luciano's blog

Paesi che diventeranno fantasmi

La crisi demografica in atto in quasi tutto l’Occidente non colpisce più di tanto, come se il problema fosse rinviabile, benché incomba già e in modo pressoché irreversibile. Personalmente ho messo i piedi nel piatto, quando ho insistito sulla necessità - ad uso futuro delle scuole con meno giovani e dell’invecchiamento della popolazione - di uno studio su cosa capiterà nei prossimi decenni in Valle d’Aosta a cura del demografo Alessandro Rosina. Ne emerge uno scenario inquietante e, evitando di ripetere molti dati ormai purtroppo noti con le culle sempre più vuote e i cimiteri sempre più affollati, valga questa frase dello studio che suona come inquietante: “Senza una urgente inversione di tendenza della natalità e un rafforzamento anche nel breve e medio periodo della popolazione in età attiva, il rischio è quello di scivolare in una spirale negativa che porta ad un continuo aumento degli squilibri strutturali e indebolisce le possibilità di sviluppo economico e sostenibilità sociale”.
Ora su ”La Lettura” del Corriere della Sera compare un articolo di un importante statistico. Si tratta - prendo dal Web una sua biografia - di Roberto Volpi: ”Volpi ha diretto uffici pubblici di statistica, progettato il Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza, diretto il Gruppo tecnico di programmazione che ha redatto il Piano strategico della città di Pisa. Tra i suoi libri ricordiamo Storia della popolazione italiana dall’Unità a oggi (La Nuova Italia, 1989), C’erano una volta i bambini (La Nuova Italia, 1998), La fine della famiglia (Mondadori, 2007), Il sesso spuntato (Lindau, 2012) e Gli ultimi Italiani (Solferino, 2022)”.
Questa la sintesi proposta nella pagina del giornale: ”Nel nostro Paese 278 comuni hanno meno di 10 abitanti per chilometro quadrato . Sono situati in montagna, ai confini esterni o lungo la catena degli Appennini. La superficie totale equivale quasi a quella del Lazio, i residenti sono poco più di 
100 mila. La loro sparizione, che appare inevitabile, presenta problemi notevoli, perché si tratta di un presidio importante del territorio, soprattutto dal punto di vista ambientale. La retorica del ritorno ai piccoli centri purtroppo non ha fondamento”.
Messa così e pensando a certe riflessioni in corso anche da noi cresce una legittima preoccupazione.
L’autore, con ausilio di apposte tabelle, che campeggiano in pagina, si occupa dello spopolamento delle “terre estreme”: ”Non ci sono «ma» che tengano, le tendenze demografiche italiane questo dicono: ch’è in atto un sistematico spopolamento delle terre estreme, che sono. ”i comuni con meno di 10 abitanti a chilometro quadrato (kmq) in un Paese, il nostro, con 195 abitanti a kmq. Comuni, ed ecco l’altro aspetto, così estremi che sembrano messi lì dove stanno apposta per presidiare confini e frontiere. Ma eccone una prima, essenziale sintesi statistica. Secondo gli ultimi dati del 31 dicembre 2022 i comuni italiani con meno di 10 abitanti a kmq, i più spopolati d’Italia, sono 278, misurano complessivamente 16.783 kmq (più della Campania e poco meno del Lazio), per un totale di 102.749 abitanti. Hanno una superficie media di 60,4 kmq e una popolazione media di 370 abitanti. Sono dunque al tempo stesso comuni molto estesi territorialmente, avendo una superfice media del 60 per cento superiore alla superficie media dei comuni italiani, e molto piccoli demograficamente: ci vogliono venti di questi comuni per eguagliare la popolazione media dei comuni italiani (circa 7.400 abitanti)”.
Dove sono? Così l’autore: ”Sono comuni di montagna, spesso di alta montagna. E non è così significativa la loro altezza media calcolata in base alla sede del municipio, che si aggira attorno ai 900 metri sul livello del mare. I municipi si trovano infatti nei pur minuscoli centri abitati e in posizioni più comode e agibili, cosicché complessivamente i residenti sono situati non di poco a una ben maggiore altezza. Nell’insieme di questi comuni la densità abitativa è di appena 6,1 abitanti a kmq. Per dare un’idea: se l’Italia avesse quella stessa densità, la sua popolazione sarebbe non di 59 ma di 1,8 milioni di abitanti: Lilliput, in pratica”.
Preciso che da tabella la media altimetrica dei Comuni valdostani interessati, che sono 15 ma non si esplorano i nomi ma penso che non sia difficile per noi - dati alla mano - identificarli, è di 1428 metri.
Poi Volpi spiega perché bisogna occuparsene: ”Primo motivo: questi 278 comuni hanno una caratteristica che li rende geograficamente, ambientalmente ed ecologicamente, e molti di loro in qualche modo pure politicamente, importanti: presidiano in certo senso il territorio italiano — addirittura la sua parte più delicata, quella più esposta allo sconquasso dei fenomeni naturali. Lo presidiano innanzi tutto ai suoi confini continentali, e dunque lungo l’intero arco alpino, dalla Liguria al Friuli-Venezia Giulia, che provvede a separarci da Francia, Svizzera, Austria e Slovenia; e poi, ma a questo riguardo il discorso si fa del tutto eco-ambientale, lungo la dorsale appenninica dall’Emilia alla Calabria, e fino ai rilievi montuosi interni della Sardegna.
Secondo motivo: perdono abitanti a una velocità che ne lascia intravvedere la sparizione. Un finale già scritto. Inevitabile. A parte qualche comune di questi 278 che si salverà, la maggioranza, tra il 60 e il 70 per cento, tra mezzo secolo non esisterà letteralmente più”.
Eccoci più avanti agli interrogativi: “Cosa comporterà questo spopolamento radicale? Riusciremo comunque a preservare certi equilibri ambientali e geografici? Non si rifletterà la loro desertificazione in una più accentuata fragilità del territorio italiano, che diventerà così ancora più esposto a eventi estremi?
Si consideri, peraltro, che se pure il clima si stabilizzasse e normalizzasse, il discorso che riguarda quei comuni e quelle aree non sarebbe poi tanto diverso: giacché quanti quei luoghi abitano, e che per il fatto stesso di abitarvi li difendono e proteggono, si andrebbero comunque estinguendo.
Quei 278 comuni diventano così la spia di uno spopolamento del Paese che procede in modo tutt’altro che omogeneo sul territorio nazionale, che non fa anzi che aggravare squilibri, diversità, contraddizioni che percorrono la popolazione italiana, determinando autentiche linee di faglia capaci di allontanare intere aree e regioni le une dalle altre, e di metterle in contrasto se non perfino in contrapposizione le une con le altre”.
E ancora più avanti lo statistico chiarisce quando spariranno le comunità con questo trend, quando cita i “dati che riguardano la stima della sopravvivenza in anni: ch’è di 96 anni per il totale dei comuni delle Alpi, e di 69 anni, quasi un terzo in meno, per i comuni degli Appennini e altri rilievi. E infine ribadita dal fatto che la sopravvivenza ha le sue vette decisamente più alte nei comuni del Trentino-Alto Adige (ben 228 anni) e della Val d’Aosta (168 anni) e quelle più basse nelle regioni del Sud, a cominciare dalla Calabria (appena 40 anni). Guardando poi a questi ultimi dati si capisce bene, ed è questa la seconda considerazione, come, per quanto spopolati al massimo grado, alcuni comuni di questa fascia che si trovano segnatamente in Piemonte, Val d’Aosta e Trentino-Alto Adige riescano a non farsi risucchiare nella spirale demografica dell’estinzione coltivando una qualche vocazione turistica — pur se le grandi mete del turismo tanto estivo che invernale si concentrano in comuni di altre e superiori densità abitative, non così spopolati come quelli di questa fascia”.
Il finale è a tinte scure: ”Ho anticipato che non c’è salvezza per questa fascia di comuni. Alcuni, pochi, si salveranno, è vero, ma la grande maggioranza soccomberà, e anche in tempi assai ravvicinati. E non c’è soltanto la perdita di abitanti, che abbiamo visto essere assai rapida, a contare. C’è anche un altro fattore sul quale poco ci siamo soffermati, ma che conta moltissimo: le minime dimensioni demografiche. 43 di questi 278 comuni non arrivano a 100 abitanti; 119, poco meno della metà, non arrivano a 200 abitanti. Appena 17 di questi comuni superano, di poco, i mille abitanti, forse la dimensione minima per poter sperare in una qualche vitalità demografica, che evidentemente non può esserci quando la popolazione non arriva neppure a 100 o 200 abitanti. Qui, in comuni a tal punto poveri di abitanti, praticamente non ci sono nascite, la popolazione femminile in età feconda è ridottissima, l’età media molto alta, così come l’indice di vecchiaia, i rari, rarissimi giovani scendono nelle pianure, vanno ad abitare le città. Impossibile sperare in una ripresa, in una salvezza, in queste condizioni. La retorica dei piccoli comuni che vivrebbero una nuova fioritura per l’abbandono della grande città da parte di tanti che cercano lidi più tranquilli e riposanti, specialmente ora che con l’accoppiata pc-internet si può lavorare anche da remoto, non è che retorica, appunto. La realtà è che il movimento che dall’alto scende in basso è assai più appetibile e consistente di quello contrario che dal basso sale in alto. Una realtà con la quale fare i conti, non foss’altro per vedere di prendere qualche — peggio che difficile — contromisura”.
Personalmente non sono così pessimista, ma certo le contromisure sono necessarie e condivido che non saranno affatto facili.

Il messaggio di San Francesco

Confesso di avere un’immagine iconografica di San Francesco. Si tratta di quel mix di letture dal catechismo in poi, arricchito poi da qualche film come ”Fratello sole, sorella luna”di Zeffirelli.
Capisco la fregatura delle immagini stereotipate che valgono alla fine per qualunque personaggio storico e sui Santi - avendo di recente letto un libro che svela con un tono forse eccessivamente scandalistico come abbia funzionato nel tempo il meccanismo di santificazione - esiste accanto alla vita reale un ovvio apparato di racconti (oggi si direbbe storytelling) che si stratificano nel tempo. Esemplare anche il caso di scuola delle reliquie.
Nel caso di San Francesco questa creazione è stata raccontata con grande rispetto, ma con il solito acume, dallo storico Alessandro Barbero in una conferenza ad Aosta, organizzata apposta in vista della discesa delle scorse ore dei valdostani ad Assisi.
Visita spiegata bene dal Vescovo di Aosta Franco Lovignana: ”Abbiamo accolto con gioia il grande onore di offrire per la terza volta, dopo il 1975 e il 2002, l’olio per la lampada che arde sulla tomba di San Francesco, patrono d’Italia. La misura di quanto l’evento tocchi la Valle d’Aosta è data dagli oltre duecento pellegrini, ai quali si sono aggiunti le autorità regionali e comunali”.
Ma dicevo di Barbero, la cui prolusione è visibile integralmente sul sito della Regione e uso il dispaccio dell’Ansa di Aosta per sintetizzarla: ”Oggi l'immagine è l'unica cosa che conta e però può essere manipolata come si vuole. E si può vedere da come alla morte di Berlusconi è stato scelto, dalla politica e dai media, di dare una certa immagine di questo personaggio. Questa cosa succedeva anche nel medioevo e succedeva anche a san Francesco: dopo la sua morte c'è stato uno scontro politico per decidere chi bisognava ricordare, chi era, come si voleva che fosse ricordato". Lo dice Alessandro Barbero, a margine della lezione su san Francesco ad Aosta. 
”Questo, sia ben chiaro, non significa che paragono Berlusconi a san Francesco, ma il modo in cui si costruisce l'immagine e si decide come deve essere ricordato un personaggio". Lo storico aggiunge: "Tutte le immagini in mezzo a cui ci muoviamo sono costruite, ma l'importanza di un personaggio storico come san Francesco si vede anche dal fatto che ogni epoca lo può utilizzare e riproporre per dare una risposta alle proprie preoccupazioni. Benché fosse un uomo del medioevo immerso fino al collo nella sua epoca oggi noi oggi possiamo usare la sua immagine per parlare di noi. È successo quando il nuovo papa ha deciso di chiamarsi Francesco e allora credo che il mondo abbia percepito il discorso della povertà, dello stare con gli ultimi". 
L’attualità del Santo sta, secondo Barbero, anche nel rapporto con la natura: "La natura è stata creata dallo stesso Dio che ha creato l'uomo e oggi ha una sua attualità" anche se le preoccupazioni del suo tempo erano altre "mentre le nostre sono di non distruggere la natura di cui facciamo parte".
Al giornale Avvenire sostiene il già citato Vescovo di Aosta: ”San Francesco – commenta Lovignana - ci fa capire che la pace ha a che fare con il rispetto per tutto ciò che Dio ha creato, a partire dalle persone umane, che siamo chiamati a custodire e proteggere. Oggi forse ci inviterebbe a pensare al bambino che deve nascere, all’anziano e al malato che hanno bisogno di cura e di accompagnamento, al lavoratore che chiede dignità e sicurezza, al migrante che ha bisogno di accoglienza, alle famiglie che chiedono riconoscimento sociale e sostegno”. Per il Vescovo “non c’è custodia del Creato, non c’è conversione ecologica se non vi si include anche l’essere umano e il rispetto della sua dignità e delle sue coordinate creaturali, la sua natura, iscritta nel suo corpo e nel suo spirito”.
A me le messe cui ho partecipato hanno colpito molto per la solennità, pur nella semplicità francescana e non appaia una contraddizione.
Valga per capirci il Cantico delle Creature nella versione linguistica originale:
”Altissimu, onnipotente, bon Signore, tue so’ le laude, la gloria e ’honore et onne benedictione.
Ad te solo, Altissimo, se konfàno et nullu homo ène dignu te mentovare.
Laudato sie mi’ Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate sole, lo qual è iorno, et allumini noi per lui. Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore, de te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle, in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale a le tue creature dài sustentamento.
Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu, per lo quale ennallumini la nocte, et ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.
Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore, et sostengo infirmitate et tribulatione.
Beati quelli che ’l sosterrano in pace, ca da te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare: guai a quelli che morrano ne le peccata mortali;
Beati quelli che trovarà ne le tue santissime voluntati, ka la morte secunda no ’l farrà male.
Laudate et benedicete mi’ Signore’ et ringratiate et serviateli cum grande humilitate”.
Testo che racchiude messaggi che si applicano in tutte le epoche, compresa la nostra.

La crocerossina Roccavilla

Sono stato qualche giorno fa al castello di Sarre per la festa delle crocerossine valdostane, che fanno parte del Corpo delle Infermiere Volontarie, Ausiliario delle Forze Armate. Una manifestazione semplice di ricordo della storia locale in un luogo evocativo, visto che la prima ispettrice nazionale nel 1911 fu Elena, Regina del Montenegro, moglie di Vittorio Emanuele III, frequentatrice abituale di quella nostra dimora sabauda. E fu anch’essa ispettrice un’altra Regina che amava quel castello, Marie José del Belgio, che è stata l'ultima regina consorte d'Italia nel 1946, come moglie di Umberto II, prima della proclamazione della Repubblica.
In realtà ero interessato ad esserci per una storia familiare, che così riassumo. Mia nonna Clémentine Roux era la moglie di mio nonno René. Una sua cugina cui era legatissima, Jeanny Roux, aveva sposato un biellese, conosciuto perché faceva l’insegnante al Liceo Classico di Aosta, Alessandro Roccavilla. Personalità eclettica per la sua attività culturale - in ambito etnografico e con l'uso della nascente fotografia - che faceva la spola fra la cittadina piemontese (anche se in realtà era nato a Moretta di Cuneo da una famiglia di farmacisti) e la Valle. Nel 1911 il giornale "Le Val d'Aoste" diceva di lui con trasporto: "Valdôtain d'adoption, mais plus valdôtain che beaucoup de valdôtains".
C'è uno studio su di lui, rinvenibile in Internet, a firma di Dionigi Albera e Chiara Ottaviano, che racconta della vita e delle opere di Alessandro Roccavilla. Si ricorda così che fu sindaco di Sarre (dove di certo stava tutta l'estate in villeggiatura) fra il 1905 e il 1911, che fu politicamente un liberale moderato, ma che il compito amministrativo nel paese era più una conseguenza del suo ruolo di notabile che di altro. La cosa curiosa è che, nel lavoro che Roccavilla svolse - non senza polemiche - per la famosa mostra di etnografia italiana del 1911 a Roma, riprodusse nell'esposizione nella Capitale una casa colonica valdostana, che non era altro che la copia della sua casa di Sarre! Comprensiva di quella pianta del sindaco (chiamata "una lunga antenna ornata di bandierine"), che in Valle d'Aosta indica ancora oggi in molti Comuni - e per probabile eredità napoleonica - la casa del primo cittadino di un paese.
Tutto poi alla fine si riassume nella lapide al cimitero di Sarre: "Prof. Dott. Commendatore Alessandro Roccavilla. Preside del liceo di Biella, alla famiglia, alla scuola e al pubblico bene dedicò il cuore generoso, l'ingegno eletto, la vita operosa. Si addormentò nel Signore il 16 novembre 1929". Aveva 64 anni e sarà sua figlia Rosina, classe 1893, nota per la sua generosità verso i malati e per le sue attività filantropiche anche come crocerossina, a lasciare in eredità alla chiesa locale la "Villa Roccavilla", costruita dopo la vendita della precedente proprietà, con la precisazione che fosse a vantaggio della gioventù del paese.
Ebbene a Sarre è stata apposta sulla citata villa, finalmente destinata a quanto previsto dal testamento, una targa con suo ricordo e il suo ricordo è stato celebrato dalle crocerossine nella cerimonia al castello per la sua straordinaria e instancabile attività umanitaria.
Il mio pensiero, mentre assistevo alla manifestazione, è andato alla guerra e al fatto che nulla sembra essere cambiato da quelle prime guerre, la campagna di Libia e la successiva Prima Guerra Mondiale, quando scesero nei campi di battaglia le prime crocerossine.
Mentre scrivo, sono molte le guerre in corso. Viene subito in mente nell’attualità l’Ucraina attaccata dalla Russia, così come l’aggressione dell’Azerbaigian contro la minoranza armena o alla Serbia che schiera l’esercito contro il Kossovo e rischia di far ripartire una guerra nei Balcani, l’unica che abbia visto con i miei occhi. Ma altre guerre- pensiamo all’Africa - che insanguinano il mondo. Triste pensarci.

Quando c’era “La guerre des tunnels”

L’aspetto peggiore in certe discussioni sul futuro del traforo del Monta Bianco è non prendere atto delle difficoltà incombenti. Intendiamoci: la posizione di chi spinge per il raddoppio del tunnel è legittima, ma che si sappia che la procedura per farlo è complessa e mai si potrebbe prescindere dalla parte francese, imponendo unilateralmente una volontà italiana.
Parlavo poche settimane fa dell’oggettiva rottura fra la posizione italiana e quella francese con Hervé Gaymard, Président del Departement della Savoie e lo avevo già fatto con il suo collega della Savoie, Martial Saddier. Per chi non li conoscesse basta una ricerchina per capire che sono due politici di lungo corso e che il loro no al raddoppio non è un capriccio, ma la posizione di comunità intere nel solco dell’acclarata determinazione contraria delle massime autorità d’Oltralpe. Compresi i vertici della Région Auvergne-Rhône-Alpes come il Presidente Laurent Wauquiez e
più in alto ancora a Parigi il Presidente Manuel Macron e il Primo Ministro Élisabeth Borne (già da Ministro dei Trasporti espresse il suo No). Di Chamonix e della Vallée dell’Arve si sa bene la ruvida intransigenza.
Certo esistono per fortuna e per necessità la politica e il confronto fra i due Paesi alto livello, che bisogna affrontare con calma e determinazione, tenendo conto delle popolazioni locali che non sono belle statuine. Ma il tutto resterà un dialogo fra sordi se la discussione non sarà un confronto alla ricerca di una mediazione, che ritengo possibile, evitando che la questione somigli a un derby calcistico durante il quale agitare le bandiere nazionali. Il problema futuro del tunnel ha ormai un carattere europeo come chiave di volta, che obbliga al dialogo persino prioritario con Bruxelles, che definisce le necessità nei documenti recenti sulla Rete Transeuropea dei Trasporti, che non fanno cenno al Bianco.
Gaymard, nel parlarmi della questione tunnel in senso più vasto, perché nel suo Département si sta costruendo la Torino-Lione ferroviaria, mi ha consigliato la lettura di un libro del 1965, anno di apertura del traforo del Monte Bianco. È intitolato - ed è tutto un programma - ”La guerre des tunnels-Histoire du tunnel routier sous le Mont-Blanc”, 135 pagine di una storia avvincente e illuminante, che si deve ad un chamoniard, Philippe Desailloud(1914-1983). Riporto una sua breve biografia: ”Descendant d'une vieille famille chamoniarde, orphelin de guerre, élève de l'École normale supérieure de Saint-Cloud, il fut professeur de lettres au collège d'Annemasse.Sous-lieutenant de chasseurs, mobilisé en 1939, il participe l'année suivante à l'expédition de Namsos puis à la bataille de France où une grave blessure met ses jours en danger. Au terme d'une longue convalescence, il rejoint la résistance et, après la libération, le front des Alpes. Lorsque s'achève la guerre, il porte les galons de capitaine et la légion d'honneur.
Reprenant sa carrière dans les fonctions d'inspecteur de la jeunesse et des sports de la Savoie, il entre pour la première fois au conseil général en 1945. « Il en devient l'enfant terrible, vigoureux dans l'attaque, incisif dans la répartie, indépendant jusqu'à l'isolement, franc jusqu'à la brutalité et opiniâtre dans la réussite ». Sans autre étiquette politique que ses partis pris, son action est restée dans toutes les mémoires. C'est sur les terrains dont il était propriétaire au sud de Chamonix-Mont-Blanc qu'a été construit le village-piéton de Chamonix-Sud. Il a également été très impliqué dans la création du téléphérique de l'Aiguille du Midi3. En 1948, il fut en effet « la véritable cheville ouvrière de la réalisation actuelle, s'intéressant au projet qui semblait alors enlisé dans une impasse». Outre le téléphérique de l'Aiguille du Midi, le tunnel du Mont-Blanc, la rocade, sont autant de projets qu'il va défendre avec l'ardeur qui le caractérise. Dès les années 1960, en accord avec le maire Maurice Herzog, il défend une certaine conception du plan d'aménagement de la ville, basé sur deux pôles : les équipements publics au nord avec la cité Taillibert et résidentiel au sud ; il se battra jusqu'à sa disparition pour la création du village-piéton de Chamonix-Sud”.
Poi, come dicevo, il libro: è un racconto, che cita anche esponenti valdostani e lo straordinario biellese Dino Lora-Totino cui si deve moltissimo. Si raccontano i passaggi storici che non consentirono dapprima di non avere nell’Ottocento un tunnel ferroviario sotto il
Monte Bianco, ma portarono poi nel Novecento al tunnel stradale. Il libro in maniera approfondita cita personaggi straordinari, lotte fratricide fra favorevoli e contrari al tunnel sui due versanti e con i fautori del traforo del Gran San Bernardo in lizza contro il Bianco.
Spunta anche un giudizio su mio zio, Séverin Caveri, così espresso: ”Le gouvernement régional est dirigé par CAVERI, leader de l’« Union Valdôtaine ». Ce parti autonomiste n'a pas un idéal politique bien defini, mais il sait très bien compter, et à la manière d'Emile OLLIVIER, sous Napoléon III, « il prend le bien de quelque main qu'il lui vienne ». Il veut garder pour lui toutes les ressources du Val d'Aoste, ne pas payer d'impôt à l'Etat Italien, mais en recevoir le maximum de subventions. Ils espèrent que les touristes français qui viendront par le Mont-Blanc se retouveront dans les hôtels valdôtains, en bonne compagnie avec les Suisses et les Allemands arrivés par le Saint-Bernard, pour le plus grand bien des finances locales. « Ils boiront ensemble à la « grolle » et nous leur prendrons leur argent... Il faut profiter au maximum ed la rivalité des groupes Piémontais. C'est une chance pour nous qu'ils ne soient pas d'accord entre eux» “.
Questa è Politica e il risultato arrivò con entrambi i trafori costruiti e l’occasione consentì anche di ricordare ai francesi della Valle d’Aosta e del suo ruolo di cerniera e di minoranza francofona da salvaguardare.
Ma proprio i sali e scendi, i colpi di scena, le difficoltà giuridiche ed economiche, i cambi di governo con amici e nemici e mille altre questioni dimostrano la complessità di cui certi semplificatori odierni sembrano non accorgersi. Esserne consci serve a far bene le cose e a scegliere oculatamente il da farsi su questo asse fondamentale per l’Europa attraverso le Alpi. Si potrebbe dire: gambe in spalla!

Sempre meno volontari

Leggevo del rilevamento ISTAT permanente delle istituzioni no profit, da cui risulta la perdita quasi di un milione di volontari attivi nelle organizzazioni, passati dai 5,5 della rilevazione precedente, quella del 2015, ai 4,6 del 2021, anno di riferimento della nuova indagine. Esiste nel terzo settore una difficoltà a coinvolgere nuovi volontari e ad avere un ricambio generazionale.
Vado a vedere quanto scrivevo sul tema proprio nel 2015 e questo dimostra che questa situazione la si sentiva arrivare: “Nel momento in cui il settore pubblico arretra e lascia spazi vuoti - così scrivevo allora - si indica nel ruolo del volontariato una delle strade maestre, considerando l'impegno civico personale come una medicina ad adiuvandum lo Stato Sociale, quando abbandona alcuni campi. (…) Tra l'altro andrebbe chiarito, come avviene in tutti i Paesi civili, che il volontariato non è né di Destra né di Sinistra, penetrando in larga parte del tessuto sociale come un impegno personale, certo spesso in forma collettiva, che ha nel suo "dna" anzitutto il desiderio - ripeto disinteressato - di "fare del bene" o, giusto addendo, "essere attenti alla difesa del bene comune" “.
Noto per inciso come nel frattempo lo stesso termine “bene comune” sia stato fiaccato dal suo evidente abuso. Il rischio che un’espressione diventi prezzemolo c’è sempre.
Resta il fatto che certe difficoltà nel reperimento di volontari sono aumentate e questo pesa anche in Valle d’Aosta, dove esiste un reticolo forte del Terzo Settore e cioè enti di carattere privato e associazioni che operano senza scopo di lucro. Questo non significa non avere profitti, ma più semplicemente reinvestirli per finanziare le proprie attività, senza redistribuirli tra i membri delle proprie organizzazioni o ai propri dipendenti, che ovviamente sono pagati per il lavoro svolto. Segnalo sempre in questi casi la scelta francese di avere una meglio definita categoria di volontariato chiamata bénévolat", cioè impegno non retribuito in nessun modo, ma mi pare che la modellistica italiana sia ormai diversa, come da legge quadro in vigore e perimetrare ulteriormente risulterebbe difficile.
Della crisi scriveva ieri sul Corriere Beppe Severgnini, con un incipit chiarificatore e un esempio che lo concerne: “Compiere un gesto generoso è facile, essere generosi è difficile. Potrei suggerirlo come motto all’Abio, Associazione per il Bambino in Ospedale. Fondata nel 1978, assiste i piccoli ricoverati e le famiglie. Ieri ha festeggiato la giornata nazionale in molte piazze d’Italia. Un aiuto prezioso, un servizio formidabile. Ma la preoccupazione si sente. Di Abio, da anni, sono testimone (oggi affiancato dalla nipotina Agata, diciotto mesi, fuoriclasse del video). Ieri sono stato a Magenta. La locale associazione stenta: si sono informati in 60, all’incontro preliminare erano in 25, sono rimasti in tre. Perché tante rinunce? Perché il servizio ai bambini in ospedale — mi ricordava ieri il presidente Abio, Giuseppe Genduso — richiede preparazione: sanitaria, psicologica, pedagogica, legale. Le norme sulla protezione dei dati (Gdpr) sono complesse (fin troppo). La contabilità dev’essere rigorosa. Il servizio preciso, continuo, regolare. Tutto ciò richiede impegno e fatica”.
Più avanti la proposta, che è anche una stoccata, forse ingiusta: “Che fare? Be’, le regole potrebbero essere allentate: il carico amministrativo nel terzo settore sta diventando insostenibile. E i volontari — tutti, non solo quelli dell’Abio — devono convincersi che contano la precisione, l’affidabilità, la costanza. I clown in reparto sono ammirevoli. Ma arrivano e ripartono. La differenza la fa chi resta”.
Verissimo e aggiungerei solo che in Italia, a beneficio del volontariato vero e ben strutturato, andrebbero fatte azioni serie per distinguere il grano dalla pula, pensando a chi si è insinuato senza ragione nel volontariato.
Resta il fatto che, continuando di questo passo con il calo degli aderenti e l’invecchiamento dei volontari, rischia di andare in crisi uno dei pilastri non solo del nostro Welfare, ma dello sviluppo economico in genere, perché in molti casi si creerebbero vuoti non sostituibili.

Bene parlare delle Autonomie

Prevedo per domani una giornata intensa. Sarà, infatti, il momento clou, cui ho l’onore di partecipare, della seconda edizione de "L'Italia delle Regioni”, il festival nazionale della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome. Un’idea interessante per mettere una volta l’anno sotto la lente di ingrandimento il bistrattato regionalismo in Italia.
Quest'anno la manifestazione si dipanerà in piazza Castello, che nel fine settimana si trasformerà - ovviamente con la presenza valdostana - in un “Villaggio delle Regioni” all’insegna delle eccellenze territoriali, sapendo che questi luoghi sono pure simboli della storia d’Italia e anche della nostra lunga storia comune con Casa Savoia. Palazzo Reale, Archivio di Stato e Teatro Carignano ospiteranno due giornate di incontri istituzionali di grande caratura, mentre il Parlamento Subalpino - dove sedette il fratello del mio bisnonno, Antonio Caveri, poi Senatore del Regno - riaprirà le porte dopo oltre un secolo ed è un’emiciclo bellissimo che addolora per la sua fine sotto i colpi della Storia.
Io parlerò in un tavolo piuttosto vario come personalità su di un tema vasto (PER L'INTERNAZIONALIZZAZIONE DEI TERRITORI: promozione del made in Italy, internazionalizzazione ruolo delle Regioni in Europa) e dunque, nei 10 minuti a mia disposizione dovrò scegliere bene cosa dire e lo farò al momento, sentita l’aria che tira.
Ovvio che il regionalismo in Europa, sia guardando alle diverse Costituzioni dei Paesi membri sia ai Trattati dell’Unione sul tema, resti un elemento necessario da esplorare, anche nelle prospettive dell’autonomismo valdostano e della sua capacità di trasformazione, resa sempre più necessaria dall’evoluzione nel tempo. Se questo non avvenisse, visto che tutto invecchia, rischieremmo grosso, prima o poi. Per questo bisogna restare vigili e sforzarsi di non perdere di vista scenari altrui per vedere come le cose si evolvano.
Da seguire in questi tempi quanto sta avvenendo in Corsica con la scelta di apertura del Presidente Macron.
Leggevo un interessante e assieme istruttivo editoriale di Le Monde: “Venu célébrer, jeudi 28 septembre, le 80e anniversaire de la libération de la Corse, Emmanuel Macron a utilisé un mot qu’aucun de ses prédécesseurs ne s’était résolu à employer. Devant les élus de l’Assemblée de Corse, à majorité nationaliste, le président de la République s’est dit favorable à une « autonomie » de l’île « dans la République », tout en prévenant que « ce moment historique » ne se fera pas « sans » ou « contre » l’Etat français”.
Segue la spiegazione: ”Même si un long et aléatoire chemin reste à parcourir avant que l’île soit reconnue dans la Constitution en tant qu’entité particulière, le fait que le président de la République se résolve à poser l’« autonomie » comme meilleure option possible représente une étape importante dans les relations tourmentées entre le continent et la Corse”.
Perché Macron lo ha fatto? Risponde il giornale francese: ”Son évolution s’est opérée sous une double contrainte : celle d’une nouvelle poussée des nationalistes lors des élections régionales de 2021 et celle d’une énième vague de violence déclenchée sur l’île en mars 2022 par la mort en prison d’Yvan Colonna, qui purgeait sa peine pour le meurtre du préfet Erignac et a été tué par un codétenu. Le gouvernement a alors dû relancer, dans les pires conditions, un cycle de négociations qui n’aurait pas pu démarrer sans la promesse d’« autonomie » formulée par le ministre de l’intérieur, Gérald Darmanin”.
Ma l’aspetto interessante sta nella sfida lanciata da Macron, che in fondo è una pista in qualche maniera altrettanto interessante e similare nel tentativo in corso - cui ho dato qualche mio contributo di pensiero - da parte delle Speciali, Valle d’Aosta compresa, per un impulso congiunto agli Statuti speciali, in parte depotenziati in questi anni.
Macron chiede, infatti, che entro sei mesi l’Assemblea Corsa si metta d’accordo in modo unitario come conditio sine qua non per proseguire. Osserva le Monde quanto non sia semplice: “Au vu des fortes divergences entre nationalistes et autonomistes et sachant les réticences de la droite à toute démarche d’autonomie, le succès n’est pas garanti. Du moins chacun est-il placé devant ses responsabilités à un moment où l’île se porte économiquement mieux mais a de sérieux problèmes à résoudre en lien avec son insularité : montée du grand banditisme et du trafic de drogue ; crise du logement affectant particulièrement les jeunes ; vieillissement de la population rendant problématique l’accès aux soins dans un habitat dispersé…
En flattant l’esprit de résistance des Corses mais en soulignant les attentes concrètes de la population et le besoin d’espérance des jeunes, Emmanuel Macron a mis les élus sous pression et tenté d’enrôler derrière lui les forces vives. Il s’est aussi dévoilé aux yeux de la représentation nationale, qui devra dire sous quelle forme, jacobine ou girondine, la République a le plus de chance de prospérer dans les années à venir. Rarement les conditions d’une évolution n’ont paru aussi favorables. Les élus corses auraient tort de bouder le moment”.
Torna, come una maledizione, il rischio, presente nelle forze autonomiste e indipendentiste corse, delle divisioni e degli scontri interni. L’ideale per il “divide et impera” degli Stati e delle forze politiche di destra e di sinistra con visioni giacobine.

Una pesca avvelenata

Ormai si vive una vita sul Web. Inutile contarci storie. Quando facciamo la morale ai nostri figli, perché tossici di telefonino e tablet, sappiamo bene che siamo ipocriti, facendo grossomodo le stesse cose. Con l’eccezione, almeno nel mio caso ma so che altri lo fanno, di non essere vittima dei videogiochi e con l’alibi, parzialmente vero, che uso le diavolerie digitali prevalentemente per lavoro. Aggiungerei, purtroppo, perché limita ormai spazi di libertà e non permette di godere del legittimo, come dicono i francesi con un italianismo, “farniente”.
Ci pensavo rispetto a questa polemica in un bicchiere d’acqua – trasformatasi sui Social e a rimorchio sui quotidiani (che seguono i Social…) – sulla pubblicità, perché alla fine di questo si tratta, fatta da Esselunga.
Un raccontino filmato di una bimba, figlia di separati, che compra una pesca in supermercato e la dona al papà come se fosse un regalo della mamma, immaginandosi che questo flebile legame possa in qualche modo favorire una loro riconciliazione. Chi ha immaginato la storiella ha fatto pubblicità senza eguali al gruppo creato dal leggendario Bernardo Caprotti (che fu autore del memorabile e da me letto “Falce e carrello, Le mani sulla spesa degli italiani”, pamphlet contro la COOP). Penso che i creativi immaginassero certa una risonanza, tuttavia sottostimata rispetto all’ampiezza ricevuta. Alla Sinistra il messaggio non è piaciuto per la logica conservatrice e anche piagnona, mentre alla Destra è parso un buon messaggio in favore della famiglia tradizionale. Circostanze militanti che fanno ridere entrambe. A Sinistra perché si è drammatizzata una storiella e immaginato il solito complotto dei poteri forti. Mi pare che ci siano questioni più di fondo. A Destra perché i leader che inneggiano alla Famiglia con la f maiuscola hanno storie familiari le più scompaginate possibile. Predicano bene, razzolano male.
A me alla fine lo spot non è dispiaciuto, anche se forse inadatto per una catena di supermercati, che potrebbe cercare messaggi diversi, ma chi pianifica le campagne sa che creare scandalo serve sempre per affermare un marchio e così, a conti fatti, è avvenuto. Perché non mi è dispiaciuto? Per un motivo umanissimo e pure triste: sono un papà separato e poi divorziato, quando i miei figli erano ancora relativamente piccoli e so bene due cose. La prima è che la scelta di lasciarsi per una coppia con figli implica sofferenze per i bambini, anche se ho sempre pensato che la sofferenza è maggiore nel vivere con genitori che non vanno più d’accordo. La seconda è che, almeno nei primi tempi, è del tutto naturale che persista una speranza per i figli e che i loro papà e mamma possano in qualche modo riconciliarsi. Raramente avviene e lo sforzo, a quel punto dev’essere, quello di accettare i fatti e avere la massima armonia possibile per il loro bene.
Gli assetti familiari cambiano e bisogna accettare che ciò avvenga senza falsi moralismi e accettando la diversità delle configurazioni familiari, a patto di restare su di un terreno di buonsenso ed evitando eccessi.
Certi toni offensivi e difensivi sulla pubblicità sono stati una esagerazione per una semplice ragione: i Social sono ormai un covo di violenza e di rancori. C’è chi, sinistra e a destra o in qualunque altra latitudine politica, non riesce a trattenere i propri eccessi. Al posto di usare il fioretto o l’ironia, sempre benvenuti, si usa la clava e l’insulto, considerando il potenziale avversario rispetto alle proprie posizioni come un nemico da annichilire senza pietà e rispetto. Amo la polemica, non mi tiro indietro, spesso mi è capitato di eccedere, ma c’è chi ormai va più in là e trasforma ogni occasione utile in un momento in cui sputare veleno e sentenze.
Vien voglia di chiudersi in un eremo, senza segnale telefonico e senza Wifi, per liberarsi da certe tossine.

La francofonia: una finestra sul mondo

”La francophonie, c'est un vaste pays, sans frontières. C'est celui de la langue française. C'est le pays de l'intérieur. C'est le pays invisible, spirituel, mental, moral qui est en chacun de vous”.
Gilles Vigneault

Sarò pure considerata da qualcuno affermazione retorica, ma sono realmente convinto della forza ben presente della francofonia per la Valle d’Aosta. Premetto che conosco la solita solfa: a che cosa serve ai valdostani coltivare questa lingua, visto che l’inglese ormai è diventata nel mondo la lingua franca, che prima era stata proprio il francese?
Il plurilinguismo è un bene e con questo credo di aver sgombrato il campo.
Il francese è per i valdostani una lingua storica, ben prima che arrivasse l’italiano. Questo significa non uno stucchevole richiamo al passato del tempo che fu, ma sono le radici culturali profonde che sostanziano la comunità odierna.
Altro pregiudizio, ormai per fortuna sepolto, essendo la tesi degli arpitani: la vera lingua dei valdostani è il patois francoprovenzale ed il francese è stata una lingua imposta dall’alto. Oggi è ben chiaro, con la progressiva italianizzazione del patois, come il bilinguismo francese-francoprovenzale (lingue originali neolatine, con parole pur d’altra provenienza) consenta di sostenersi reciprocamente in un reciproco arricchimento.
Non è che il francese in Valle d’Aosta casa dal cielo: lo si deve a millenarie ragioni geopolitiche, dovute al posizionamento della Valle, che resta ancora oggi valido, anche nella logica di abbattimento delle frontiere in chiave europea, con larga parte dei suoi confini con Paesi francofoni come la Francia e la Svizzera Romanda.
Per il resto qualche citazione da una recente pubblicazione che spiega in questo modo la situazione nel mondo: ”L’Observatoire de la langue française a publié ses nouveaux chiffres qui soulignent une progression continue de la langue française dans le monde depuis 2018. Avec 321 millions de locuteurs, le français est toujours la 5e langue la plus parlée après l’anglais, le chinois, l’hindi et l’espagnol”.
Lo stesso rapporto osserva:”"On naît de moins en moins francophone, mais on le devient de plus en plus !". Si la majorité des francophones dans le monde ont un usage quotidien de la langue et si la progression du nombre de francophones en Afrique est une constante, la pratique de la langue française n’est pas pour autant "naturelle" : les nouveaux locuteurs pour lesquels le français n’était pas, le plus souvent, la langue première, "se l’approprient sur la base d’autres compétences linguistiques"”.
Quindi per chi non ha il francese come “langue maternelle”, il francese lo si apprende per ragioni di lavoro e per il fascino della cultura che sottende.
Piccoli come siamo dobbiamo, come valdostani, farci forti di una ragionevole politica estera consentitaci dal francese sia nella prossimità già citata, ma anche - e questa è mia esperienza passata e attuale - in quella rete assai varia di Regioni francofone è una ricchezza di rapporti politici, economici e culturali da considerare preziosa per noi e ci rende più grandi. Perché dovremmo rinunciare a questa opportunità in una logica che non potrebbe far altro che impoverirci, oltre a rinnegare uno dei fondamenti del nostro regime di Autonomia speciale?
Certo che lo sforzo per far capire questa ricchezza deve riguardare soprattutto i giovani per dar loro la consapevolezza che il francese non è uno sforzo in più come vuoto a perdere, ma un elemento identitario che apre a diverse opportunità.
 

Il patto fra il Piano e il Monte

Una coppia di vecchi amici, Mariano Allocco e Annibale Salsa, hanno scritto un documento sulla montagna nelle settimane scorse e ho aspettato qualche tempo per ospitarli nel mio Blog. Non sto a lodarli per la vecchia militanza in favore della politica della montagna perché non ne hanno bisogno. Viviamo assieme, in scambi periodici, una qualche delusione sul dibattito su di un tema cruciale per i montanari, che non sempre vede riflessioni e proposte di qualità e rischia di affondare nella retorica convegnistica e in più parole che fatti. Ma mai perdiamo la speranza di un sussulto e vediamo ogni tanto la luce in fondo al tunnel.
Questo l’inizio del contributo: ”Il dibattito sulla “questione montana” sta sempre più prendendo piede e coinvolge più voci in spirale positiva. Si tratta di un confronto che sta indirizzando energie, idee e proposte verso un obiettivo che, a nostro avviso, non è più procrastinabile: arrivare a un nuovo Patto tra Monte e Piano. Vi è un importante precedente nella storia delle popolazioni alpine rappresentato dal “Patto del Grũtli” (1 agosto 1291) con il quale i montanari dei Cantoni centrali (forestali) delle Alpi svizzere si federano tra loro avviando successivamente un processo di negoziazione con gli abitanti delle città del Piano. In tempi più recenti un documento molto importante sarà la “Carta di Chivasso” (19 dicembre 1943) che rilancia, in chiave federalista, un modello di governance per le regioni alpine”.
L’idea del patto, che va sviluppata anche in termini giuridici e non solo ideali, viene poi approfondita nella parte più propriamente legata al passato in termini esemplari: “Parliamo di un Patto nuovo perché la storia ci dà testimonianza di un Patto antico in base al quale le Alpi, prima luogo di passaggio, divennero luogo abitato stabilmente allorquando si riconobbero “libertà e buone vianze” a coloro che si facevano montanari e su questo Patto genti di buona parte d’Europa si fecero allora montanare.
Partiamo da una storia lontana per proporre un contributo al dibattito, sicuramente non semplice, al fine di arrivare a un quesito dirimente a cui proprio le “parti” debbono dare una risposta condivisa.
Concessioni di franchigie, immunità, libertà si ritrovano trasversalmente alle Alpi su entrambi i versanti, sia quello italiano sia quello esterno transalpino fino al XVIII secolo allorquando i confini trasformati in frontiere salirono sullo spartiacque e le Alpi, che fino ad allora erano state cerniera e raccordo, divennero barriera divisoria.
Nei secoli XII-XIII-XIV alcuni signori territoriali (laici ed ecclesiastici), particolarmente interessati nel mettere a frutto le terre incolte di montagna, avevano deciso di sottoscrivere contratti di insediamento con famiglie coloniche disposte a lasciare il Piano per vivere sulle alte terre in “libertà e buone vianze”, privilegi che in pianura non erano concessi. Fu allora che l’Ecumene, i territori in cui l’uomo vive stabilmente, raggiunse le quote più alte.
Sulle Alpi i nuovi abitanti si fecero montanari e convissero senza problemi con genti diverse che altrove si trovavano in conflitto. L’immanenza della geografia dei luoghi e del clima prevalsero su tutto e anche in ciò, dalla storia del vissuto alpino, si potrebbero trarre insegnamenti utilissimi anche per i nostri tempi.
La prima grave crisi dell’economia alpina arrivò con l’industrializzazione della metà dell’800 quando il vapore prima e l’elettricità poi fecero scendere a valle fabbri, falegnami e tutto il settore secondario.
Contemporaneamente si ebbe un incremento demografico, iniziò l’emigrazione permanente ma il colpo finale arrivò nel secondo dopoguerra allorché migliaia di imprenditori agricoli chiusero le loro aziende per scendere al Piano dove serviva forza lavoro nell’industria.
Il bilancio economico di questo esodo rimane tutto da fare.
Fu allora che cominciò la discesa dal limite superiore dell’Ecumene. Discesa che continua inesorabile e che lascia dietro di sé un bosco che avanza inesorabile ovunque, una marea verde che tutto ingloba, una colata che tutto travolge e cancella l’orma dell’uomo”.
Dalla ricostruzione storica al presente: “Non scriviamo di queste vicende passate per una semplice rivisitazione storica ma perché siamo convinti che, per parlare di “questione alpina”, bisogna ripensare - adattandole al presente e al futuro - certe buone pratiche avviate con lungimiranza in tempi lontani.
Se per Ecumene intendiamo i territori in cui l’uomo può vivere tutto l’anno, le alte Valli possono ancora essere strategiche per la vita dell’uomo senza farle ritornare territori dominati dalla “wilderness”, luoghi in cui la natura selvaggia (soprattutto quella dei grandi carnivori che rischiano di allontanare definitivamente gli alpigiani dalle malghe) è padrona assoluta.
Questo, in sintesi, è il tema che proponiamo di affrontare per discutere della “questione alpina” tenendo conto che le scelte fatte negli ultimi quarant’anni sono state improntate all’abbandono del Monte.
A livello istituzionale si è introdotto il metodo maggioritario smantellando l’approccio comunitario che è stata la colonna portante del governo delle comunità alpine.
La sostituzione, in molte Regioni, delle Comunità Montane con le Unioni Montane - veri mostriciattoli organizzativi che invece avrebbero potuto e dovuto evolvere verso istituzioni a elezione diretta e di autogoverno dei territori e l’istituzione di un sindaco dal ruolo quasi monocratico - hanno prodotto uno scollamento profondo tra comunità e istituzioni.
La politica dagli anni ’90 ha poi guardato verso il Monte con sguardo ecumenico senza significativi distinguo da parte dei partiti che hanno governato, scelta che non ha portato grandi risultati se siamo giunti alla situazione attuale.
Per farla breve: la strategia da adottare verso il Monte deve avere la centralità sull’ambiente naturale o sull’uomo che quell’ambiente vive? Questa è la domanda fondamentale a cui rispondere nel siglare un nuovo Patto tra il Piano e il Monte.
La prima porta le alte Valli a diventare una grande area inselvatichita, che è la deriva attuale, luogo in cui la natura selvaggia la fa da padrona. La seconda ha l’obiettivo di renderle abitabili e vivibili, luoghi in cui una famiglia possa lavorare e restare con i propri figli.
A nostro avviso una scelta si impone al più presto, una decisione di Parte che non ammette
“ecumenismo”, un atteggiamento che le Parti politiche hanno da almeno quattro decenni adottato nei confronti del Monte.
Le Parti devono esprimere scelte coerenti con le diverse impostazioni programmatiche generali come avviene per tutto quanto riguarda il governo dello Stato. Che il Governo dello Stato, delle Regioni, degli altri Enti di gestione competa alla destra o alla sinistra le politiche montane non cambiano.
In modo sommesso rileviamo che l’ecumenismo è l’atteggiamento adottato in Occidente nei confronti delle Colonie da sottomettere e sfruttare, ma il Monte colonia non è e non vuole diventare.
La questione montana si deve nuovamente mettere all’ordine del giorno della Politica nazionale. Ecco perché torniamo a proporre un Patto tra Piano e Monte. Un patto che necessita di creatività, passione e concretezza, forse difficile da definire ma l’importante è cominciare a parlarne, a mettere le carte in tavola senza barare. Questo è l’obiettivo di un Patto tra Pari che si deve scrivere e sottoscrivere.
Non servono pannicelli caldi e rattoppi, serve una scelta di campo. Si deve tornare a confermare agli uomini della montagna le franchigie, le immunità, le libertà e le “buone vianze”: quelle decisioni che fecero delle Alpi una delle regioni più popolate e scolarizzate d’ Europa. Una proposta che lanciamo dalle Valli e per le Valli alpines.”.
Pensieri profondi su cui riflettere.

Gli armeni senza pace

La notizia da agenzia di stampa è asciutta: “Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è arrivato a Nakhchivan, nell'enclave azera in territorio armeno di Nakhchivan per colloqui con il presidente dell'Azerbaigian Ilham Aliyev. L'incontro arriva dopo il riaccendersi delle tensioni in Nagorno-Karabakh tra Bake ed Erevan. "La vittoria delle forze di Baku contro l'esercito dei separatisti armeni in Nagorno Karabakh ha aperto nuove possibilità per una normalizzazione nella regione", ha detto Erdogan”.
Torna così nell’immaginario la spregiudicatezza del leader turco, che mostra quanto sia indegno pensare alla sua Turchia nell’Unione europea ed evoca un fantasma: il genocidio armeno, di cui in fondo i fatti attuali sembrano un’appendice.
Ha scritto Il Post sul dramma degli armeni: “La gran parte del genocidio degli armeni si compì nel giro di un anno, tra il 1915 e il 1916, ma i massacri continuarono anche per gran parte degli anni Venti.
Dei 2,5 milioni di armeni che si trovavano nell’impero ottomano all’inizio del secolo il 90 per cento fu ucciso o deportato fuori dall’impero. Si stima che alla fine del genocidio circa un milione di armeni morì per mano degli ottomani. Alcune centinaia di migliaia di donne e bambini furono costretti a convertirsi all’Islam e furono adottati da famiglie turche, mentre moltissimi altri armeni fuggirono, creando una diaspora che ancora oggi è forte in molti paesi del mondo, compresi gli Stati Uniti”.
Ho letto e riletto libri e documenti sulla tutela delle minoranze linguistiche e nazionali (gli armeni sono pure cristiani e dunque pure colpiti per questo) e le esperienze più interessanti le ho fatte al Consiglio d’Europa che sul tema si è molto impegnato. Peccato che, a dimostrazione fra il dire e il fare nel diritto internazionale, la Turchia - persecutrice anche dei curdi- ne faccia parte.
L’Italia sull’aggressione azera agli armeni di queste ore tace per via del gas indispensabile che arriva dall’Azerbaigian e per altro la stessa timidezza verso la Turchia, per interessi economici, l’ha sempre avuta verso la persecuzione dei curdi e le evidenti ambiguità sulla guerra in Ucraina, dando un colpo al cerchio e una alla botte.
Andrea Riccardi sul Corriere della Sera è fra i pochi ad averne scritto:
“Sembra una storia che si ripete: gli armeni in fuga dalle terre ancestrali, lasciando i loro abitati con le tipiche chiese dalle cupole coniche. Sta avvenendo nel Nagorno Karabakh, enclave armena di meno di 150.000 abitanti nel territorio dell’Azerbaigian, proclamatasi nel 1991, con la fine dell’Urss, Repubblica autonoma, appoggiata dall’Armenia. Le truppe azere ora hanno ottenuto la resa di quelle locali e si apprestano ad integrare la regione nell’Azerbaigian, dopo una grave crisi umanitaria che ha investito gli armeni isolati. È una storia quasi dimenticata, minore di fronte alla guerra in Ucraina. Ma legata a questa crisi. La Russia, storica protettrice degli armeni, è impegnata altrove. Nuove relazioni occidentali del governo di Erevan non colmano il vuoto della ex potenza «imperiale», che ha 2.000 soldati in Karabakh e una base in Armenia. Ora gli armeni del Karabakh stanno partendo (attraverso l’unica via aperta pur con difficoltà), temendo per la sopravvivenza sotto il controllo azero”.
Quadro crudo e realistico di una violenza che strappa dalle proprie radici un popolo.
Alla fine dello stesso articolo, Riccardi evoca i problemi del Caucaso e certe difficili rapporti spesso anche a causa di confini tagliati con l’accetta: ”I nazionalismi hanno sconvolto la convivenza. Nel 1905 gravi scontri avvennero a Baku, tra armeni (ancora vivevano là, spesso benestanti) e azeri. Poco dopo, nell’impero ottomano, maturò il disegno di eliminare gli armeni. Nel 1936, Stalin creò Georgia, Armenia e Azerbaigian. La popolazione era piuttosto mista. Azeri vivevano in Armenia e armeni in Azerbaigian. A quest’ultima Repubblica fu assegnato il Karabach con uno statuto di autonomia. Sulla regione vigilava il Cremlino, finché non si dissolse l’Urss.
Così cominciarono le guerre. La prima nel 1994 con 30.000 morti: l’Armenia vinse occupando territori azeri che creavano continuità territoriale con il Karabakh. Ovunque le popolazioni si spostavano e i segni della presenza dell’altro venivano violati o cancellati. Il Karabakh divenne un simbolo per il nazionalismo armeno. In Azerbaigian era grande la frustrazione per la sconfitta. Venticinque anni hanno cambiato l’Azerbaigian, ricco di giacimenti di gas e petrolio, sostenuto dalla Turchia, divenuto militarmente forte. Oggi gli idrocarburi azeri sono decisi per l’indipendenza energetica dell’Europa dalla Russia. E dell’Italia.
Nel 2020, nella seconda guerra azero-armena, il governo di Baku si è ripreso il territorio perso e solo il Karabakh è rimasto sotto controllo armeno, un’«isola» in territorio azero, collegata con un corridoio stradale con l’Armenia (mentre gli azeri ottenevano facilità di passaggio attraverso il territorio armeno con il Nachicevan). L’accordo avvenne con la mediazione di Putin. Era prevedibile che ci sarebbe stato un terzo atto di guerra da parte di un Azerbaigian rafforzato economicamente e internazionalmente. L’avvicinamento agli Stati Uniti da parte del primo ministro armeno Pashinyan, oggi sotto accusa in Armenia per aver confidato nella Russia, non ha cambiato il quadro geopolitico. Ora, non solo l’Armenia ha perso il controllo su un territorio storico, ma si sente isolata e fragile di fronte ai più di dieci milioni di azeri, alleati con la Turchia, temendo per se stessa. Anche perché ormai, purtroppo, nel quadro internazionale, i contenziosi si risolvono troppo spesso con le armi”.
Le guerre come modo arretrato e incivile per risolvere le questioni e non bastano vaghi proclami pacifisti per bloccare questa deriva, ma un reale rafforzamento del diritto internazionale.

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