CVA cavalca il mercato elettrico

Quando in Valle d’Aosta si costruì il regime di Autonomia speciale, prima con i decreti luogotenenziali e poi con lo Statuto, la ricchezza derivante dall'energia prodotta con la forza delle acque attraverso le centrali idroelettriche fu un tema politico essenziale nei rapporti talvolta turbolenti con Roma. Questo avvenne grazie alla visione illuminata dei padri fondatori dell’Autonomia, tra l’altro con discussioni enormi anche nella politica interna.
Le particolari prerogative ottenute vennero in larga parte disattese con la nazionalizzazione del settore elettrico con sentenze della Consulta contrarie alla Valle all'inizio degli anni Sessanta, che furono tombali e diedero vita al monopolio "Enel", durato per decenni e la responsabilità nel settore fu tutta nelle mani del potere politico romano con una logica colonialistica.
Pian piano la liberalizzazione di fonte europea si affermò sino a quando questa leva della concorrenza consentì vent'anni fa - con la vendita degli impianti "Enel" - la nascita della "CVA - Compagnia valdostana nelle acque - Compagnie valdôtaine des eaux". Personalmente lavorai come deputato per chiudere questo disegno che fu certo oneroso per le casse regionali, che oggi per contro godono di cospicua tassazione, benefici da concessione e lauti dividendi che mostrano la bontà delle scelte assunte. Si trattava nel lavoro parlamentare di ridare vitalità a competenze statutarie che parevano perse per sempre e di facilitare le complesse negoziazioni con i diversi interlocutori. I frutti, come dicevo, oggi si vedono e si guarda giustamente al futuro. Sono passati per fortuna certi momenti grami, come avvenne con l’improvvido acquisto fatto a suo tempo delle turbine cinesi - mai ben funzionanti e oggi ferrivecchi arrugginiti - di cui mai nessuno ha di fatto pagato le colpe. Così come si è affrontata bene la recente crisi legata alla guerra d’aggressione in Ucraina, potenzialmente disastrosa per picchi di prezzo con esborsi milionari e ciò è avvenuto con abili operazioni finanziarie necessarie per salvaguardare gli equilibri di bilancio di CVA. Avendone avuto all’epoca la delega ho avuto momenti di sudori freddi.
Ora le strategie europee in quel vasto programma riassumibili nella parola "green" chiariscono che per CVA, partecipata regionale, può significare sempre di più essere nel posto giusto al momento giusto con una politica forte nel proprio settore oggi in auge, quello delle energie rinnovabili. L'idroelettrico, l’eolico e il solare servono in più per ottenere idrogeno verde, combustibile del futuro, che può stoccare anche quanto oggi si perde. E la crisi idrica per il cambiamento climatico spinge verso investimenti proprio verso i parchi fotovoltaici e eolici per compensare i cali nella produzione idroelettrica. L’uscita dalle “gabbie” della legge Madia ha significato per la società poter fare investimenti nel resto d’Italia, rafforzando la propria posizione sul mercato.
Lo scriveva bene ieri il Sole24 e approfitto della ottima sintesi di un piano di sviluppo CVA di recente presentato al Governo valdostano è così proposta ai suoi lettori dal giornalista Cheo Condina: “Il raddoppio della capacità installata a 2 GW, grazie a investimenti per 1,6 miliardi, per consolidare il ruolo di operatore energetico "pure green" e differenziare maggiormente il portafoglio delle fonti di generazione elettrica, crescendo in tutta Italia. È questo, in estrema sintesi, il nuovo piano industriale al 2027 appena lanciato da Compagna Valdostana delle Acque, già tra i primi player nazionali dell'idroelettrico, che ora punta sotto la guida del Ceo Giuseppe Argirò a consolidare la presenza su tutta la filiera delle rinnovabili dopo che lo scorso dicembre, in quest'ottica, era stato mosso un passo importante con l'acquisto di Sistemi Rinnovabili”.
Ma sono importanti i dati che dimostrano lo sviluppo: “Numeri alla mano, il gruppo oggi può contare su 934 MW di idroelettrico (gli storici impianti in Valle d'Aosta, per alcuni dei quali il piano prevede un potenziamento), 54 MW di solare e 157,5 MW di eolico. In tutto, dunque, 1,2 GW già a terra, a fronte tuttavia di un portafoglio ben più ampio: 194 MW di progetti fotovoltaici autorizzati, oltre 1.100 MW in fase di sviluppo e una pipeline superiore a 3.100 MW. Questa sfilza di numeri si traduce al 2027, in circa 2 GW complessivi distribuiti in tutto il Paese. Il concetto chiave è la maggiore diversificazione, geografica e tecnologica: l'idroelettrico cala dal 79% al 48% del totale, il solare arriva al 35%, mentre agrivoltaico ed eolico si attestano rispettivamente al 5% e al 12%. Da piano è prevista anche la valorizzazione sul mercato di ulteriori 400 MW di rinnovabili già autorizzati. « L'idea è puntare molto sulla crescita endogena, ovvero mettere in piedi l'architettura di una business unit verde che ci consenta di presidiare tutta la catena del valore: origination, permitting, realizzazione e gestione impianti», fa notare Argirò, sottolineando come lo sviluppo di solare ed eolico consenta una cruciale «diversificazione del rischio delle fonti, raggiungendo un modello di offerta di generazione elettrica base load». In parole povere, il portafoglio di Cva consentirà di coprire la richiesta di elettricità in qualsiasi momento della giornata, che ci sia vento, pioggia o sole”.
Ma anche i soldi contano e valgono molto per la Regione autonoma: “A livello di bilancio al 2027 è stimato un Ebitda di mezzo miliardo circa (dai 295 milioni di fine 2022), mentre l'utile atteso è di circa 250 milioni (da 164 milioni). Su arco piano tutti i profitti dovrebbero arrivare a 1,2 miliardi, di cui 470 milioni da destinare come dividendo alla Regione Valle d'Aosta, socio totalitario di Cva con il 100% del capitale. La posizione finanziaria netta, infine, si attesterà a 396 milioni, ovvero 0,8 volte l'Ebitda. A livello industriale Cva prevede anche il consolidamento e lo sviluppo della business unit relativa all'efficienza energetica e investimenti sulle reti, visto che l'obiettivo «è anche dare un rilevante contributo al contrasto al cambiamento climatico ed alla sicurezza energetica nazionale», conclude Argirò”.
Certo bisogna in contemporanea giocare una partita importante con la scadenza delle concessioni ora prevista nel 2029, che potrebbe significare l’incognita delle gare, che molti Paesi europei hanno scelto scientemente di non effettuare a tutela di un settore strategico. Dappertutto si è sottolineato l’impatto assai rischioso di cadere in una sorta di lotteria nel settore idroelettrico assai inquietante per la sovranità energetica italiana ed europea (ci ragionino le autorità comunitarie!) anche per i territori come quello valdostano - Regione alpina per eccellenza - che hanno nelle acque una propria ricchezza.

Puntualità e perdita di tempo

Ci sono due comportamenti che accompagnano la mia vita e chissà se possono essere definiti paranoie, certo nell’uso colloquiale del termine.
Ammetto di essermi ormai rassegnato in larga parte alla loro imposizione, ma non del tutto, benché mi consideri spesso perdente.
il primo è l’assillo della puntualità, il secondo riguarda certe perdite tempo. Cominciamo dalla puntualità: è una vita che sono puntuale e mi rendo conto che la precisione nel rispetto degli orari finisce per essere una galera.
È purtroppo sistematico nella mia vita cercare persino di arrivare persino un attimo prima e di subire poi l’attesa di chi non rispetta i tempi. Credo che il mio sia un riflesso culturale, instillato da mio padre e dal suo uso febbrile del tempo. Più che un veterinario era una pallina da flipper sempre in movimento.
Ci ha scherzato Stefano Benni: “La vita del puntuale è un inferno di solitudini immeritate”. E ricordo il nervosismo paterno, controllando maniacalmente l’orologio da polso, quando qualcuno sgarrava.
Ci possono essere diverse ragioni per cui alcune persone arrivano sempre in ritardo. Alcune possibili spiegazioni potrebbero includere una gestione inefficace del tempo, una cattiva pianificazione, la mancanza di consapevolezza dell'importanza della puntualità o semplicemente una tendenza personale ad essere disorganizzati. Non vorrei dimenticare i maleducati e i menefreghisti, che prescindono dall’ implacabile incedere delle lancette dell’orologio.
Esiste poi, come secondo malessere che poi si incrocia in parte con il primo nelle attese di chi non arriva, e cioè la perdita di tempo, che temo valga uno spazio importante nella vita di ciascuno di noi. Non è naturalmente così nel tempo libero, quando il tempo può scorrere anche in un dolce far niente, che ha i suoi aspetti salutari.
Ma nel lavoro trovo insopportabile che si sprechi il tempo. Vado a certe riunioni o a certo convegno dove gli eccessi di parola, la ripetitività, l’ascoltarsi mentre si parla deborda triturando i minuti e non solo quelli. Molte cose possono essere dette in poco tempo. Evoco sempre due lezioni di vita. La prima Gustavo Selva, direttore del GR2 che chiedeva alle Sedi regionali contributi di 1’ per raccontare gli eventi di cronaca. Un obbligo ad essere rapidi ed efficaci in una quindicina di righe. Via i fronzoli e dritti valla notizia. Idem per l’esperienza europea, sia al Parlamento che al Comitato delle Regioni: sempre in 1’ si deve concentrare un pensiero sull’argomento ì discussione e vi assicuro che si può fare.
Così devono essere le riunioni di lavoro e soffro quando hai persone che sì dilungano, che cincischiamo, si ripetono, stentano a chiudere i loro interventi. Così i tempi si allungano all’infinito e questo capita anche in certe recenti discussioni in Consiglio regionale, che è certo un parlamento - termine che viene proprio da parlare - ma esistono il buonsenso e l’abisso dello straparlare.
Per carità, aveva ragione Elsa Morante a dire della variabilità del tempo, anche quando è lo stesso: “l tempo – che gli uomini tentano di domare con gli orologi, fino a renderlo un automa – è per se stesso di natura vaga, imprevedibile e multiforme, tale che ognuno dei suoi punti può assumere la misura dell’atomo o dell’infinito”.
Ma comunque è bene non sprecarlo, come scriveva San Josemaria Escrivà de Balaguer: “Se il tempo fosse soltanto oro…, potresti anche permetterti di perderlo. Ma il tempo è vita, e tu non sai quanta te ne resta”.

Le Alpi “umane”

Ancora oggi, quando si parla di montagna e delle sue caratteristiche le più varie, si pensa da parte di molti – per distrazione o ignoranza – perlopiù all’alpinismo. Pratica straordinaria, che ha sdoganato dal Settecento le alte cime e fatto conoscere al mondo terre non così note al resto del mondo, intendendo per questo in particolare l’alta montagna, quindi neve, roccia, ghiaccio e quote elevate, utilizzando al momento opportuno le varie tecniche adeguate al terreno.
Ricorda Mariel Bluteau, non a caso evocando gli inglesi che furono i primi “scopritori”, sul sito di Radio France: “Il est intéressant de noter que les anglophones utilisent le mot "alpinism" mais aussi et surtout un terme plus ancien, "mountaineering", qui ne fait pas référence aux Alpes mais à la montagne. Sa traduction française, « montagnisme », qui existe aussi, n'est utilisée que très rarement. D'autres termes sont apparus plus tard pour désigner la pratique de l'alpinisme spécifique à d'autres massifs : le pyrénéisme, l'himalayisme, l'andisme… Mais le terme "alpinisme" reste utilisé de façon générale pour tous les massifs du monde”.
Ma è sempre bene fare in modo di spiegare che il mondo della montagna è molto più complesso e se l’alpinismo resta una punta di diamante, con la sua pratica ordinaria e certe imprese di straordinaria eccellenza, c’è poi un ricco mondo della montagna sottostante, ma non minore. Ci pensavo l’altro giorno, trovandomi nel vallone di Vertosan sopra Saint-Nicholas per un delizioso e direi godurioso pranzo tipico a Lo Grand Baou dove la famiglia Marcoz, sotto la direzione di Denise veterinaria-ristoratrice, ha dagli Settanta convertito proprietà di famiglia in questo luogo di accoglienza. Vertosan è un termine in patois che significa Comba di Vert Tzan e significa letteralmente Valle del Prato Verde e l’abbondanza delle acque in effetti consente questa natura verdeggiante, da cui il toponimo.
L’esempio è significativo di un’altra montagna che si rivolge non solo agli alpinisti, ma ai semplici escursionisti, che devono però saper cogliere non solo l’ambiente naturale in cui vivono le loro esperienze, ma avere consapevolezza di che cosa siano le Alpi. Con buona pace di chi ritiene che sia uno spazio selvaggio in cui la presenza umana è accessoria se non invasiva. Purtroppo certo ambientalismo ha imposto, con disgusto, il verbo “antropizzare”, come se i montanari fossero elementi estranei alla Natura, invasori di luoghi altrimenti destinati a chissà quale ruolo senza la loro presenza…ingombrante. Follie, verrebbe da dire, se non che certe logiche striscianti guadagnano purtroppo terreno.
Vertosan, invece, è zona di alpeggi che segnano la presenza umana nel connubio con quelle bovine valdostane anticamente addomesticate e la catena da allora per fortuna non si è spezzata, anche se troppi villaggi di alta quota, sia per ragioni climatiche che per fenomeni sociali di spopolamento, oggi sono in parte abbandonati. Ma, come appena citato, si moltiplicano i casi virtuosi di riutilizzo di strutture antiche.
Mi sono fatto indicare – seguendo il genius loci che si avverte nella vallone - la zona cui si riferisce una poesia del poeta in francoprovenzale, l’Abbé Jean-Baptiste Cerlogne, che racconta della Bataille de Reines a Vertosan svolta nella zona, si tratta di battaglie incruente ed istintive per le vacche il cui scopo è quello di decretare in maniera naturale una “Regina” del gruppo.
Ecco un passaggio della poesia:
“Euna vatse s'avance in branlen sa sonnaille: / L'est Fribour, que s'en vin presenté la bataille. / Maurin, reina di Breuil l'attendzet a pià fer. / Lé s'anuflon toustou, s'aveitson de traver. / Inque cella di Breuil, quoique dza bien lagnäye, / Se bette a borallé; l'est totta inforochäye; / Sa gordze l'est in boura, et soufle de son nà, La terra que vegnan de dzaraté se pià. / L'an corne contre corne, et fron contre lo fron; / I meiten di s-épale infonçon lo cotson. / Binque fejan d'effor tseut leur membro cracävon; / Leur s-ousse sortichan, leur veine se conflävon; / Et tsaqueuna, a be-tor, pe pa perdre terren / Plante se coque in terra, et lé vat pa pi llioen. / Egala l'est leur force, egal l'est leur coradzo: / Faren-t-è de leur gloère ettot egal partadzo?”
 La traduzione:
“Una mucca arriva agitando il suo campanaccio: / È Fribour, che si presenta per battersi. / Maurin, regina del Breuil a piede fermo l’aspettava. / Lì tosto si annusano, si guardano di traverso. / Poi quella del Breuil, sebbene già molto stanca,  / Comincia a muggire; è tutta inferocita; / La sua gola schiuma, e soffia con le narici / La terra che i suoi zoccoli han sollevato. Hanno corna contro corna, e fronte contro fronte; / In mezzo alle spalle infossano il loro collo. / Mentre facevano lo sforzo tutte le loro membra scricchiolavano; / Le loro ossa affioravano, le vene si gonfiavano. / Ed entrambe, a turno, per non perdere terreno / Piantano i loro zoccoli in terra, e di lì non si muovono. / La loro forza è la stessa, uguale è il loro coraggio: / Faranno anche della loro gloria un’equa spartizione?”.
Sono molte altre le azioni, le vicende, le storie che possono essere oggetto del nostro storytelling nel raccontare la nostra montagna viva e abitata.

Le montagne e la nuova legge

Torna in pista la legge sulla montagna o meglio la riscrittura profonda della legge in vigore, che risale al 1994, quando la votai convintamente, e che ebbe come principale promotore il Senatore Natale Carlotto, big della Coldiretti, classe 1931. Ancora oggi Natale, cuneese combattivo e simpatico, vive con un giusto rimpianto: quella legge, che era piena di norme interessanti, è stata inghiottita dalla burocrazia statale, che ne ha sancito purtroppo la scarsa applicazione. L’insegnamento, che appresi in quegli anni di attività parlamentare, è che bisogna diffidare di norme che rinviino a provvedimenti successivi con decreti vari che, mai emanati, boicottano anche la migliore legislazione.
Consci di questo triste destino, siamo stati in molti a puntare ad una riscrittura, che tenesse conto dell’evoluzione delle discussioni sul futuro delle montagne. Uso il plurale convinto, anche grazie a molte battaglie in Europa sul tema, che dire “montagna” non riflette la realtà plurale di territori che possono avere caratteristiche diverse. Il caso italiano è rappresentativo: le Alpi non sono tutte uguali e se le si comparata agli Appennini le differenze sono evidenti, così come l’apparente paradosso di isole che dal livello del mare si ergono verso il cielo. Queste differenze si evidenziano se ci allarghiamo al perimetro europeo di cui facciamo parte.
In Italia la madre giuridica per le montagne è il polveroso articolo 44, mai rinnovato: “Al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione secondo le regioni e le zone agrarie, promuove ed impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive; aiuta la piccola e la media proprietà.
La legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane”
Chiaro? Questa frasetta finale, situata nel contesto agricolo, condanna la montagna ad una vecchia visione rurale, per nulla corrispondente alla realtà attuale.
Eppure il Parlamento ancora di recente qualche modifica alla Costituzione l’ha fatta anche su principi importanti.
Pensiamo all’articolo 9: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
È stato aggiunto, scritto con i piedi per un ambientalismo d’accatto, questo comma finale: “Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”.
Così come l’articolo 41: «L’iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali”.
Nel primo comma spuntano “salute e ambiente”, nel secondo “ambientali”.
Mentre la montagna resta impiccata al vecchio 44, che sarà pure estensibile per la sua genericità, ma resta un comma di fatto inespressivo.
Sul piano europeo c’è l’articolo 174 dei Trattati: “Per promuovere uno sviluppo armonioso dell'insieme dell'Unione, questa sviluppa e prosegue la propria azione intesa a realizzare il rafforzamento della sua coesione economica, sociale e territoriale.
In particolare l'Unione mira a ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni ed il ritardo delle regioni meno favorite.
Tra le regioni interessate, un'attenzione particolare è rivolta alle zone rurali, alle zone interessate da transizione industriale e alle regioni che presentano gravi e permanenti svantaggi naturali o demografici, quali le regioni più settentrionali con bassissima densità demografica e le regioni insulari, transfrontaliere e di montagna”.
Fu una fatica aggiungere “montagna”, ma il vero passo in avanti sarebbe una direttiva europea che ne fissi gli ambiti territoriali.
In questi giorni, tornando al dibattito in Italia, ho riproposto a chi se ne occupa al Ministero delle Autonomie, delle annotazioni delle Regioni (di cui sono portavoce in materia) sulla riscrittura della legge. Resta essenziale la questione della perimetrazione per evitare quanto ampliamente già avvenuto in Italia: considerare montagna anche quello che non lo è e infilare le politiche per la montagna nell’ambigua definizione di “aree interne”.
Insomma: vicenda complessa, ma importante per un Valle d’Aosta che è davvero montagna!

I volti dell’Amore

Siamo di fatto e non sempre davvero immersi nell’Amore, che torna in discorsi aulici e in quelli terra a terra. Senza amore cancelleremmo interi repertori di canzoni, renderemmo difficile la vita ai poeti, faremmo fallire aziende di vari settori che lucrano sul sentimento.
La varietà è dimostrata dalle citazioni possibili.
Piero Angela da divulgatore scientifico: “L'amore colpisce in modo subdolo, spesso improvviso. È un sentimento irrazionale che penetra dolcemente e invade tutto l'organismo, come un'endovenosa che si diffonde capillarmente e che modifica il nostro modo di pensare e di agire. Provocando, a volte, una narcosi totale”.
Il sociologo Zygmunt Bauman:: “Senza umiltà e coraggio non c'è amore. Sono qualità entrambe indispensabili, in dosi massicce, ogni qual volta ci si addentra in una terra inesplorata e non segnata sulle mappe, e quando tra due o più esseri umani scocca l'amore, è proprio in questo tipo di territorio che vengono spinti”
Lo scrittore Milan Kundera: “L'amore non si manifesta col desiderio di fare l'amore (desiderio che si applica a una quantità infinita di donne) ma col desiderio di dormire insieme (desiderio che si applica a un'unica donna)”.
E le religioni? L'amore è un tema centrale presente in molte religioni del mondo. Sebbene le dottrine e le pratiche possano variare, l'amore è spesso considerato un valore universale che promuove l'empatia, la compassione e l'unità tra gli esseri umani. Nelle religioni monoteiste come il cristianesimo, l'islam e l'ebraismo, l'amore di Dio per l'umanità e l'amore tra le persone sono principi fondamentali. Nell'induismo, nell buddhismo e nel sikhismo, l'amore e la compassione sono insegnamenti chiave per raggiungere l'illuminazione spirituale. Anche nelle religioni tradizionali e nelle pratiche spirituali indigene, l'amore è spesso celebrato come un legame profondo con la natura e con gli altri esseri viventi.
Tra il dire e il fare…
D’altra parte Etimoitaliano mostra in modo evidente certi misteri suggestivi persino sull’origine del termine.
Prima ricostruzione: “L'etimologia della parola amore risale al sanscrito kama = desiderio, passione, attrazione (vedi kama-sutra, cioè aforismi, brevi discorsi sul desiderio, sulla passione fisica). Anche il verbo amare risale alla radice indoeuropea ka da cui (c)amare cioè desiderare in maniera viscerale, in modo integrale, totale”
Secondo scenario: “Un'altra interpretazione etimologica della parola amore, fa risalire il termine al verbo greco mao = desidero, da cui il latino amor da amare che indica un'attrazione esteriore, viscerale, quasi animalesca da distinguere da un'attrazione mentale, razionale, spirituale per esprimere la quale era usato il verbo diligere, cioè scegliere, desiderare come risultato di una riflessione”.
Ce n’è una terza assai suggestiva, che ho sentito nell’omelia in un recente matrimonio cui ho partecipato: “Un'ulteriore e meno probabile ma curiosa ed interessante interpretazione etimologica della parola amore individua nel latino a-mors = senza morte l'origine del termine, quasi a sottolineare l'intensità senza fine di questo potentissimo sentimento. Direi, "il sentimento" per antonomasia...”.
Sia chiaro che non sono affatto cinico e io stesso, persino quando scrivevo poesie adolescenziali per fortuna scomparse nei traslochi, trovo che senza Amore - nelle sue declinazioni assortite - non si vada da nessuna parte.

A Gressoney un Patrono con il brindisi

Mi ha opportunamente corretto Cristina De La Pierre, Soprintendente in Valle d’Aosta, per i Beni e le Attività culturali, quando le ho detto: “Ci vediamo a Gressoney-Saint-Jean per la Festa della Birra!”. E lei, con cui mi lega un distante legame di parentela, ha puntualizzato sorridendo: “Ci vediamo per festeggiare San Giovanni, patrono del paese”. Giusto!
Quando salgo nella Valle del Lys, sia a Gressoney-Saint-Jean così come a Gressoney-La-Trinité, mi sento "a casa" per varie ragioni. Una - visto che penso che nel nostro "dna" si portino vaghe tracce di memorie dei nostri antenati - è che ho una bisnonna walser (ho in ufficio l'albero genealogico di questa famiglia). La seconda è che da giovane ho passato momenti bellissimi lassù d'estate e d'inverno con amici gressonari, apprezzandone lo spirito e la simpatia. La terza è più politica: da deputato ho fatto modificare lo Statuto d'Autonomia a tutela del particolarismo linguistico e culturale dei Walser.
Ma torno alla birra per far capire quanto il mio non fosse un abbaglio nel parlare della ”Bierfest" di Gressoney-Saint-Jean, nata all'inizio degli anni '80, occasione unica per fare bisboccia e godere del calore umano dei gressonari.
Si sappia di quanto la produzione della birra faccia parte delle locali locali tradizioni di stampo germanico. Ci sono stati birrifici legati a gressonari, come "Zimmermann" a Verrès e la birra "Aosta" (marchi oggi di proprietà "Heineken"). Ma ci sono anche la "Menabrea" di Biella (oggi della "Forst") e soprattutto la birra "Kuhbacher" che lega le nostre Alpi con un paese tedesco. Questa birra, consumata a fiumi durante la "Festa della birra" dei Walser, ha una storia singolare, raccontata sul sito aziendale.
Ciò avviene con una premessa: "La Baviera da sempre è considerata la patria della birra. Qui, dove ancora vige "Il decreto sulla purezza della birra" che dal 1516 impone ai produttori locali l'utilizzo di solo acqua, malto, luppolo e lievito nella fabbricazione delle loro birre, viene prodotta "Kühbacher Bier", nel rispetto della natura e della tradizione. Già nel 1011 le monache benedettine, che abitavano il convento nonché attuale castello di Kühbach, producevano la propria birra".
Così si prosegue: "Nel 1839 Maximilian duca di Baviera, padre della famosa principessa Sissi e proprietario del castello di Kühbach, costruì un nuovo birrificio. Nel 1862 l'intera proprietà fu acquistata da Joseph Anton Beck-Peccoz, all'epoca imprenditore siderurgico in Baviera.
E' da oltre 150 anni quindi che il bene è in mano alla famiglia Beck-Peccoz, discendente da una antica stirpe Walser, popolazione residente in Valle d'Aosta da oltre 700 anni. Alcuni membri emigrarono in Baviera nel diciottesimo secolo divenendo prima commercianti, poi industriali. La famiglia è di doppia nobiltà: Ludwig I° Re di Baviera conferì il titolo bavarese di Freiherr von Beck nel 1840, grazie ai meriti imprenditoriali di Joseph Anton. Anni dopo la famiglia reale di Savoia convalidò questa nobilitazione per la linea italiana con il titolo di Baron de Peccoz. Così nacque il nome composto Beck-Peccoz.
Lo stambecco, animale araldico al centro dello stemma di famiglia, è diventato simbolo del birrificio".
Passai anni fa una serata memorabile all’Oktoberfest di Monaco di Baviera dove sono stato nel loro padiglione.
Sempre legata all’epopea di una famiglia walser trasferitasi a Biella, ma perché nel farlo viene magistralmente descritta la comunità walser e la sua capacità di avere contatti economici e commerciali con il mondo germanico.
Mi riferisco al rimarchevole libro “La salita dei giganti. La saga dei Menabrea” (edito da Feltrinelli) dello scrittore milanese Francesco Casolo.
Sono loro, con soci biellesi, che fondarono l’omonima birreria nel 1846 a Biella, società che oggi - pur avendo ancora legami parentali con chi ne diede la nascita - fa parte del gruppo Forst. Ma non ci sono solo i Menabrea nella coralità del racconto, ma ci sono gli Squindo, i Thedy, gli Zimmermann. Citato nel libro c’è il celebre Anton, birraio in Aosta, sepolto nel cimitero di Sant’Orso di Aosta a due passi dalla già citata mia bisnonna walser Hermine Marie Antoinette De La Pierre - Zumstein del ramo Danielsch.
Il libro descrive i legami con la Germania attraverso i colli, che mostrano la rete del popolo walser e dei loro commerci. Molto ruota attraverso la celebre Kramerthal, la Valle dei mercanti nel legame fra Valle di Gressoney e la Valle d’Ayas verso poi la Valtournenche e del valico alpino oggi abbandonato del Colle del Teodulo.
Insomma, un sistema sociale ed economico complesso in cui contava anche un bel boccale di birra con il suo “Ein Prosit, ein Prosit”.

Le sfide sul Web

Claudia de Lillo raccontava qualche giorno fa su la Repubblica della sfida dei cretini romani che hanno cozzato con un’auto con la morte conseguente di un bambino di cinque anni. Erano quasi alla fine di 50 ore passate dentro un’auto di lusso, protagonisti di presunta prodezza scelta da postare come fenomeno sui Social. Dopo la tragedia si sono tolti e lo hanno fatto a furor di popolo e si immagina su consiglio dei loro legali.
Scrive la giornalista: “Stralci di colossale, imbarazzante idiozia erano già in rete”. Con questi “challenge” guadagnavano, solleticando il voyeurismo e la stupidità del pubblico di fatto pagante per ogni “clic” che consente la visione.
Chiariamo il contesto: i challenge su Internet sono attività o compiti che le persone si sfidano a completare o superare online. Possono coprire una vasta gamma di argomenti e interessi, ed essere di natura divertente, creativa, educativa o anche di sensibilizzazione. Alcuni esempi comuni di challenge su Internet a titolo esemplificativo.
Ice Bucket Challenge: Un challenge che coinvolge versare un secchio di acqua ghiacciata sulla propria testa per sensibilizzare sulle malattie neurologiche e raccogliere fondi per la ricerca.
Mannequin Challenge: I partecipanti rimangono immobili come manichini mentre viene registrato un video, creando scene divertenti o artistiche.
Bottle Flip Challenge: Consiste nel lanciare una bottiglia di plastica in modo che compia un salto e atterri in posizione verticale.
Potrei continuare con vari esempi, che possono coinvolgere attività come cucinare, fare scherzi, cantare, ballare, o addirittura promuovere consapevolezza su questioni sociali importanti. È importante - bisogna dirlo? - partecipare a challenge che siano sicuri e rispettino le norme e i valori individuali.
Purtroppo su Internet che possono mettere a rischio la salute e la sicurezza delle persone.
Ne cito alcuni.
Blue Whale Challenge: Un challenge estremamente pericoloso che coinvolgeva una serie di compiti autolesionistici e culminava nel suicidio. Fortunatamente, molte piattaforme online hanno preso misure per contrastare questo tipo di contenuto.
E ancora, Fire Challenge: Questo challenge invitava le persone a darsi fuoco o a bruciarsi intenzionalmente, mettendo a rischio la propria vita e provocando gravi lesioni.
Ancora uno, Choking Challenge: Questo coinvolgeva la privazione dell'ossigeno per provocare una sensazione di euforia. Purtroppo, ci sono stati casi in cui persone sono morte a causa di questa pratica.
È fondamentale comprendere che queste sfide possono essere estremamente pericolose e potenzialmente fatali. È importante utilizzare il buon senso, evitare di partecipare a sfide che mettano a rischio la propria sicurezza e diffondere consapevolezza su questi pericoli per aiutare a prevenire incidenti e lesioni.
Dice de Lillo: “Niente sarà più come prima. Per quelle vittime collaterali di una follia narcisistica. Per gli autori di quell’atrocità grottescamente spacciata per gioco.
E per noi che assistiamo annichiliti a questo demenziale, tragico film dell’orrore? E per quelli come loro, che di sfide si nutrono? Cambierà qualcosa?
In questo preciso istante, da qualche parte del mondo o del nostro giardino, qualcuno necessariamente davanti a una telecamera, incurante delle lezioni di una storia che si ripete, si sporge dalla cima di una montagna o di un grattacielo, mangia 100 hamburger o beve 100 litri di birra, si lancia da una scalinata in bicicletta, molesta un passante, bacia un rospo velenoso, spinge il limite un po’ più in là, danzando a occhi chiusi sull’abisso. Proprio come quei cinque dentro una Lamborghini.
Non c’è spinta etica in quell’affannarsi furioso lungo un’iperbole. Non c’è la tensione delle idee e nemmeno lo sguardo largo sul mondo.
Al centro di quegli ipnotici teatrini autoprodotti ci sono solo loro, individui autoriferiti, alla disperata ricerca di un clic, di un like, di un contratto pubblicitario, dei soldi, della gloria, di un trono nell’olimpo degli influencer”.
Ma esiste una responsabilità collettiva: ”Ma nessuno si esibisce volentieri in un teatro vuoto. Noi siamo il pubblico. Siamo la misura del successo di questi signori sul palco. Alimentiamo la loro giostra, battendo le mani, affamati di velocità e adrenalina. Ancora, sempre di più, non fermatevi. Fino allo schianto.
È per noi che premono l’acceleratore, che si fanno i selfie, che si umiliano, che si rompono”.
Bene ragionarci.

Chabod alla Maturità

Il punto di partenza, nel caso in cui ieri fossi stato un maturando (che bello avere quell’età..), sarebbe stata ineluttabilmente la scelta della PROPOSTA B1, che qui riporto:
“Testo tratto da: Federico Chabod, L'idea di nazione, Laterza, Bari, (I edizione 1961), edizione utilizzata
2006, pp. 76-82
«[...] è ben certo che il principio di nazionalità era una gran forza, una delle idee motrici della storia del secolo XIX.
Senonché, occorre avvertire ben chiaramente che esso principio si accompagna allora, indissolubilmente, almeno negli italiani, con due altri principi, senza di cui rimarrebbe incomprensibile, e certo sarebbe incompleto.
Uno di questi principi, il più collegato anzi con l'idea di nazionalità, era quello di libertà politica (..j. In alcuni casi, anzi, si deve fin dire che prima si vagheggiò un sistema di libertà all'interno dello Stato singolo in cui si viveva, e poi si passo a desiderare la lotta contro lo straniero, l'indipendenza e in ultimo l'unità, quando cioè ci s'accorse che l'un problema non si risolveva senza l'altro. E fu proprio il caso del conte di Cavour, mosso dapprima da una forte esigenza liberale, anelante a porre il suo paese al livello raggiunto dalle grandi nazioni libere dell'Occidente (Francia ed Inghilterra); e necessariamente condotto a volere l'indipendenza, e poi ancora l'unità. [...)
Quanto al Mazzini, credo inutile rammentare quanto l'esigenza di libertà fosse in lui radicata: a tal segno da tenerlo ostile alla monarchia, anche ad unità conseguita, appunto perché nei principi egli vedeva i nemici del vivere libero. Egli è repubblicano appunto perché vuole la libertà: piena, assoluta, senza mezzi termini e riserve.
II Manifesto della Giovine Italia è già più che esplicito: «Pochi intendono, o paiono intendere la necessità prepotente, che contende il progresso vero all'Italia, se i tentativi non si avviino sulle tre basi inseparabili dell'Indipendenza, della Unità, della Libertà».
E più tardi, nell'appello ai Giovani d'Italia ch'è del 1859, nuova, nettissima affermazione «Adorate la Libertà».
Rivendicatela fin dal primo sorgere e serbatela gelosamente intatta...» [...]
Il secondo principio che s'accompagnava con quello di nazione, era quello europeo. [...]
Pensiamo al Mazzini, anzitutto. Egli, che esalta tanto la nazione, la patria, pone tuttavia la nazione in connessione strettissima con l'umanità. La nazione non è fine a se stessa: anzi! È mezzo altissimo, nobilissimo, necessario, ma mezzo, per il compimento del fine supremo: l'Umanità, che è la Patria delle Patrie, la Patria di tutti. Senza Patria, impossibile giungere all'Umanità: le nazioni sono «gl'individui dell'umanità come i cittadini sono gl'individui della nazione... Patria ed Umanità sono dunque egualmente sacre». [..]
Ora, l'umanità è ancora, essenzialmente, per il Mazzini, Europa: ed infatti insistente e continuo è il suo pensare all'Europa, l'Europa giovane che, succedendo alla vecchia Europa morente, l'Europa del Papato, dell'Impero, della Monarchia e dell'Aristocrazia, sta per sorgere.»”.
Questo il brano da commentare nel suo positivo afflato europeista e certo - per essere onesti - il compito non era facilissimo, calandomi nei panni dei giovani impegnati nella Maturità su di un tema in più in cui è conseguente esprimere i propri penchants politici. Questo riguarda non solo i contenuti, ma anche la conoscenza della personalità che ha scritto queste pagine. Sarebbe stato utile per loro leggere il bel libro del mio amico storico Sergio Soave su Chabod, che consiglio per la chiarezza e l’onestà di come traccia il percorso di quello che fu anche il partigiano Lazzaro, come nome di battaglia.
Anni fa scrissi di Chabod: ”Morì a soli 59 anni all'apice di una straordinaria carriera universitaria e il suo insegnamento come storico formò una scuola di professori di grande importanza e a lui si devono libri di enorme caratura.
Il suo passaggio nelle vicende politiche valdostane nel dopoguerra fu importante, anche se se ne andò bruscamente per non più tornare quando dovette lasciare la carica di Presidente della Valle, di quella "circoscrizione autonoma" pre-statutaria nata dai decreti luogotenenziali del 1945.
Al suo posto divenne Presidente il suo antagonista, mio zio Séverin Caveri (poi parlamentare valdostano a Roma nel 1958 con il fratello di Chabod, Renato) le cui posizioni federaliste e autonomiste non erano coincidenti con la visione di Chabod, cui si rimproverava un'eccessiva moderatezza "filoitaliana" ed anche un'iniziale adesione al fascismo che gli servì nella carriera accademica.
Il tempo smussa gli angoli e spegne le polemiche e riporta al centro dei ricordi i "padri fondatori" dell'autonomia, che sarebbe doveroso ricordare di più”.
Cito, in modo esemplificativo, delle preoccupazioni di Federico Chabod rispetto alla spinta delle piazze di quegli anni post bellico una lettera del 16 novembre 1945 da lui indirizzata al responsabile politico del Partito d'Azione di Torino, Mario Andreis: "La situazione generale non è ancora rassicurante: ancora questo oggi, a Liverogne, in occasione della commemorazione di tredici ostaggi fucilati dai tedeschi, potevi vedere in giro molte bandiere rosse e nere (colori della Valle d'Aosta), e non una sola bandiera italiana".
Scrisse tempo fa Annibale Salsa sulla Dichiarazione di Chivasso per comprendere certe differenze: “In quel contesto particolare le tesi regionaliste dello storico valdostano Federico Chabod - fautore della nascita di una Regione autonoma a Statuto speciale (come sarà la Valle d'Aosta e il Trentino-Alto Adige relativamente al primo Statuto) - si confronteranno con quelle federaliste del padre dell'autonomia valdostana Émile Chanoux, fautore di uno Stato italiano su basi federali secondo il modello svizzero dei Cantoni (ossia Repubbliche autonome e non semplici Regioni). Nella Costituzione della Repubblica italiana (1° Gennaio 1948) il modello regionalista, più blando in fatto di autonomia rispetto a quello federale, avrà la sorte migliore”.
Aggiungo solo, per completezza, che lo scontro ideologico e politico nel primo dopoguerra non fu fra Chabod e Chanoux, morto purtroppo nel maggio nel maggio del 1944, ma - capisco di essere Cicero pro domo sua - vide in campo il suo erede politico, Séverin Caveri, antifascista della prima ora e leader per decenni dell’Union Valdôtaine, troppo spesso oscurato, malgrado il suo ruolo essenziale a favore della Valle.
Tutto ciò detto, che sia chiaro che vedere spuntare Chabod in una traccia di Maturità è una scelta che fa piacere ed evoca - comunque la si pensi - un grande valdostano.

Il giornalismo che cambia

Anne-Cécile Robert è Présidente internationale della Presse francophone, una associazione di cui ho fatto parte per molti anni e che apre uno degli spaccati possibili del ruolo del francese, una lingua parlata da 300 milioni di persone nel mondo, che offre una quantità vastissima di media. Cerco personalmente di seguirne parecchi ed è una finestra sul mondo molto interessante. Il francese è la lingua ufficiale di diversi paesi, tra cui Francia, Canada (particolarmente nelle province del Québec e del Nuovo Brunswick), Belgio, Svizzera, Lussemburgo, Haiti e molti paesi dell'Africa occidentale e centrale, come il Senegal, la Costa d'Avorio e la Repubblica Democratica del Congo e mi fermo, ricordando la singolare situazione del bilinguismo valdostano. Inoltre, il francese è una delle lingue di lavoro dell'Unione Europea, delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni internazionali.
La professione giornalistica sta cambiando e la Robert propone le sue riflessioni su alcuni temi. Cominciando dall’Intelligenza Artificiale: “Et si, à rebours de certains pronostics alarmants, le foisonnement des publications sur les réseaux sociaux et les développements de l’intelligence artificielle (IA) redonnaient toute sa place et sa grandeur au journalisme avec un grand « J » ? Beaucoup s’inquiètent de l’avenir du métier quand chacun peut, en deux clics, publier des messages à grande diffusion et se prétendre journaliste. L’IA « générative » menacerait elle aussi les journalistes en proposant toute sorte de contenus plus ou moins aboutis mais aisés à placer dans la catégorie « article » si on n’est pas trop regardant. Ces processus verraient leur aboutissement ultime dans le remplacement de l’humain par la machine, du journaliste par l’algorithme, des médias par les plateformes numériques purement commerciales”.
Qualche inquietudine la coltivo: già oggi, forniti alcuni elementi di base, ci si trova di fronte a sistemi di intelligenza artificiale che possono confezionare articoli standard. Certo il commento, l’approfondimento, il “colore” e l’aspetto umano e culturale sono altra cosa.
Ancora la Presidente sui Social che non sono nella gran parte dei casi equiparabili al giornalismo: “La réalisation de ces menaces, réelles, n’a cependant rien de fatal. Ces menaces reposent en effet sur des confusions qu’il nous appartient de dissiper en rappelant quelques principes fondamentaux. Le premier est que tous les messages « postés » sur les réseau sociaux n’ont pas la même valeur, suivant qu’ils ont été vérifiés ou recoupés bien sûr mais aussi suivant leur contenu : opinion, analyse, sentiment, impression fugace, émotion instantanée, etc.
Le second est que, non, tout le monde ne peut pas s’improviser journaliste : le journalisme est un métier avec des savoir-faire, des techniques, et des règles - déontologiques notamment - qui s’apprennent et se transmettent de professionnels à professionnels, de praticiens confirmés à apprentis”.
Per questo la professione va tutelata dai rischi di svilimento, di precariato al limitare della proletarizzazione.
Ecco le conclusioni: “Les développements technologiques et la transformation des pratiques sociales imposent un réinvestissement global dans la nature même de la profession et une réflexion sur son rôle social : dévoiler les faits, révéler la réalité et contribuer à éclairer le débat public. Ils nous invitent à valoriser la dimension intellectuelle, proprement humaine, du métier. Ils rappellent que le journalisme remplit une mission sociale et civique au cœur de la démocratie. C’est aussi en chérissant ces valeurs et en cultivant ces exigences que les médias conserveront ou retrouveront la confiance des populations.

Il Nord-Ovest senza una strategia

Mentre sotto il Brennero avanza, con aumento dei costi notevole e con lo spostamento ormai al 2028 della fine delle opere di scavo, il lavoro che prevede 64 km di gallerie fra Tirolo del Sud e Tirolo del Nord, il gemello Torino-Lione accumula ritardi ben più elevati, che spostano – forse con ottimismo – l’apertura al 2034. Se intanto i Tir assediano oggi il Brennero con gli austriaci che limitano i mezzi con code epocali sull’AutoBrennero, nel nostro Nord-Ovest vien da piangere per ovvie ragioni e cioè perché manca una reale progettualità che assicuri un avvenire al sistema trasportistico. L’Autostrada dei Fiori è satura al valico di Ventimiglia, il Fréjus raddoppiato si troverà con carichi di traffico incredibili con un’autostrada di montagna già invecchiata e il tutto peggiorerà nei tre mesi da qui al 2018 a causa della chiusura del nostro Traforo del Monte Bianco, che resterà vecchio e per ora monotubo.
Manca, insomma, una iniziativa strategica europea e Italia e Francia si troveranno accomunate da proteste di vario genere. Per la nuova linea ferroviaria ai NO della Val di Susa, popolazioni e purtroppo anche centri sociali e affini, si aggiungono le protese dei verdi e dell’estrema sinistra anche sul lato francese, cui si contrappongono le manifestazioni di chi – sindaci e parlamentari - il nuovo tunnel lo vuole e evidenzia i ritardi nei collegamenti a valle con la rete ferroviaria francese. Per il Monte Bianco il mondo dell’imprenditoria italiana spinge per il raddoppio spesso considerando noi politici dei cretinetti, quando spieghiamo che con i francesi bisogna fare i conti. Ma i francesi – lo dico perché informato – non vogliono sentire parlare di raddoppio né a Parigi, né a Lione e figurarsi a Chamonix. Bruxelles tace e nella nuova versione della Rete Transeuropea dei Trasporti, già presentata dalla Commissione approvata con modifiche dal Parlamento europeo, nulla si dice e il Consiglio che la voterà dovrà tenere conto del diniego francese duro e puro. Si sa che esistono progetti per tunnel di base, che entrino in galleria con modalità stradale o con forme di intermodalità via treno (tipo Autostrada Ferroviaria Alpina con base ad Orbassano), ma nessuno al momento – e spiace – li sta prendendo sul serio, specie se impegnati in un braccio di ferro con i francesi.
Una storia complicata e spiace che ci siano semplificazioni in corso, tipo chi dice – anche a Roma ad elevati livelli – che l’Italia inizierà a scavare in parallelo all’attuale tunnel e poi si vedrà. Ipotesi impossibile, tenendo conto dei rapporti bilaterali necessari con la Francia, e il quadro europeo che oggi vede come fumo negli occhi – giusto o sbagliato che sia – il rafforzamento dei collegamenti stradali, preferendo la ferrovia. I più forti sono gli ambientalisti, che sono contro ferrovia e contro tunnel stradali e ci si chiede come merci e persone dovrebbero transitare attraverso le Alpi, forse a dorso di mulo o con l’avveniristico teletrasporto alla Star Trek…
Insomma: un caos mica da ridere, che certo deve anche tenere conto dei necessari rapporti intergovernativi e comunitari, sapendo tuttavia che le popolazioni interessate non sono delle belle statuine. Le proteste popolari in Val di Susa si sarebbero evitate senza logiche di imposizione e di scarsa spiegazione dei progetti, calati nelle vallate manu militari. E oggi o si programma un futuro condiviso o sarà un problema, ricordando tra l’altro che i sistemi ferroviari per il trasporto merci lato italiano restano scalcinati e lo sono anche le autostrade a suo tempo privatizzate e anch’esse malmesse e invecchiate rispetto agli attuali flussi di traffico. Urge una svolta.
 

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