ordine dei Primati - sono il rapporto più semplice, ma a ben vedere nella nostra vita ci si può sbizzarrire.
Ad esempio ci sono padroni che o per analogia o per alchimia assomigliano ai propri cani, come gemelli separati alla nascita. Forse che non abbiamo conoscenti che assomigliano - anche se è poco urbano osservarlo - a maiali o caproni?
Avevo un’amica che somigliava ad una giraffa, un’altra ad un sensuale gatta e una terza dal riconoscibile aspetto equino. Io, da molto tempo, aspiro al rango di papero.
Leggo un interessante articolo sul sito dell’Università di Trento della ricercatrice Virginia Pallante, che scrive: ”Se, come sostenuto da Charles Darwin, ciò che diversifica fra loro le specie animali, uomo incluso, è una differenza di grado e non di genere, è ragionevole aspettarci di incontrare tratti che immaginavamo essere esclusivamente umani anche negli altri animali. Da questo punto di vista, l’etologia ha avuto il merito di sfumare sempre più i rigidi confini entro i quali abbiamo a lungo pensato l’identità umana, suggerendo, attraverso l’analisi di comportamenti condivisi, la presenza di un substrato comune tra l’uomo e gli altri animali”.
Insomma: tutti i popoli guardano con curiosità agli animali che li circondano e con cui hanno diviso i propri territori, sia che siano stati addomesticati (da noi la mucca è pure reina), sia che siano selvatici (lo stambecco è il nostro must).
Ha scritto Giorgio Celli, etologo che fu con me al Parlamento europeo: ”Se il Paradiso esiste è giusto che sia popolato di animali. Ve lo immaginate un Eden senza il canto degli uccelli, il garrire delle rondini, il belare delle caprette e l’apparire del buffo e curioso musetto di un coniglio? Di sicuro nel mio Paradiso ideale non possono non echeggiare miagolii da ogni angolo. Il festoso abbaiare di cani che giocano finalmente sereni. Vogliamo negare anche questo ai poveri animali?”.
Certo che animali siamo anche noi e lo spiegava bene l’altro famoso etologo, al
Konrad Lorenz: “Sarà molto difficile per l'orgoglio umano riconoscere che l'«homo sapiens» non ha semplicemente qualche interesse per gli animali: lui è un animale!”.
Dunque è giusto prendersi cura di noi stessi e avere un rapporto corretto con gli altri animali, senza i terribili pistolotti e i musi lunghi degli animalisti, alcuni dei quali se dovessero, in cima ad una torre, scegliere se far cadere dall’alto un essere umano o un criceto sceglierebbero di salvare quest’ultimo con evidente abbaglio.

Le valanghe non sanno che sei esperto

Domenica scorsa, prima che purtroppo venissero rinvenuti i corpi senza vita di due scialpinisti torinesi investiti il giorno prima da una valanga in Valtournenche, leggevo la rassegna stampa mattutina che confermava il numero di tragedie analoghe su tutte le Alpi.
Così di getto su Twitter ho scritto in modo che ritengo educato: “È sconcertante che ci siano scialpinisti che disattendono i bollettini che indicano pericolo, esponendo i soccorritori a rischi per salvataggi assai costosi per la comunità, spesso purtroppo solo per recuperare le salme di chi è stato vittima della propria imprudenza”.
Quindi non c’è stata - come ben capito dai miei followers - alcuna indelicatezza rispetto al lutto delle famiglie dei due torinesi scomparsi tragicamente. Era un’osservazione generale, che prescindeva dalla scelta dei singoli che hanno nel caso di cronaca specifico sfidato l’oggettività dei pericoli causati dalle condizioni della neve, che erano ben esplicitati nel bollettino valanghe.
Questi comportamenti si ripetono ormai con triste regolarità che siano praticanti dello scialpinismo o l’insieme di discipline riunite con il termine freeride e cioè le attività fuoripista in neve fresca.
Mi sono occupato del Soccorso Alpino molte volte nel mio lavoro politico, ma anche prima. Ero difatti un giovane giornalista quando all’inizio degli anni Ottanta salivo al rifugio Monzino, dove il grande innovatore delle tecniche di soccorso, la guida Franco Garda, istruiva i suoi colleghi più giovani e i medici rianimatori alle diverse pratiche possibili e in primis a quanto ruotava attorno all’affermarsi dell’elisoccorso. Per cui fu naturale seguire questo filone con apposite norme legislative di supporto a Roma e ad Aosta, ma anche seguendo queste questioni a Bruxelles.
Per questo gioco di squadra la Valle d’Aosta è sempre stata al vertice nelle attività di soccorso in montagna con equipaggi, cominciando da piloti di grande maestria, che hanno creato un sistema di salvataggio di grande efficacia. Sono stato testimone di interventi in quota eseguiti con grande perizia e di importanti esercitazioni per essere pronti ad ogni evenienza.
Chi interviene in alta montagna lo fa sempre con una notevole componente di rischio e ho visto situazioni in cui solo il coraggio e la determinazione dei soccorritori hanno fatto la differenza. Questo significa per la Valle investimenti notevoli in uomini e mezzi, senza mai lesinare in formazione e in attrezzature.
Quel che è certo è che proprio questa nostra professionalità è elemento rassicurante per chi abita e frequenta la nostra Regione. Ma non si può pensare che questo possa significare un approccio sbagliato o facilone al mondo della montagna. Troppi, anche molto capaci, sono morti non avendo calcolato la componente di pericolo in determinate circostanze, anche quando in modo evidentissimo sarebbe stato meglio non affrontare la montagna.
Sull’ultimo incidente ha detto a Enrico Martinet de La Stampa il grande alpinista Hervé Barmasse: “Mi preme dire che le analisi si fanno sempre dopo sciagure. È giusto, s'impara e si ha uno sguardo differente, ma resta il dolore, l'immenso dispiacere. Per tornare a sabato il bollettino valanghe indicava 4 su una scala di 5 gradi. Con 5 si chiudono le strade, per capirci, con 4 il pericolo è evidente ed è consigliabile scegliere itinerari dove ci sono le guide del posto, oppure sciare al bordo delle piste battute”.
Ma l’altro punto è chiaro e riguarda un tema importante e cioè la capacità di fare quando necessario un passo indietro: ”Rinunciare fa la differenza tra la vita e la morte. I consigli di sempre, bollettini, chiedere ai professionisti del posto, ma soprattutto pensare che tutto dipende da te e se sbagli muori. Ti giochi tutto”.
Un grande esperto di valanghe e grande alpinista, André Roch, disse: “Anche gli esperti muoiono sotto le valanghe, perché le valanghe non sanno che sei esperto”.

Rapporti istituzionali e polemiche politiche

Non capisco dove voglia andare il Governo Meloni e lo dico con serenità, sapendo che chi fa politica in Valle d’Aosta deve coltivare rapporti corretti con chiunque governi a Roma. E il fatto che gli autonomisti governino in Valle d’Aosta con la Sinistra (ma quella estrema è all’opposizione) non dovrebbe essere un ostacolo insormontabile, perché le istituzioni dovrebbero sempre dialogare con le istituzioni. Uso il condizionale perché mi pare evidente che non sempre sia così e ci sia chi, invece, voglia sempre e solo “politicizzare" questi rapporti con ragionamenti tipo: se non governo in Valle, allora non avrai alcuna porta aperta nei rapporti con i “nostri” nella Capitale. Chi ragiona così fa male alla propria comunità e non ai propri avversari politici.
Ma dicevo di questo Governo, che mi pare stia vivendo la fine di quella “luna di miele”, cioè quel periodo di accondiscendenza - così definito con l’anglicismo dal lessico americano “honeymoon” - dell’opinione pubblica verso chi inizia a governare, prescindendo dal colore politico di appartenenza.
Ormai nelle democrazie occidentali, comunque sia, chi governa rischia sempre grosso per una volatilità dei voti tra chi cambia bandiera come le mutande e chi a votare non ci va più, rinunciando ad un suo diritto.
Certo Meloni e i suoi compagni o meglio camerati d’avventura ci mette del suo con vere e proprie gaffes e inefficienze, come si vede nella gestione confusa del problema dell’immigrazione, che era un loro cavallo di battaglia, o sulla questione del PNRR con scelte al momento non ben definite, mentre passa il tempo.
Ma Beppe Severgnini sul Corriere dice meglio di me di questa voglia di interventismo, che poi sfocia in boomerang che tornano violentemente indietro: “l divieto alle carni coltivate, il blocco di ChatGpt, l’abbondono dello Spid, il tentativo di ridimensionare l’orrore di via Rasella: tutto in un giorno, o quasi. Appena prima, la decisione di bloccare la trascrizione dei certificati di nascita dei figli di coppie dello stesso sesso. Tira un’arietta strana, sull’Italia, questa primavera. È come se il futuro facesse paura, e la nuova dirigenza volesse rassicurarci lucidando il passato”.
Governare guardando nel retrovisore con logica passatista, proibizionista e pure luddista non sembra in effetti una grande pensata, semplificando problemi complessi con decisioni non sempre ragionate sino in fondo. Ciò avviene in un misto nostalgico e antimodernista, che poco dovrebbe avere a che fare con una politica conservatrice che non sia retriva o ingenua, a seconda dei casi.
Severgnini aggiunge: “È ora di chiederselo, perché quattro, dieci, venti indizi fanno una prova: cosa vogliono conservare i conservatori?
Prendiamo la carni coltivate, perché di questo si tratta. Siamo in fase sperimentale, ma chiamarla «carne sintetica» dimostra un pregiudizio. Si tratta di coltivazione in vitro di cellule animali, uno sviluppo che potrebbe rivoluzionare la produzione di cibi proteici, riducendo gli allevamenti intensivi e le conseguenze sull’ambiente. Vivo nella bassa padana: capisco il possibile impatto sulla filiera agricola. Ma credo che la novità vada studiata, non demonizzata”.
Aggiungo che si vieta in Italia, ma si può importare dal resto del mondo e dunque si tratta di una diga piena di buchi.
“E - prosegue il giornalista - l’antipatia per lo Spid? Prima di liquidare un sistema di identificazione usato da 33 milioni (!) di italiani, ci andrei cauto. Il governo punta sulla carta di identità elettronica, che non è pronta. Alessio Butti, sottosegretario per l’innovazione, sostiene che lo Stato «dev’essere l’unico a disporre ed erogare certificati di identità anche digitali, mentre Spid usa identity provider privati». Vero: ma Poste, Aruba etc sono stati coinvolti perché lo Stato non aveva i mezzi per fare da sé”.
Conclusione secca: “Non ci sono solo le cose dette, ma anche quelle taciute. Cosa intendiamo fare in vista del tracollo demografico? Davanti a un futuro annunciato, il governo tace. Se anche gli italiani si mettessero d’improvviso a fare figli - improbabile, viste le condizioni in cui sono messe le nuove famiglie - le conseguenze sul mondo del lavoro le vedremo fra vent’anni. E nel frattempo? I buchi di organico (nella sanità, nell’assistenza, nell’industria, nei servizi) diventeranno voragini: e di un piano organico di immigrazione non c’è traccia. Rincorriamo le emergenze, come sempre.
Cinque mesi di governo sono pochi per trarre conclusioni, ma la domanda resta: cosa vogliono conservare i conservatori?”.
Resta il fatto preclaro e bisogna essere onesti nel dire che stare all’opposizione è più facile. Giochi sempre di rimessa: il Governo fa e tu dici che non va bene. Chi dirige sceglie una strada e l’opposizione strilla. Operi una scelta impopolare ma necessaria (come Macron sulle pensioni) e la minoranza infiamma le piazze, senza mai dire in questo caso come quasi sempre quali sarebbero state le reali alternative. Una democrazia che diventa una perenne trincea con guerre guerreggiate infinite o peggio ancora con perenni lotte intestine non fa bene.

Il peso del disinteresse

Penso che si debba essere curiosi di ogni fenomeno che cambi in qualche modo la nostra società nel suo insieme e trasformi pure l’esistenza dei singoli. Soprattutto nel quadro di quella creatura proteiforme che è la famiglia, oggetto di ogni forma possibile di retorica, che sia in buona o cattiva fede.
Il pensiero, semplificato all’osso, è il seguente: cresce il numero di quelli che si disinteressano, entrando in una dimensione prevalentemente familiare e scissa in larga misura da impegni pubblici o comunitari. È una scelta di vita che rischia di dimostrarsi irreversibile. Come se si staccasse una spina, orientandosi verso un una sfera più intima, che può creare una sorta di isolamento e di distacco dagli altri.
Non parlo solo della dimensione politica, che sarebbe cosa abbastanza nota anche per colpa di chi in politica non riesce più a comunicare e soprattutto a scaldare i cuori e il distacco, facendo i conti con un fossato che si allarga pericolosamente nel tempo.
Parlo, semmai, delle piccole e grandi cose, sapendo che al posta di chi decide di non esserci sono altri che lo fanno. Questo non avviene con una delega, ma per rinuncia di chi ne avrebbe diritto e dunque sopravviene una forzata sostituzione.
Un abbandono che non si manifesta nel passato remoto dei calessi o delle piume d’oca, ma in un mondo che ci inonda con ogni mezzo possibile di informazioni, che coprono ogni spazio e offrono mille occasioni per capire. Eppure sono molti che decidono di chiudersi nel loro nido più o meno confortevole non per una disconnessione, ma per una sorta di catalessi intimista.
Mi capita spesso di intavolare discussioni su temi che mi paiono di attualità o di una qualche importanza e vedo in alcuni guardi degli interlocutori spersi con la bocche cucite o balbettanti. Per una semplice ragione: la persona o le persone con cui interloquisci hanno scelto di vivere in una loro bolla e non sanno molto delle cose che li dovrebbero interessare. È come se avessero alzato una barriera chiusi nei loro fortini.
Sarà una reazione di difesa, un grido di protesta, un “primum vivere, deinde philosophari”. In sostanza «prima si pensi a vivere, poi a fare della filosofia»: un richiamo a una maggiore concretezza e a una maggiore aderenza agli aspetti pratici della vita. Se non fosse che, alla fine, la distinzione non è oggettivamente così facile.
Invece, io penso che la partecipazione, intesa nelle sue varie declinazioni, resti un obbligo, che risulta modulabile pur sempre a diversi livelli. Non si tratta di impartire lezioni di vita a nessuno, ma poi - questo penso sia il punto - è bene pertanto non lamentarsi delle conseguenze, perché i vuoti si riempiono in qualche modo e “malgré nous”.
Per cui guardare avanti vuol dire, comunque, agire oggi (in latino si potrebbe usare ”hic et nunc”), affinché quanto vorremmo si realizzi non solo nell’enclave delle pareti domestiche.
Capisco come ciascuno di noi sia già oberato di pensieri, preoccupazioni e pure, per fortuna, di speranze e dunque si rinunci da parte di alcuni ad occupare dimensioni collettive più vaste.
Tuttavia altri si interesseranno a cose importanti e riempiranno gli spazi con evidente riverbero sulle vite dei rinunciatari, che non potranno certo lamentarsene.

L’Aosta Valley Loop Beach

Tutto nasce dall’evidente ingiustizia dell’assenza in Valle d’Aosta del mare, verificabile - ahimè! - ogni giorno da parte di noi valdostani ed anche dai turisti in visita, delusi dalla mancanza di porti e spiagge. Si tratta non solo di una considerazione ad uso ludico, ma anche dalle conseguenze gravi, dal punto di vista geopolitico, dovute all’assenza strategica di uno sbocco al mare. Anche se, dal punto di vista della Marina mercantile, il recente accordo con la flotta svizzera (che di recente ha compiuto i suoi 80 anni di vita) ci ha consentito finalmente il varo della prima nave valdostana, Le Valdôtain volant, utile in particolare per il trasporto delle fontine e del vino negli Stati Uniti, ma anche a disposizione per crociere marine per anziani e bambini.
Rispetto al mare, ad essere precisi e a giustificazione di una certa nostalgia rinvenibile nel repertorio delle canzoni tradizionali, più di 200 milioni di anni fa un Oceano c’era, ma poi lo disdicevole scontro fra Continenti (per alcuni già colpa delle NATO) ce lo ha portato via. Dunque dobbiamo vivere di ricordi, come fanno quelli della setta degli adoratori delle Cime Bianche, cimelio dell’antica e scomparsa epoca marina con il giusto rimpianto che la Valle d’Aosta non abbia mai potuto diventare una Repubblica marinara e godere in automatico di una Zona Franca portuale.
Ma al vulnus storico-geologico oggi si può finalmente porre rimedio, sfruttando anche la favorevole forza di gravità e l’evidenza, in barba ai terrapiattisti, che noi siamo su e il mare - quello più vicino è il mar Ligure - è giù.
La proposta viene da una società di costruzioni “La clicca dzeusta” in collaborazione con il geniale e bizzarro Elon Musk, che ha depositato presso la Regione Valle d’Aosta, da finanziare con i fondi del PNRR, un’avvenieristica soluzione tecnica definita Aosta Valley Loop Beach.
Il dato di partenza deriva dalla constatazione che il mare non è distante. Infatti fra Aosta e la ridente località di Mentone, in Costa Azzurra, aqla distanza è di soli 219 KM in linea d’aria.
Grazie a Musk, che ha brevettato una sorta di scivolo con scafandri che somigliano a tute spaziali, in circa 16 minuti sarà possibile trovarsi al mare. La velocità media sarà attorno agli 800 km/h e un ingegnoso sistema di materassi ad aria, a conclusione del percorso, consentirà al passeggero di uscire incolume dall’avventura, che comprende anche sdraio, ombrellone e aperitivo sulla spiaggia delle Sablettes.
Un pochino più complicato il ritorno previsto in pullman con un percorso di circa cinque ore con sosta all’autogrill di Carcare.
Si calcola che l’apertura dell’ingegnoso sistema, anche a disposizione dei turisti desiderosi di privare la geniale accoppiata montagna-mare, è prevista per il 1 Aprile 2026.

La corsa ad ostacoli del PNRR

Capita di dover fare i conti con gli esiti del proprio lavoro quotidiano e ho imparato come in certi passaggi scriverne risulta utile per fissare punti e valutare meglio le situazioni. È un modo, in fondo, per mettere ordine ai propri pensieri per non piegarsi troppo al contingente e ai propri umori. Non sempre le cose funzionano e bisogna mettersi di buzzo buono per risolvere le questioni e per farlo indulgere al pessimismo peggiora semmai la situazione. Scusate le banalità, non sempre così ovvie, purtroppo. Sopporto ormai a malapena i lamentosi o chi scarica ad altri i barili con grande naturalezza.
Sin dagli esordi del PNRR - disegno strategico di fonte europea per uscire da situazioni economiche di impasse ben note - si era capito come i meccanismi prescelti avrebbero messo a rischio l’insieme del progetto, la cui complessità è evidente già nella varietà tentacolare degli interventi concreti, così come sono stati previsti.
La scelta italiana di centralizzare, complicare, burocratizzare è di fatto il peccato originale, che ha reso tutto più difficile già in partenza. La mancata acquisizione di notizie certe ha pesato molto e talvolta alcune indicazioni chiave sono cambiate in corso d’opera. Aggiungo come certi sistemi informatici complessi abbiano reso la vita difficile a chi li doveva adoperare per il caricamento dei dati. Esiste poi una rete di controlli, ovviamente necessari e legittimi, che tuttavia si stanno allargando in modo asfissiante e a tratti minaccioso e questo spinge molti a lasciare prima ancora di impegnarsi per varie paure che si sommano. Confusione genera confusione e alcune campagne di stampa, improntate a catastrofismo cosmico, generano effetti nefasti sul sistema e deprimono chi opera sul campo.
Vero è che la continua produzione legislativa si è succeduta per dare ordine al caos, ma l’esito è stato per ora il contrario. Ricordo alcuni primi incontri a Roma, in cui educatamente si cercava di far capire a certi grand commis dello Stato dell’esistenza di precise e circostanziate storture di base che avrebbero creato problemi seri. Invece non solo certi allarmi non sono stati presi sul serio e anzi si è continuato sulla medesima strada. Eppure si sa come perseverare sia alla fine diabolico, specie in presenza di un’Unione europea che vigila su tempi e contenuti e chiederà conto di ritardi e omissioni. Avrà scarso successo lo tendenza già in voga di scaricare tutto sui predecessori, perché molte responsabilità sono da assumere ora e in fretta. Vi è ancora un punto: bisogna evitare che il PNRR venga considerato una cornucopia che contenga tutto e che risolva tutti i mali come se fosse una bacchetta magica, assumendo un ruolo sproporzionato e salvifico.
Che fare, almeno nel nostro piccolo con circa 400 progetti e alla fine mezzo miliardo di euro? Intanto avere piena contezza delle forze in campo e questo ormai si sa. Dopodiché si lavora per investire in modo fruttuoso quanto a disposizione, mettendoci impegno e metodo, nel limite del possibile.
Su questo, come si dice, ci stiamo lavorando per evitare problemi con la creazione di organismi a diversi livelli che monitorino l’andamento dei lavori in corso con aiuti interni ed esterni all’amministrazione. Ma ci sono quotidianamente ostacoli da affrontare, specie per il tema delicato e pure inquietante del reperimento delle risorse umane che devono far funzionare la macchina in un periodo in cui i concorsi pubblici vedono una bassa partecipazione. In più quando le strade non sono chiare bisogna fare in modo che siano definiti tempi e contenuti per evitare lo spauracchio di problemi su alcuni assi di intervento. Ma bisogna affrontare la realtà e essere fiduciosi, senza che si scarichino sulle Regioni le responsabilità che non sono le loro.

La Francia grazia i terroristi

Gli anni di piombo (dall'omonimo film del 1981 diretto da Margarethe von Trotta, che trattava l'esperienza della Rote Armee Fraktion
gruppo terroristico tedesco) hanno coinciso con il mio passaggio dalla giovinezza all’età adulta. Lo stragismo di estrema destra e il terrorismo rosso insanguinarono l’Italia fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta con un bilancio terribile di morti e feriti.
Avevo appena cominciato a fare il giornalista, prima in erba con - come culmine - la morte di Moro nel 1978 che commentai a Radio Saint-Vincent e poi, già contrattualizzato, pochi mesi dopo, con la cronaca degli attentati quasi quotidiani attraverso notiziari a Radio Reporter 93 di Torino.
Ero giovane e, per quanto la pesantezza si vivesse con certe tragedie umane, il mondo restava pieno di speranze e anche della joie de vivre. Ma ora, quando ci ripenso, tornano vividi i ricordi di quella stagione assurda, violenta e a tratti feroce. Considero le follie di allora come un insieme, un grumo di dolore e assieme di insegnamenti su dove gli ideologismi possano portare, obnubilando le menti.
Ho letto Carlo Bonini su Repubblica: “La decisione della Corte di Cassazione francese di confermare il diniego all'estradizione di otto uomini e due donne, protagonisti della stagione della lotta armata nel nostro Paese, e per questo condannati in via definitiva per gravissimi reati di matrice terroristica (omicidi nella maggior parte dei casi, come anche sequestri di persona) riapre, rendendola a questo punto non più rimarginabile, una ferita profonda. Che tale resterà nella storia dei rapporti tra Italia e Francia. Per l'intollerabile pregiudizio di cui questa decisione è figlia, per l'enormità giuridica del principio che afferma, per l'impunità che assicura ai colpevoli e il dolore in cui torna a precipitare la vita e la memoria delle vittime. Per l'ostacolo definitivo che pone nel chiudere per sempre la coda insanguinata del nostro Novecento”.
L’applicazione della “dottrina Mitterand”, cavalcata da certa “gauche caviar”, ha nel tempo accecato certi maitres à penser d’Oltralpe, dando ad assassini la patente di vittime della Giustizia con status da perseguitati politici e i giudici francesi hanno seguito il solco.
Ricorda Bonini: « Nella primavera del 2021, il Presidente francese Macron e il suo ministro di giustizia Eric Dupond-Moretti insieme al nostro presidente della Repubblica Sergio Mattarella erano riusciti a chiudere quella pagina del Novecento ripristinando il principio universale di ogni democrazia per cui i reati, accertati in via definitiva in un giusto processo, non debbano e non possano restare impuniti. Ecco perché, nel giugno di quell'anno, nelle case parigine di uomini e donne ormai anziani aveva bussato il fantasma della lotta armata, presentando un conto troppo a lungo rinviato e non certo perché figlio di un ritardo nell'accertamento della verità, ma solo della volontà dei colpevoli di sottrarsi alla pena nel luogo in cui questo gli era stato per lustri consentito”.
Già, gli interessati sono stati condannati dalla Giustizia italiana con processi regolari, che avevano sancito le loro colpe e la gravità dlele loro azioni. ”Ebbene, la giustizia francese - osserva Bonini - spiega oggi al nostro Paese che a impedire il rientro in Italia di quei dieci ex militanti della lotta armata, responsabili della morte data ad innocenti senza alcun processo (che non fosse quello agghiacciante pronunciato dal "tribunale" di un fantomatico "popolo"), sarebbe il mancato rispetto degli articoli 6 e 8 della carta europea dei diritti fondamentali dell'uomo. Lì dove cioè si sancisce il diritto di ogni cittadino europeo ad avere un giusto processo e a veder rispettata la propria vita privata e familiare. Nell'affermazione sono evidenti due enormità. Ritenere, senza alcuna evidenza, che l'Italia abbia celebrato nei confronti di quei dieci ex terroristi processi contrari allo Stato di diritto. Ritenere che la richiesta di estradizione leda la raggiunta quiete della sfera privata e familiare di ex assassini perché non ricorrerebbero i requisiti per cui quella libertà può essere compressa. Come se l'impunità di condannati in via definitiva cercata, ottenuta, e difesa con strumenti politici, possa essere oggi un canone europeo di giustizia cui adeguare le decisioni del giudice penale”.
 Conclude il giornalista e concordo in pieno con vivo dispiacere per un evidente errore dei magistrati francesi: ”La verità - ed è terribile dirlo - è che nella decisione della giustizia francese ci sono tutto il pregiudizio, le tossine e il ciarpame ideologico che una generazione di expat è riuscita a depositare in trent'anni nella cultura profonda di quel Paese. Convincendola che la battaglia contro il terrorismo fu vinta non grazie alla tenuta democratica italiana, della sua società, delle sue istituzioni e dei loro servitori, dei suoi partiti e sindacati, dei suoi studenti e operai che rifiutarono la lusinga della "violenza rivoluzionaria", ma a colpi di un diritto penale addomesticato dall'emergenza. Uno sfregio alla Storia e a chi per difendere la democrazia diede la vita”.

Infangare l’Autonomia speciale

Ho passato una parte della mia carriera politica a rispondere agli attacchi e ai pregiudizi nei confronti dell’Autonomia speciale. L’ho sempre fatto, in diverse situazioni, in una logica di difesa e anche di attacco.
Difesa verso chi la metteva in discussione e ne limitava il ruolo. Attacco per allargare, ove possibile, poteri e competenze.
Ho portato a casa importanti modifiche dello Statuto di autonomia e norme nella legislazione ordinaria utili per la mia comunità in un’interlocuzione nel segno della dignità istituzionale e mai con il cappello in mano.
Per questo mi sono abituato anche agli attacchi come quelli di pochi giorni fa sul Corriere con un paginone firmato da Milena Gabanelli, che prosegue sul Corriere quel giornalismo sperimentato per anni in tv con Report. Un giornalismo che non mi è mai piaciuto, perché alla ricerca dello scoop e del sensazionalismo militante.
Anni fa fui sottoposto da una loro giornalista, quand’ero Presidente della Regione, ad una lunga intervista, di cui alla fine misero pochi secondi. Non si può dire che fosse un’intervista, era semmai un interrogatorio a tratti fazioso, che mirava a a farmi dire qualcosa di sbagliato per inseguire una certa tesi. Non caddi in contraddizioni e dunque non venni considerato interessante.
Ovviamente l’attacco alle Speciali sul Corriere aveva un uso strumentale. Serviva cioè a segnalare gli intollerabili privilegi delle autonomie speciali per dire no alla famosa autonomia differenziata per le Regioni a Statuto ordinario, di cui si discute in questo periodo.
Non sarà la prima e neppure l’ultima volta che le Speciali finiranno nel tritacarne e ormai ci ho fatto il callo.
Intendiamoci: questo non significa affatto non accettare le critiche e fare autocritica sulle cose che non vanno.
Passo ore intere ad occuparmi di questioni che non funzionano come dovrebbero e la nostra Autonomia, che è assunzione di responsabilità, dovrebbe essere più efficiente ed efficace. Ma questo non potrà mai voler dire buttare via l’acqua sporca con il bambino.
Ogni difesa non deve avvenire in modo meccanico e per partito preso, ma è intollerabile anche il suo opposto, fatto di attacchi gratuiti, ripetitivi e pieni di rancori. E ogni difesa, anche quando si trasforma in attacco contro polemiche faziose, deve avvenire contando su di una comunità valdostana coesa su certi punti fondamentali. Spesso, però, i nemici dell’Autonomia ce li abbiamo in casa e li vediamo in azione tutti i giorni e diventano loro complici coloro che con il silenzio o l’indifferenza finiscono per diventare - lo ripeto - conniventi.
Spesso c’è chi tace, purtroppo, perché ha perso per strada la cultura autonomistica, che dovrebbe essere un patrimonio comune, sviluppato a diversi livelli di coscienza personale. Ecco perché bisogna trasmettere ai giovani, mai in una logica di indottrinamento ma di presa di coscienza, valori e idee di un autonomismo sano e della fierezza di essere valdostani. Un patriottismo buono di cui essere protagonisti e testimoni.
La consapevolezza politica sta su un piano ancora superiore, perché non è solo espressione di un amore per la terra natia e per un insieme di tradizioni e di valori identitari, ma un coinvolgimento nei meccanismi storici e giuridici che fondano le ragioni dell’Autonomia. Questo consente solidità di convinzioni e capacità di reazione e di coinvolgimento nel patrimonio di idee e di speranze da passare di generazione in generazione contro il rischio di oblio e dì disinteresse.
Ciò non significa passatismo o ricopiatura di quanto già fatto, perché l’Autonomia è elemento dinamico ed è una continua interlocuzione interna e soprattutto esterna da seguire consci, come valdostani, dei nostri diritti e ancor di più dei nostri doveri.

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