La guerra delle immagini

Le guerre vanno comprese sia nella loro triste continuità che negli elementi nuovi, che l’inventiva umana è riuscita brutalmente ad aggiungere, sia con l’utilizzo di armi sempre più letali che con le particolarità che ogni scontro evidenzia per ragioni varie, comprese quelle geopolitiche.
Leggevo con evidente interesse le riflessioni sul le Monde di Tal Bruttmann, specialista della Shoah e dell’antisemitismo.
Adopererò alcune parti dell’intervista realizzata da Anne Chemin per la visuale originale che si pone per decriptare alcuni aspetti della tristissima vicenda in corso.
Osserva lo storico, parlando dell’aggressione di Hamas: “La particularité de ce massacre, ce n’est pas qu’il vise des juifs – c’est malheureusement traditionnel –, ni que les victimes ont été mutilées et profanées par leurs bourreaux – cela se fait depuis l’Antiquité –, mais qu’il a eu lieu en terre israélienne, dans un pays qui devait initialement constituer un havre protecteur pour les juifs du monde entier. La création de cet Etat, en 1948, devait leur permettre d’échapper aux violences antisémites, mais cette espérance a volé en éclats le 7 octobre. C’est là que se situe le traumatisme majeur chez les Israéliens et dans la communauté juive mondiale”.
Le guerre, da quando esiste la fotografia e c’è la possibilità di realizzare dei filmati, sono diventate visibili nel raccontare la realtà di certe battaglie e ciò naturalmente può anche servire in una logica artefatta a scopi di propaganda per esibire una ricostruzione di comodo dei fatti. Lo abbiamo visto molto bene con la novità dei telefonini adoperabili ovunque per le riprese, con le immagini riprese dai droni e dai satelliti che ampliano le possibilità di documentazione buona o strumentale.
Ma, nel caso di Israele-Gaza Bruttman segnala: ”Ce qui est nouveau, à mon sens, c’est que l’opération du Hamas a été précisément conçue pour générer des images, comme le montre le nombre de combattants porteurs de caméras embarquées et de caméras-piétons. Parce que les assaillants n’ont pas commis leurs massacres sur un territoire qu’ils contrôlaient, ils ne pouvaient pas terroriser la population en exposant leurs crimes au vu et au su de tous, comme le faisaient les Romains avec les crucifixions ou les Allemands dans les territoires conquis – ils avaient exhibé place Bellecour, à Lyon, les corps de cinq résistants exécutés en juillet 1944.
Le Hamas a donc conçu, en amont, une politique de terreur visuelle destinée à être diffusée dans le monde entier. Il a « réalisé » un événement dans tous les sens du terme : il l’a à la fois commis et mis en scène. Certains comparent ces images à celles du 11 Septembre, qui ont été suivies en direct sur toute la planète, mais ce n’est pas Ben Laden qui a filmé les tours en train de s’effondrer”
Lo stesso autore commenta i montaggi israeliani che mostrano a loro volta le efferatezza commesse dai terroristi islamici: ”Ce double rapport à l’image était déjà présent dans la Shoah. La quasi-totalité des images représentant des fusillades de juifs étaient des photos « trophées » prises par les tueurs afin de les exhiber devant leurs amis : pourtant, depuis 1945, ces mêmes photos servent à dénoncer le nazisme. Sous l’Empire, les colons, en Afrique du Nord ou en Afrique noire, prenaient, pour leur plaisir, des photos d’humiliations de femmes : depuis les indépendances, elles ont, elles aussi, servi à dénoncer les humiliations subies par les populations autochtones.
Ces images du Hamas placent Israël dans une situation à la fois complexe et pernicieuse. L’armée israélienne veut, avec ce film, dénoncer la violence des assaillants, mais elle doit également rester fidèle à la culture israélienne, qui s’oppose, au nom de la dignité, à l’exhibition des corps des victimes – les morts sont sacrés. En diffusant les images du Hamas, même dans un cercle restreint, Israël renie donc une part de sa culture et accepte le jeu d’un mouvement terroriste qui voulait justement exhiber les corps des victimes israéliennes”.
Questo dimostra come negli scenari di guerra appaiano sempre elementi nuovi e esemplari dei cambiamenti della strategia mediatica, ormai legata in questi casi alle scelte militari propriamente dette. Le lezioni provenienti dall’altro campo di battaglia, quello ucraino, confermano quanto scritto con un elemento suppletivo che emerge con forza: la totale falsificazione della realtà che Putin riesce a instillare nei russi, che mostrano la pervicace forza delle dittature nel soggiogare i popoli.

La specialità resta il caposaldo

Inutile dire che trattare, certo in chiave politica come sempre dev’essere, delle norme costituzionali a garanzia della Valle d’Aosta è un dovere per noi valdostani e dobbiamo essere per questo vigili e propositivi. Mai si deve agire sulla difensiva, bisogna essere sempre all’attacco e mi scuso se adopero un gergo guerresco inopportuno di questi tempi, ma è per rendere l’idea.
Lo scrivo con cognizione di causa, essendo stato l’autore di riforme parziali dello Statuto valdostano in tre occasioni: nel 1989 con il trasferimento al Consiglio Valle della competenza in materia elettorale prima in capo allo Stato, poi nel 1993 con la competenza esclusiva sugli enti locali, la Commissione paritetica stabile per le norme di attuazione, il riconoscimento della comunità walser, infine nel 2001 con le vaste modifiche in tema di forma di governo e affini nello Statuto stesso.
Nella riforma di cui parlerò - come punto di orgoglio - ottenni la dizione bilingue della nostra regione Valle d’Aosta-Vallée d’Aoste e altro che sottolineerò più avanti.
Ne parlo per una questione di attualità e i suoi eventuali riflessi sul nostro ordinamento. Mi spiego meglio.
Chissà se l’autonomia differenziata, il cui testo è ormai pronta per l’aula, arriverà alla fine del suo percorso a vantaggio di un aumento di competenze per le Regioni a Statuto ordinario che ne hanno fatto richiesto.
Trattandosi di una previsione costituzionale scritta in Costituzione nel 2001, questa possibilità dovrebbe ovviamente essere qualcosa di concreto e non rimanere inattuata per i giochi talvolta paradossali della politica.
La legge costituzionale numero 3, che contiene questa autonomia aumentata per le Ordinarie, venne votata dal solo centrosinistra, che oggi non la vuole più e la dipinge come un disastro istituzionale (comprese alcune Regioni di questo schieramento che prima l’hanno chiesta e poi criticata…) . Ha dunque questi schieramento cambiato idea in profondità e la stessa cosa ha fatto la Lega che votò contro la riforma del Titolo V con parole durissime e oggi, invece, perora la causa con grande vigore.
Va detto con onestà che questa riforma nel suo complesso, la sola approvata dal popolo attraverso il referendum (mentre le riforme Berlusconi e Renzi furono bocciate), nacque a sinistra - frutto della Bicamerale per le riforme D’Alema - per depotenziare la richiesta leghista di avere il federalismo e non per reale convinzione, come oggi si vede. Nel frattempo, a conferma che tutto cambia, la Lega da federalista è diventata nazionalista/sovranista con un singolare capovolgimento di fronte.
Io quella riforma non la votai, anche se confermava di fatto le speciali (con un verbo assai migliorativo - su cui anch’io lavorai - da “sono attribuite” a “dispongono di forme e condizioni di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con leggi costituzionali”) e non era un passaggio banale e a confermare il distacco dalle Ordinarie era anche la stessa autonomia differenziata al comma successivo. Il mio No era dovuta alla mancanza del principio dell’intesa della nostra Valle per le modifiche dello Statuto speciale senza la quale le modifiche potrebbero essere unilaterali da parte del Parlamento con le procedure di cui all’articolo 138 della Costituzione e con futuri premi di maggioranza legati al premierato ipotizzato dal Governo Meloni ci sarebbero grossi rischi per numeri schiaccianti. Il nostro Statuto, senza intesa giuridica, resta nella condizione fragile di essere octroyé e cioè concesso!
Ora ci si chiede se e come trasferire eventuali competenze assegnate alle Ordinarie alle Speciali. Nel testo attuale ci sarebbe un non ben definito automatismo, mentre va chiarito come fare e la strada maestra a me paiono le norme di attuazione dello Statuto, che consentono nel nostro caso con l’articolo 48 bis di non limitarsi al testo ma di “armonizzare la legislazione nazionale con l'ordinamento della regione Valle d'Aosta, tenendo conto delle particolari condizioni di autonomia attribuita alla regione”. Spazio assai vasto!
Resta invece una seconda questione e cioè il tentativo delle Speciali, già in parte avviato, di rilanciare la specialità in parallelo alla riforma delle Ordinarie che lo chiedono. Con la sola eccezione della Sicilia, che ama farsi i fatti suoi, le altre autonomie speciali hanno lavorato su una bozza di legge costituzionale - ciascuna con le proprie peculiarità - che dovrebbe viaggiare, come dicevo, in parallelo con l’autonomia delle Ordinarie per dare nuovo slancio alla specialità , anche alla luce della necessità di superare certi blocchi derivanti dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale.
Si tratta di un tema vitale anche per la Valle d’Aosta, perché senza norme costituzionali chiare e forti il rischio di declino della specialità incombe sempre.

La politica e TikTok

Per ora resta abbastanza indeterminato capire a fondo come i Social incideranno davvero sulle campagne elettorali e soprattutto quale scegliere fra le diverse tipologie di media digitali.
La risorsa nel suo complesso è indispensabile e non a caso ci si sono buttati tutti, grandi e piccoli, ma quel che si è capito è che l’utilizzo dev’essere attentamente valutato e si può brillare nel loro impiego o tirarsi addosso dei boomerang in caso di errore.
Leggevo su Professione reporter una serie di riflessioni interessanti di Giampiero Gramaglia sulle elezioni per eccellenza - di certo le più spendaccione in assoluto - che sono le Presidenziali americane, che ormai incalzano.
Questo l’incipit: “TikTok e i social protagonisti della campagna per le Presidenziali Usa 2024. Joe Biden sta valutando se sbarcare su TikTok per cercare di raggiungere gli elettori più giovani, i più scettici sulla sua candidatura, dopo avere provato ad arrivarci tramite alcuni influencer. Nikky Haley, ora la rivale più temibile di Donald Trump per la nomination repubblicana, lo vuole mettere al bando.
I democratici sono divisi. Molti repubblicani lo demonizzano per timori sulla sicurezza dei dati, poiché fa capo alla cinese ByteDance, mentre altri privilegiano la libertà di espressione a costo d’incoraggiare la disinformazione. Trump stesso preferisce il suo social, Truth, che però non va bene; e aspetta di sapere se i giudici di appello gli restituiranno libertà sui social, dopo essere stato colpito da un’ordinanza ristrettiva per i suoi sfoghi virulenti anti–magistrati e anti-testi”.
Insomma: uno scenario interessante e, come si nota, siamo di fronte alla necessità ormai evidente di usare il più rapido fra i Social. Ma il “caso Berlusconi”, quando il Cavaliere ne provò l’uso cadendo nel grottesco, dimostra la necessità di essere cauti e lo stesso accadde - con altri Social - con la celebre “Bestia” che creò un effetto di sovraesposizione nociva per il leghista Salvini.
Nel caso della polemica americana su Tim Tok pesa poi la memoria che sui Social mantiene di ciascuno degli utilizzatori di tutto quanto si è fatto in passato. Per questo ai figli si raccomanda di ricordarsi di questa circostanza, che potrebbe giocare brutti scherzi in futuro, ad esempio per un colloquio di lavoro.
L’esempio di Gramaglia è interessante: “A compromettere ulteriormente l’immagine di TikTok negli Usa è stata la vicenda della lettera di Osama Bin Laden “all’America”: il testo del capo di al Qaida, ispiratore dell’attacco all’America dell’11 Settembre 2001, risale al 2002, ma è stato riportato d’attualità dalla guerra tra Israele e Hamas.
Dopo averlo accolto, TikTok lo ha messo al bando, avendo stabilito che i contenuti vanno contro le sue regole: “Lo stiamo proattivamente e aggressivamente rimuovendo e stiamo accertando come sia arrivato sulla nostra piattaforma”, afferma il social, facendo notare che il problema riguarda pure altre piattaforme.
La lunga lettera aperta, pubblicata oltre 20 anni dopo, denuncia “le bugie e l’immoralità” dell’Occidente e giustifica così gli attacchi terroristici ai civili e all’Unione, che tra New York e Washington fecero circa 3.000 vittime. Il documento è stato riproposto facendo perno sulle divisioni emerse negli Stati Uniti sulla guerra tra Israele e Hamas ed è stato spesso letto, dal pubblico inesperto, come un testo nuovo, nonostante Bin Laden sia stato ucciso da un commando di ‘teste di cuoio’ nel 2011”.
Ciò dimostra anche il livello basso di molti frequentatori…
Resta il fatto che attorno ai Social è facile che si diffonda l’onda degli abbandoni e conosco già molti che alla fine hanno abbandonato un Facebook con troppi litigiosi in rete o hanno lasciato Twitter quando è diventato X con certe sortite di Elon Musk che lo ha comprato e lo sta forgiando a modo suo. Ma c’è anche chi vorrebbe mettere al bando proprio Tik Tok. Osserva a questo proposito Gramaglia: “Alcuni deputati hanno rilanciato l’iniziativa di bandire la popolare app cinese, che è già vietata sulle apparecchiature mobili dell’Amministrazione federale e in alcuni Stati. TikTok sta “spingendo la propaganda pro terrorismo per influenzare gli americani”, scrive su X il democratico Josh Gottheimer.
Le perplessità su TikTok sono diffuse anche in Europa e in Italia. “E’ il social più usato dalle mafie, perché lì il rampollo si fa vedere ricco, con l’orologio d’oro e la macchina di lusso. In qualche modo attrae gli ignoranti e i giovani in cerca di soldi”: lo dice il procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, intervistato da Massimo Gramellini a ‘In altre parole’ su La 7.
La Commissione europea va oltre: già diffidente verso TikTok, ai suoi funzionari dice di non usare neppure X, almeno secondo quanto scrive Politico.com che qualifica l’informazione di “scoop” “.
Vedremo l’evoluzione e come la politica, senza restarne vittima, potrà adoperare senza farsi del male certe evidenti potenzialità.

Il puzzle e il girasole

L’altro giorno mi hanno fatto un complimento bellissimo, dicendo che sono bravo a fare i collegamenti. Ne sono rimasto molto lusingato, perché in effetti mi piace farlo, mettendo insieme pezzi diversi di idee e di vicende, come si fa con un puzzle.
Un esempio. Sfogliando Sette, settimanale del Corriere, ho trovato una bella poesia di Eugenio Montale, il mio poeta preferito:
Ho sparso di becchime il davanzale per il concerto di domani all'alba.
Ho spento il lume e ho atteso il sonno.
E sulla passerella già comincia la sfilata dei morti grandi e piccoli che ho conosciuto in vita.
Arduo distinguere tra chi vorrei e non vorrei che fosse tornato tra noi.
Là dove stanno sembrano inalterabili per un di più di sublimata corruzione.

Abbiamo fatto del nostro meglio per peggiorare il mondo.

Il collegamento immediato è stato con un articolo sullo stesso numero della rivista, scritto da Antonio Polito, che leggo sempre e che trovo vivere in una fase riflessiva della sua vita in cui mi riconosco molto, visto che abbiamo grossomodo la stessa età.
Scrive: “Qualcuno ha detto che la nostra generazione, quella dei "baby-boomers", è stata la prima a disobbedire ai genitori e la prima a obbedire ai figli. Deve averlo detto uno di noi. Siamo infatti anche la prima generazione ad eccellere nell'autodenigrazione, in preda a un protagonismo così esasperato da farci credere responsabili di tutto, anche del male. È vero, ce l'avevamo con i nostri genitori, e abbiamo contestato la loro autorità. Ma eravamo anche consci della riconoscenza che dovevamo loro. Perché da bambini li avevamo visti arrancare, lavorare, correre, sacrificarsi.
Avevamo visto se non la povertà quantomeno la sobrietà delle loro vite. E comprendevamo quanto doveva essere stato difficile portarci fin lì, all'università, alla prima automobile, al benessere del miracolo economico, prima ancora che noi facessimo alcunché per meritarcelo”.
Già esiste ad un certo punto della vita un cambio di ruoli: diventi padre e poi invecchiando scopri qualcosa dei tuoi genitori che forse non avevi capito e che apprezzi spesso quando loro non ci sono più e non puoi più dirglielo. Scopri anche che molti aspetti che da ragazzo non sopportavi sono gli stessi che oggi hai, perché la genetica non è un’opinione.
Ma quel che mi interessa è che Polito risponde al rischio di applicarci l’ultimo verso di Montale: “Credo che invece oggi nei confronti dei nostri figli (i quali, non a caso, non si ribellano nemmeno) siamo animati da uno sconfinato
senso di colpa. Come se tutte le difficoltà della nuova generazione, peraltro la più ricca e la più sana di tutta la storia, fossero nostra responsabilità. Di ciò che abbiamo fatto e non fatto, dell'effetto serra e della disoccupazione, delle baby gang e della diffusione delle droghe.
Ora sì, lo ammetto: abbiamo le nostre colpe. Soprattutto quella di aver sperperato la ricchezza nazionale, accumulata dai nostri padri, in mille rivoli di assistenza e di sprechi, convincendo così i figli che anche loro potessero continuare allo stesso modo che i soldi da qualche parte ci sono, basta mandare al governo qualcuno che li distribuisca. Ma non sono d'accordo con la retorica sulla
"generazione perduta", cui noi padri cattivi avremmo ”rubato i sogni", lasciandoli alle prese con "l'eco-ansia"e il "bonus-psicologo".
Sono d’accordo e sottoscrivo contro il vittimismo nostro e certo j’accuse delle nuove generazioni anche il resto: “Penso al contrario che siamo responsabili di aver messo tra loro e il senso del dovere, tra loro e la disponibilità al sacrificio, una distanza siderale, molto maggiore di quella che divideva noi dall'impegno e dai sacrifici dei nostri genitori. Il risultato è davanti agli occhi. I ragazzi di oggi - non tutti, le eccezioni ovviamente sono numerose e ammirevoli - ci chiedono fin da piccoli di abbassare l'asticella dello stress il più possibile. E noi, diligenti, lo facciamo. Come spiegarsi altrimenti la proliferazione dei licei e dei corsi di laurea, se non come il tentativo di adeguare la difficoltà degli studi alla scarsa voglia degli studenti, in modo che tutti possano superare l'ostacolo - o almeno credere di averlo fatto - e conseguire un titolo di nessun valore sul mercato del lavoro perché così deprezzato? Come spiegarsi la contestazione del merito come criterio di valutazione, e dei voti come strumento di misurazione? Come spiegarsi le rivolte dei genitori contro i compiti a casa, o contro il sabato a scuola, in nome del dio week end?
I nostri figli non sono responsabili dell'epoca in cui sono nati, e dunque non sono tenuti all'idea di competizione che ha selezionato noi da giovani. Però sono ragazzi intelligenti. E dovrebbero ormai aver capito da soli che il Bengodi che gli avevano promesso era una balla, e che la vita è un’altra cosa”.
Ci vuole per illuminare la vita “il girasole impazzito di luce” dello stesso Montale:
”Portami il girasole ch'io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l'ansietà del suo volto giallino”.


Populisti estremisti

Nessuno vive in una bolla e la globalizzazione si è affermata sempre di più e non esiste un buen retiro che ci ha ripari dai mali del mondo.
Da quando esiste l’autonomia speciale e persino nel periodo che l’ha preceduta dopo la Liberazione, il problema per gli autonomisti valdostani - che certo nel dopoguerra non si sarebbero potuti chiamare nazionalisti, dopo aver combattuto il fascismo- è stato quello di chi scegliere come alleato.
Sei si scorre l’elenco dei Governo regionali, quando gli autonomisti hanno governato lo hanno fatto con formule varie, secondo quel che proponeva lo scenario volta per volta.
Sino alla teorizzazione del “ni droite, ni guache”, che veniva venduto da chi si trovava a tour de rôle all’opposizione come una sorta di furberia, per poi essere pronti loro stessi a scegliere gli autonomisti se ben accolti.
Ora si aggiunge un elemento su cui riflettere bene: come reagire all’accentuarsi dei populismi, che ormai palesemente sono terreno di caccia degli opposti estremismi destra e sinistra, che si somigliano in molti aspetti per i loro ideologismi e fissazioni chiusi a qualunque dialogo che non sia l’affermazione delle loro idee.
Sul fronte destro segnalo l’acuta analisi degli amici del Grand Continent: “Dopo questa settimana di elezioni, dai Paesi Bassi all’Argentina, la domanda non è illegittima. Da una parte, Javier Milei sembra una specie di Elvis che sta raschiando il fondo del barile. Dall’altra, Geert Wilders potrebbe essere un vampiro kitsch uscito da un film di Ed Wood. Tutti e de fanno pensare a Donald Trump la cui tinta arancione sarebbe un oggetto di scherno, se non fosse diventata ormai una metonimia dello stile brutale dell’uomo forte del partito repubblicano”.
Una sorta di invasione di politici vistosi e grezzi: “Per dirla tutta, i paragoni non finiscono qui. Se l’ingresso di Trump in politica è stato segnato dal susseguirsi di insulti e ingiurie verso tutti coloro che gli si opponevano, i suoi emuli olandese e argentino non sono stati da  meno. Nei Paesi Bassi, Wilders, vero veterano del populismo nazionalista, ci ha dato prova della sua passione per la legge di Godwin: per lui l’Unione europea è uno stato nazista e il Corano un nuovo Mein Kampf… Per quanto deliranti possano sembrare, queste sparate fanno magra figura davanti alle dichiarazioni di Javier Milei negli scorsi tre anni, dopo il suo ingresso in politica”.
Ecco le sue prodezze: “In un articolo approfondito, che analizzava tanto le idee quanto lo stile del presidente argentino quando era solo un candidato, Pablo Stefanoni si è impegnato a fare un’antologia delle sue uscite più folli: «Tra la mafia e lo Stato, preferisco la mafia. La mafia ha dei codici, mantiene le promesse, non mente, è competitiva» ; «Il Papa è il rappresentante del Maligno sulla Terra» ; «La vendita di organi è un mercato come un altro» ; e così via… Mentre si avvicinava al secondo turno delle elezioni, ha ancora indurito i toni, con delle sfuriate contro gli «zurdos» (la sinistra) – modo che usa per designare quasi tutti i suoi oppositori – che bisognava schiacciare.
 In Milei c’è qualcosa del Joker. Un buffone certo, ma un buffone molto pericoloso”.
Sui Paesi Bassi le Grand Continent presenta uno scenario ben definito:
 “Una cosa è certa: se Geert Wilders riuscirà a formare un governo, sarà perché le altre formazioni centriste e di destra avranno scelto di sostenere un partito che promette una politica di «immigrazione zero» e un referendum sull’adesione dei Paesi Bassi all’Unione europea. Se anche Wilders scegliesse di moderare alcune delle sue posizioni più estreme – cosa che sembra aver deciso di fare da qualche giorno – una partecipazione in coalizione o un sostegno esterno da parte dei liberali o di Omtzigt segnerebbe una rottura storica senza precedenti. 
 Contribuirebbe a trasformare ancora l’equilibrio politico dell’Unione, a se mesi dalle elezioni europee. In questo momento, i partiti a destra del PPE partecipano al governo di quattro Paesi europei: Italia ovviamente, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia. Ad eccezione di Orban, veterano del nazionalismo europeo, tutti gli altri sono arrivati al potere negli ultimi due anni. L’arrivo di Wilders al governo confermerebbe questa tendenza, nel momento in cui i paritti neonazionalisti sono in testa ai sondaggi in otto Paesi europei (tra cui la Francia) e in seconda posizione in altri cinque (tra cui la Germania). Marine Le Pen non si sbaglia a festeggiare la vittoria da due giorni. E non si sbaglia nemmeno Matteo Salvini, che ha invitato il 3 dicembre a Firenze i principali leader neonazionalisti: Marine Le Pen, Alice Weidel di AfD e probabilmente anche Geert Wilders”.
Ma ecco il punto politico in senso stretto: “Mentre la sinistre europee sono in difficoltà ovunque – con la notevole eccezione della Spagna in cui Pedro Sanchez è rimasto in sella al prezzo di un accordo politicamente complesso con i nazionalisti catalani – è ancora più doveroso seguire questo slancio dei neonazionalisti, dal momento che trova un’eco mondiale. Questo è l’oggetto di un importante studio firmato da Bernabé Malacalza e Juan Gabriel Tokatlian, che analizzano le conseguenze della «ascesa di un’Internazionale reazionaria de facto, che è multiforme, geograficamente dispersa e ideologicamente eterogenea». Mentre questa ha aperto un fronte argentino – aspettando di vedere cosa accadrà nei Paesi Bassi – gli autori mostrano come questi movimenti politici siano animati da una visione profondamente complottista delle relazioni internazionali, autentico prolungamento della loro retorica xenofoba e populista”.
La frase finale è una sveglia: ”I neonazionalisti non sono ancora forza egemonica. Ma potrebbe durare ancora per poco”.
Per loro - e che i valdostani lo capiscano - la logica resta il centralismo statuale, la tentazione autocratica, il disprezzo per le minoranze e le diversità culturali, oltreché una carica di revanscismo nato dalle proprie ceneri, che è necessario ritenere intollerabile per una popolazione alpina dal necessario spirito europeista

I diversi volti del maschilismo

Le tragiche circostanze della morte di Giulia Cecchettin hanno acceso un dibattito finalmente forte e vedremo quanto episodico sulla violenza contro le donne.
Non mi soffermerò sulle questioni linguistiche. Trovo, però, che il termine “maschilismo” sia più immediato di quella parola “patriarcato” che mi convince poco.
Restano le morti che punteggiano il calendario e che mostrano un fenomeno reale e grave. Chi di fronte a certe vicende - è capitato purtroppo anche nel Consiglio regionale valdostano - si arrampica su certi sofismi fuori luogo sembra vivere chissà dove.
La realtà è che non saranno gli inasprimenti delle pene come sola misura a far entrare nella zucca di certi potenziali aggressori la gravità delle violenze contro le donne. Come prima misura si è dato alla scuola un ruolo capitale e, per carità, ci sta che questo avvenga, ma resto convinto che nell’educazione familiare si giochi la prima partita. Così come una seconda urgenza è rispondere meglio sul terreno delle malattie mentali - un tempo risolto in gran parte con la segregazione dei “matti” in terribili manicomi - ben espresso in termini generali da una lettera firmata “due genitori disperati” sul Corriere, che riporto.
“Scrivo questa lettera perché sto cercando aiuto. Io e mia moglie stiamo vivendo un incubo da tre anni, da quando nostro figlio maggiorenne all’improvviso ha deciso di interrompere gli studi all’ultimo anno, per farsi la sua strada nel campo dell’arte a Milano (noi abitiamo in Veneto). Si è trasferito con il nostro aiuto per trovare un monolocale, sperando, come ci aveva promesso, che avrebbe finito gli studi online e avrebbe trovato un lavoro per mantenersi. Gli studi non li ha completati, non è stato in grado perché stava male e non ce ne siamo purtroppo accorti; ha iniziato a fare anche due lavori al giorno per potersi mantenere, ma con la malattia che stava esplodendo non riusciva a conservarli. Mio figlio è affetto da una patologia psichica dalla quale non si può guarire, si può solo curare se si accetta la malattia e quindi si decide di curarsi per poter avere una vita dignitosa. Ma, grazie alla legge vigente, «diritto dell’individuo di decidere se curarsi», una persona maggiorenne non può essere obbligata a farlo, nemmeno per patologie mentali. Esiste solo il Tso (Trattamento sanitario obbligatorio, mio figlio ne ha fatti già due), ma quando la terapia fa effetto se il paziente decide di firmare i medici sono obbligati a dimetterlo. E poi si ricomincia all’infinito. Noi abbiamo il cuore spezzato, non possiamo più averlo a casa se non si è curato (e poi deve continuare a curarsi), abbiamo per la prima volta paura anche per la nostra incolumità. Tutto ciò mi fa una tristezza unica: i nostri genitori ci hanno consegnato un mondo migliore di quello che stiamo consegnando ai nostri figli. Siamo una generazione che ha fallito con i figli (non tutti per fortuna), io sicuramente perché non sono riuscito a salvare mio figlio quando ero in tempo, e non sono stato in grado di leggere i segnali che mi mandava”.
Altro filone quello del direttore di Repubblica Maurizio Molinari che segnala come sia alta la percentuale dei giovani che uccidono le donne: “Non c’è alcun dubbio sul fatto che i femminicidi nascono dall’assenza di rispetto nei confronti delle donne - e ciò attraversa ogni categoria sociale, anagrafica e geografica - ma è doveroso porre l’interrogativo sul perché tale aberrazione abbia contagiato i più giovani fra noi: coloro che dovrebbero essere più consapevoli dell’importanza dei diritti e dei doveri che garantiscono sicurezza e prosperità nelle nazioni democratiche. E’ una domanda lacerante perché chiama in causa tutti noi: non solo i giovani violenti ma anche i loro genitori, insegnanti, amici, compagni di sport, gite o qualsiasi altra attività. Come è possibile che il delitto più antico e feroce - il femminicidio - sia oggi commesso da un nativo digitale come se si trattasse di un barbaro dell’antichità? Quale è il vettore attraverso cui questa versione ancestrale del disprezzo per la vita ha contagiato i più giovani fra noi nel bel mezzo dell’avveniristico XXI secolo?“.
Molinari propone una tesi: “Credo che la risposta debba venire da quegli studi che indicano come nelle democrazie avanzate la tipologia più comune di aggressione del prossimo fra i giovani è il bullismo digitale. Ad esempio, in Italia nel 2020 ben il 45% dei giovani fra i 13 ed i 23 anni hanno affermato di aver subito atti di cyber bullismo. La possibilità di usare il web, i social network, per aggredire amici e coetanei è una modalità di violenza che dilaga fra i giovanissimi, li fa crescere nella dipendenza da immagini offensive ed aggressive, e consente di esercitare il Male contro chiunque dal segreto del proprio schermo, della propria camera, trasformando la solitudine in un’arma tanto spietata quanto creativa.
Una delle declinazioni più comuni del bullismo digitale sono le aggressioni sessuali, basate su immagini oscene e frasi aberranti, e tanto più questa violenza diventa abituale tanto più si cresce in un habitat suddiviso fra chi commette e chi subisce tali aggressioni. Ma non è tutto perché ad alimentare il bullismo, che crescendo si può trasformare in intolleranza e violenza fisica, è la carenza di conoscenza sempre più diffusa fra chi cerca nello schermo digitale la risposta ad ogni domanda.
Senza più dedicare tempo e concentrazione a leggere libri, guardare film, ascoltare concerti o semplicemente assistere ad eventi sociali, basati sull’interazione e sulla creatività umana. Per il nativo digitale il pericolo più grande è crescere, maturare, nella convinzione che il tempo è composto da frazioni istantanee, destinate ad essere consumate all’unico fine di provare emozioni sempre più intense, drammatiche, fino a sconfinare nella violenza”.
È una ricostruzione su cui riflettere, che implica il tema importante dell’educazione al digitale e alla sua importanza. Su questo bisognerà lavorare sempre più.
P.S.: nel frattempo CasaPound all’Arco di Augusto di Aosta espone uno striscione («Ma quale patriarcato, questo è il vostro uomo rieducato») che mostra la pochezza dei neofascisti e la loro ignoranza squadrista

Sulle montagne l’ombra delle guerre

Si avvicina l’11 dicembre, Giornata internazionale della Montagna, che festeggio - da politico o giornalista a seconda del momento - nel ricordo dell’Anno Internazionale delle Montagne 2002 sin da quando fui Presidente del Comitato italiano.
Negli ultimi due anni, con diverse personalità, ho organizzato serate di avvicinamento.
Tornando indietro nel tempo, ricordo invece una bella pubblicazione sulle Montagne del Mondo, che all’epoca curammo e ritrovo nella introduzione che scrissi dei miei pensieri, che mostrano una certa visione, pensando che risalgono a vent’anni fa.
Scrivevo: “Con l'eccezione della Svizzera e con l'indeterminatezza dell'apertura dell'Unione all'Est europeo, le principali montagne dell'Europa sono già nell'attuale configurazione istituzionale europea e la nostra impressione è che spetti ormai a Bruxelles e Strasburgo fissare alcuni elementi, tra i quali la classificazione e l'eccezione rispetto ai montanti di sostegni pubblici, che consentano di avere una politica europea per la montagna. E spettano anche all'Europa quelle scelte strategiche volte ad impedire che le zone di montagna diventino un luogo di eccessivo transito di mezzi pesanti che trasportano le merci, con una riflessione rispetto a questo ruolo di terra di transito anche per le direttrici ferroviarie”.
Poi ci fu l’allargamento e oggi l’Unione europea ha più montagne di quanto ce ne fossero al tempo!
Scrivevo più avanti, quando - ci tengo a segnalarlo - certe tecnologie muovevano i primi passi: “Penso ad Internet come esemplificazione di nuove opportunita che diano alla montagna più chances per ovviare a quelle solitudini innescate da certi modelli esterni, politici e culturali, spesso imposti alla montagna. E non preoccupiamoci del mito della globalizzazione come distruzione di ogni specificità. Anzi, è assai probabile che il futuro delle Euroregioni consenta alla montagna di assumere quel ruolo di cerniera che le è proprio e di finirla con la triste considerazione di essere il luogo più distante e marginale rispetto agli Stati nazionali così come erano concepiti in passato. Penso, perché è il mio Paese d'appartenenza, allo sforzo che le comunità locali stanno facendo nell'Espace Mont Blanc, la cui altimetria resta una straordinaria ricchezza per l'Europa, così come - e ciò è valido per tutte le montagne - il patrimonio di paesaggi, architetture, monumenti, persone”
A quel tempo erano in corso i tentativi di scrivere dei territori della montagna nei Trattati europei, quanto poi concretizzatosi nell’articolo 174, ma già la speranza era viva: ”Questa politica europea non potrà, ovviamente, essere chiusa in se stessa, ma dovrà essere inserita in una Internazionale della montagna che inquadri con esattezza temi planetari quali la protezione dell'ambiente, la tutela della biodiversità, la cooperazione con i Paesi in via di sviluppo, una politica cioé che dia alle zone di montagna quel quadro di pace indispensabile per qualunque passo avanti. Decisivo è anche il privilegio di poter adoperare oggi, in molte delle zone montane extraeuropee, quel patrimonio di conoscenze - errori compresi - accumulato nell'esperienza delle Alpi”.
Già, la pace. Tema di grandissima attualità e chissà che non risulti utile nel 2025 ricordare gli 85 anni da quando gli altoparlanti ad Aosta nell’allora piazza Carlo Alberto (oggi piazza Chanoux) risuonarono queste parole: ”Combattenti di terra, di mare e dell’aria! Camicie nere della rivoluzione e delle legioni! Uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del regno di Albania! Ascoltate! L’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia». Con questo celebre discorso, pronunciato dal balcone di Palazzo Venezia il 10 giugno 1940, Mussolini rompeva ogni indugio: l’Italia entrava in guerra al fianco dell’alleato nazista e fu, con un fronte sulle nostre montagne, la “pugnalata alle spalle”
Già la guerra si combatte e si è sempre combattuta sulle montagne, frontiere fra Paesi. Vengono in mente le battaglie di alta quota fra in India e Pakistan, alle alture del Golan fra Israele e Siria o alle minoranze vittime degli Stati, pensando ai curdi senza Nazione o ai montagnards del Vietnam. Ci sono state guerre vere e proprie in Afganistan, sui Balcani, in Caucaso, in Africa e l’elenco potrebbe essere purtroppo ancora più circostanziato.
L’altra sera, nella già citata rassegna preparatoria della giornata clou, con il pubblico presente abbiamo ascoltato la giornalista Laura Silvia Battaglia, che ha lavorato su diversi scenari di guerra, segnalando con grande umanità gli orrori del Paese in cui ha vissuto e si sposò, lo Yemen, vittima di sanguinose lotte tribali. Mentre il mio amico Stefano Torrione ha ricordato la sua ricerca e le straordinarie fotografie sul fronte alpino a Nord-Est della Prima guerra mondiale con luoghi e cimeli che mostrano bene il genius loci.
Per non dimenticare orrori passati, che rivediamo nelle immagini terribili della vicina Ucraina e in Israele-Gaza.

Sulle montagne l’ombra delle guerre

Si avvicina l’11 dicembre, Giornata internazionale della Montagna, che festeggio - da politico o giornalista a seconda del momento - nel ricordo dell’Anno Internazionale delle Montagne 2002 sin da quando fui Presidente del Comitato italiano.
Negli ultimi due anni, con diverse personalità, ho organizzato serate di avvicinamento.
Tornando indietro nel tempo, ricordo invece una bella pubblicazione sulle Montagne del Mondo, che all’epoca curammo e ritrovo nella introduzione che scrissi dei miei pensieri, che mostrano una certa visione, pensando che risalgono a vent’anni fa.
Scrivevo: “Con l'eccezione della Svizzera e con l'indeterminatezza dell'apertura dell'Unione all'Est europeo, le principali montagne dell'Europa sono già nell'attuale configurazione istituzionale europea e la nostra impressione è che spetti ormai a Bruxelles e Strasburgo fissare alcuni elementi, tra i quali la classificazione e l'eccezione rispetto ai montanti di sostegni pubblici, che consentano di avere una politica europea per la montagna. E spettano anche all'Europa quelle scelte strategiche volte ad impedire che le zone di montagna diventino un luogo di eccessivo transito di mezzi pesanti che trasportano le merci, con una riflessione rispetto a questo ruolo di terra di transito anche per le direttrici ferroviarie”.
Poi ci fu l’allargamento e oggi l’Unione europea ha più montagne di quanto ce ne fossero al tempo!
Scrivevo più avanti, quando - ci tengo a segnalarlo - certe tecnologie muovevano i primi passi: “Penso ad Internet come esemplificazione di nuove opportunita che diano alla montagna più chances per ovviare a quelle solitudini innescate da certi modelli esterni, politici e culturali, spesso imposti alla montagna. E non preoccupiamoci del mito della globalizzazione come distruzione di ogni specificità. Anzi, è assai probabile che il futuro delle Euroregioni consenta alla montagna di assumere quel ruolo di cerniera che le è proprio e di finirla con la triste considerazione di essere il luogo più distante e marginale rispetto agli Stati nazionali così come erano concepiti in passato. Penso, perché è il mio Paese d'appartenenza, allo sforzo che le comunità locali stanno facendo nell'Espace Mont Blanc, la cui altimetria resta una straordinaria ricchezza per l'Europa, così come - e ciò è valido per tutte le montagne - il patrimonio di paesaggi, architetture, monumenti, persone”
A quel tempo erano in corso i tentativi di scrivere dei territori della montagna nei Trattati europei, quanto poi concretizzatosi nell’articolo 174, ma già la speranza era viva: ”Questa politica europea non potrà, ovviamente, essere chiusa in se stessa, ma dovrà essere inserita in una Internazionale della montagna che inquadri con esattezza temi planetari quali la protezione dell'ambiente, la tutela della biodiversità, la cooperazione con i Paesi in via di sviluppo, una politica cioé che dia alle zone di montagna quel quadro di pace indispensabile per qualunque passo avanti. Decisivo è anche il privilegio di poter adoperare oggi, in molte delle zone montane extraeuropee, quel patrimonio di conoscenze - errori compresi - accumulato nell'esperienza delle Alpi”.
Già, la pace. Tema di grandissima attualità e chissà che non risulti utile nel 2025 ricordare gli 85 anni da quando gli altoparlanti ad Aosta nell’allora piazza Carlo Alberto (oggi piazza Chanoux) risuonarono queste parole: ”Combattenti di terra, di mare e dell’aria! Camicie nere della rivoluzione e delle legioni! Uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del regno di Albania! Ascoltate! L’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia». Con questo celebre discorso, pronunciato dal balcone di Palazzo Venezia il 10 giugno 1940, Mussolini rompeva ogni indugio: l’Italia entrava in guerra al fianco dell’alleato nazista e fu, con un fronte sulle nostre montagne, la “pugnalata alle spalle”
Già la guerra si combatte e si è sempre combattuta sulle montagne, frontiere fra Paesi. Vengono in mente le battaglie di alta quota fra in India e Pakistan, alle alture del Golan fra Israele e Siria o alle minoranze vittime degli Stati, pensando ai curdi senza Nazione o ai montagnards del Vietnam. Ci sono state guerre vere e proprie in Afganistan, sui Balcani, in Caucaso, in Africa e l’elenco potrebbe essere purtroppo ancora più circostanziato.
L’altra sera, nella già citata rassegna preparatoria della giornata clou, con il pubblico presente abbiamo ascoltato la giornalista Laura Silvia Battaglia, che ha lavorato su diversi scenari di guerra, segnalando con grande umanità gli orrori del Paese in cui ha vissuto e si sposò, lo Yemen, vittima di sanguinose lotte tribali. Mentre il mio amico Stefano Torrione ha ricordato la sua ricerca e le straordinarie fotografie sul fronte alpino a Nord-Est della Prima guerra mondiale con luoghi e cimeli che mostrano bene il genius loci.
Per non dimenticare orrori passati, che rivediamo nelle immagini terribili della vicina Ucraina e in Israele-Gaza.

Il discorso immaginario di Sinner

Ho giochicchiato a tennis da ragazzo ed erano sfide stremanti con cugini e amici. Ero anche un discreto tifoso e andai a Praga nel 1980 per una sfortunata finale di Coppa Davis per la squadra azzurra. Poi ho ripreso qualche tempo fa, ma ho smesso perché mi dava qualche fastidio alla schiena. Da bambino, quando lo sport era in grande auge, ricordo le estati ai tennis a San Lazzaro di Imperia. Era il classico circolo, dove si passava il tempo in una logica da ozio vacanziero. Il tennis aveva in sostanza una logica sociale, un pelino snob. Ho poi seguito questo sport con l’ultimo dei miei figli con pomeriggi passati in tornei di bimbetti con divertente visione più dei genitori che dei piccoli. La categoria più nociva è quella di chi spingeva i figli come se si trattasse della finale di Wimbledon. Quel che mi piaceva del tennis d’antan era una qual certa eleganza e il bon ton fra avversari, almeno in teoria. Tutto peggiora…
Di sicuro nelle prossime settimane le scuole di tennis vedranno una crescita enorme di nuovi praticanti alla luce dei successi e del crescendo del giovane sudtirolese Jannik Sinner.
Un campione che darà grandi soddisfazioni allo sport italiano, ma con un neo. Non mi riferisco naturalmente al suo italiano zoppicante, perché Sinner appartiene alla minoranza linguistica del SüdTirol e dunque non ci si deve affatto stupire e chi lo fa è irrispettoso e tenere conto della sua madre lingua.
Il punto invece - e non è la prima volta che se ne occupa - è quello ripreso da Aldo Cazzullo sulla posta del Corriere, quando immagina un discorso di Sinner dopo una vittoria non avvenuto a Torino contro Novak Djokovic.
Così avrebbe immaginato l’intervento al microfono: “Vi ringrazio per il vostro sostegno. L’ho avvertito con chiarezza, sia qui dentro il palazzetto, sia nel Paese. Mi sono sentito parte di una comunità nazionale, di qualcosa che va oltre me stesso. Dovete capirmi: vengo da una terra di frontiera, dove l’italianità non è sempre e dappertutto molto sentita. Tre anni fa avevo portato la residenza fiscale a Montecarlo. Non ho fatto nulla di illegale: la legge lo consente. Non sono certo il primo. Avrete letto qualche giorno fa sul Corriere l’intervista di Daniele Dallera a Max Biaggi, che rivendicava con orgoglio la mia stessa decisione, presa molti anni prima e mai rinnegata. Io di anni ne ho ventidue. Sono un atleta leale, come avete visto: potevo farmi battere da Rune per non incontrare più Djokovic, e non l’ho fatto. Ma sono appunto un atleta; non mi occupo di fisco. Sono concentrato sul tennis, com’è giusto che sia. La scelta di Montecarlo è stata presa da altri: sono solo un ingranaggio di una macchina complessa, di cui approfittano non soltanto gli sportivi, ma anche persone molto più ricche di noi, che pure non ce la passiamo male. Da domani però riporterò la residenza fiscale nel mio Paese, che tanto mi ama, e invito il mio amico Matteo Berrettini e tutti gli altri a fare altrettanto. So che dovrò versare allo Stato la metà di quello che incasso. Sarà un grosso sacrificio, anche se certo inferiore a chi guadagna 50 mila euro lordi all’anno, e dallo Stato italiano è considerato un ricco da tassare al 43%, più le addizionali. Però sarò felice al pensiero che le tasse da me versate possano servire a guarire bambini malati come quelli dell’ospedale Regina Margherita che ci hanno accompagnato in campo in questi giorni, o istruirne altri, o garantire la loro sicurezza grazie alle forze dell’ordine. Sento un brusio nel pubblico, forse pensate che stia facendo retorica? Andate in qualsiasi ospedale italiano, e capirete che la necessità di letti e macchinari, di medici e infermieri, non è retorica, è carne e sangue, è vita e morte. Io, ripeto, ho solo ventidue anni, di medici non ho bisogno, e comunque posso pagarmeli. Ma tanti altri no. E quando fai parte di una comunità, devi occuparti anche dei più piccoli, dei più fragili, dei più deboli; non solo con la beneficenza, che è un’altra cosa. Qualcuno mi ha detto: guarda che con le tue tasse pagheranno magari i vitalizi a qualche vecchio arnese della politica. Pazienza. Preferivo i bambini. Ma lo Stato non è altro da noi. Lo Stato siamo noi”.
Stupisce che Sinner non capisca l’antifona anche come sudtirolese che pare dalle dichiarazioni essere molto affezionato e fiero della sua Heimat, come la chiamano a Bozen e significa “la patria, intesa come tutto ciò che costituisce lo spirito, le radici, l'identità di un popolo”. Lo dico perché la quasi totalità delle tasse pagate nella sua terra natale tornano nelle casse della Provincia autonoma a beneficio della comunità che lo ha cresciuto e lo ama e invece questi soldi finiscono nelle casse del Principato di Monaco…

Elogio, quando si può, della spensieratezza

Leggo su Obs le riflessioni singolari di Mara Goyet su di un tema che mi interessa e che vorrei in parte commentare, perché riguarda la vita di ciascuno di noi e più esattamente di come dovremmo porci rispetto alla vita.
Scrive: “Quand le monde va si mal, on finit par ne plus savoir que faire de soi. Comment vivre le moment présent, le vivre justement ? Faut-il se désespérer toute la journée, continuer à être aussi joyeux que possible, passer d’une humeur à l’autre ? Doit-on bannir l’insouciance de nos existences ?”.
Che sarebbe questa insouciance (insouciance sarebbe letteralmente « absence de souci, d'inquiétude)
un misto traducibile fra spensieratezza e noncuranza, che possiamo immaginare come il perimetro in cui muoversi con i propri sentimenti.
E ancora nell’articolo: “Existe-t-elle, d’ailleurs, cette insouciance? Nous passons notre temps à regretter sa perte (l’avons-nous seulement déjà éprouvée ?) tout en la fustigeant dès qu’elle pointe le bout de son nez : peut-on décemment s’amuser l’esprit tranquille quand des enfants sont massacrés par des terroristes ou meurent sous les bombes?”.
Mi riconosco più nella spensieratezza che devono occupare gli spazi giusti che la noncuranza. Mi capita, anche in momenti difficili o in circostanze avverse, non perdere il gusto di avere, anche se magari in un momento fugace, lo stato d'animo di chi si ricava uno spazietto privo di pensieri tristi o di preoccupazioni:
Prosegue la Goyet e credo sia un riferimento utile: ”Dans un article écrit en 1916, intitulé « Les insouciants » (« le Monde de demain », indispensable et magistral recueil de textes de Zweig qui paraît aux BellesLettres), l’écrivain autrichien décrit un petit monde riche et bien portant, « butinant la vie » dans la splendeur enneigée de Saint-Moritz. Là où l’on ne « pense pas à la guerre ». La station semble « comme une huître perlière aux bords polis », tout est « éclat, soleil, lumière, pureté et sérénité ». Seule perturbation, les skieurs qui arrivent, multicolores, sonores, rapides, « rutilants comme des taches de sang sur la neige ». Il y a de la musique, des fourrures, des danses, du thé, des grelots, du luxe. La joie est si bruyante, si insolente qu’elle renvoie « à son envers, ce à quoi elle s’oppose comme un défi » : ceux qui souffrent et meurent sur le champ de bataille ; ces femmes et enfants qui errent dans les faubourgs des grandes villes.
Ce spectacle afflige l’âme de Zweig. Mais aussi, à son corps défendant, réjouit son oeil. Et suscite chez lui une certaine envie. Tout devient alors ambivalent et ce court texte, littérairement splendide, révèle encore une fois la géniale subtilité du romancier : il n’est pas question de s’en tenir à une simple et prévisible dénonciation. L’insouciance de ces gens n’est pas seulement un travers banalement humain. Elle nous ramène à ce qu’il y a de plus vital chez nous : «Et soudain on se rend compte à nouveau combien la force peut être belle quand elle n’est pas synonyme de violence, de brutalité ou de meurtre, quand elle jouit simplement d’elle-même avec la conscience d’un jeu, d’un moment d’harmonie»”.
Lo trovo un pensiero illuminante: il buio e la luce, il male e il bene, la gioia e la sofferenza. Sensazioni contrastanti che albergano nell’animo umano e ci differenziano dal resto grazie all’intelligenza umana.
L’autrice decripta questa doppiezza e il lato consolatorio, che agisce come una molla che ci spinge a elementi di speranza: “L’écrivain se retrouve ainsi partagé entre le souhait d’être «insouciant parmi les insouciants» tout en détestant leur indifférence. Son coeur balance : «L’être humain au fond de nous-mêmes nous rappelle à l’ordre comme un frère : cache-toi ! Porte le deuil!» ; mais une autre part de nous, plus égoïste, celle de la vie, nous souffle : «Pense à toi, ton deuil ne changera rien». L’une de ces voix dit que c’est dans l’affliction que l’on vivra «pleinement son époque», l’autre rétorque que c’est le plaisir qui vaincra la guerre.
L’insouciance comme le ressentiment et son «deuil inutile» sont donc des impasses. Ce qui n’empêche pas Zweig de souhaiter, en référence au festin de Balthazar dans la Bible, que s’inscrivent en lettres de feu sur un mur de ce paradis alpin, ces mots de Dante : «Non vi si pensa, quanto sangue costa» («Et personne ne songe combien de sang il en coûte»). Il faut que ce soit dit et écrit.
Ces pages magnifiques ne délivrent aucun remède, ne proposent aucune solution. A part lire ou relire Zweig. Pour se sentir moins seul. Et épaulé par cet homme éblouissant”.
La forza delle Lettere e della Cultura, entrambe elemento potente nella costruzione della nostra personalità e che la cui fonte ispiratrice offre elementi importanti per accompagnare i nostri pensieri.

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