luciano's blog

Gelosia e invidia

Spesso nel linguaggio comune si confondono due sentimenti diversi: gelosia e invidia. Invece, esistono differenze nella sostanza e dunque nell’uso delle due parole bisogna avere la giusta attenzione.
Spiega chi studia il fenomeno che permea i rapporti umani: la gelosia nasce nei rapporti affettivi quando si ha il timore di perdere l’esclusività o la totalità di un rapporto personale; l’invidia nasce da una percezione di inferiorità e mancanza nei confronti di qualcuno, ed è spesso accompagnata da desiderio di danneggiarlo.
L’etimologia ci racconta sempre molto e traggo da Etimologico.
L’aggettivo zelōsus ‘geloso’ ha preso il sign. proprio del latino ecclesiastico zelōtēs -ae come attributo di Dio (greco zēlōtḗs), in quanto egli non può ammettere che si ami qualcun altro più di lui. Il derivato gelosia è stato usato in senso traslato per indicare un graticcio alla finestra o uno sportello alla persiana, che permetta a chi si trova all’interno di vedere al di fuori senza essere riconosciuto, in quanto schermo posto da un marito o un padre geloso alle donne della propria casa. Chi ha visitato un harem sa che cosa significa…
Eccoci a invidia, che viene dal latino invĭdĭa, der. di invĭdēre ‘invidiare’, che si lega al gettare il malocchio; guardare con occhio malevolo’, da vĭdēre ‘vedere’ con il prefisso in. Vien da ridere a pensare a chi, anche nella politica valdostana, ha giocato con la magia nera, purtroppo credendoci.
Mi chiedevo - e per questo ne scrivo - se è in che modo mi rapporto a questi meccanismi così umani, che ci turbano creando emozioni forti e muovono i nostri comportamenti.
Premetto due pensieri più elevati delle mie riflessioni.
Sulla gelosia ha scritto Miguel de Cervantes: “Se la gelosia è un segnale d’amore, è come la febbre dell’ammalato, per il quale averla è un segnale di vita, ma di una vita malata e mal disposta”.
Sull’invidia ha detto Francesco Alberoni: “L’invidia è il sentimento che noi proviamo quando qualcuno, che noi consideriamo del nostro stesso valore ci sorpassa, ottiene l’ammirazione altrui. Allora abbiamo l’impressione di una profonda ingiustizia nel mondo. Cerchiamo di convincerci che non lo merita, facciamo di tutto per trascinarlo al nostro stesso livello, di svalutarlo; ne parliamo male, lo critichiamo. Ma se la società continua ad innalzarlo, ci rodiamo di collera e, nello stesso tempo, siamo presi dal dubbio. Perché non siamo sicuri di essere nel giusto. Per questo ci vergogniamo di essere invidiosi. E, soprattutto, di essere additati come persone invidiose. In termini psicologici potremmo dire che l’invidia è un tentativo un po’ maldestro di recuperare la fiducia e la stima in sé stessi, impedendo la caduta del proprio valore attraverso la svalutazione dell’altro”.
Sulla gelosia devo ammetterlo di averla avuto ed è in fondo un abisso nel quale bisogna evitare di caderci, perché il rischio è che finisca per autoalimentarsi. L’unico vero appiglio, come un chiodo forte cui mettere il nostro moschettone, è la fiducia, che è sempre un fragile azzardo, ma è segno di maturità per evitare di rodersi.
Sull’invidia devo dire con grande franchezza che non mi appartiene. Anzi, nel giornalismo e nella politica, ho sempre guardato a chi consideravo più capace di me come modello cui rubare quel che potevo delle sue capacità. Mi è servito molto questo esercizio salutare, che non finisce mai. Meglio l’ammirazione che l’invidia.

La tenerezza per gli Alpini

Non ho fatto il militare. Ricordo quei giorni della visita di leva da coscritto a Torino in quel gigantesco distretto militare, dove sfilavamo in mutande per la fatidica visita medica. Mi ero appena spaccato un ginocchio malamente sugli sci e così vagai per giorni nell’Ospedale militare per le visite e fu risolutiva l’atrografia (antesignana dei metodi diagnostici moderni), che diede lo stato oggettivo del mio infortunio.
Mi vedo come ora seduto nella sala d’aspetto del Direttore. Chiamato bruscamente entrai. Lui neanche mi guardò e bofonchiò: ”Abile, arruolato!”. Scoprii più tardi che era una burla che spesso faceva, perché in realtà ero stato fatto rivedibile. Qualche tempo dopo, ricevetti il congedo per eccesso di leva o qualcosa del genere. Vale a dire che c’erano più candidati che posti e dunque niente militare.
Per cui i miei rapporti con le Forze Armate, a differenza dei miei coetanei, sono sempre stati solo professionali, da giornalista e da politico.
Da giornalista realizzai molti reportage in una Valle d’Aosta con una presenza enorme di alpini che si aggiravano per Aosta in libera uscita e con molte occasioni ufficiali, come i giuramenti con piazze d’armi colme di ragazzi e genitori. Da politico partecipai a tante manifestazioni e mi occupai anche di giovani valdostani che finivano chissà dove a far la leva e che volevano rientrare per essere alpini, come da vocazione naturale e familiare. Vissi anche quegli anni alla Camera, difendendo nelle audizioni in Commissione, spiegando il ruolo delle Truppe alpine in epoche in cui gli Alti Comandi antipatizzavano con le Penne nere. Le missioni all’estero, in scenari montani tipo Afganistan, mostrarono la bontà di soldati apprezzati anche dalla NATO.
Molto è cambiato in questi anni e non a caso seguii la cessione alla Regione della Caserma Testa Fochi, dove si sta ultimando la sede dell’Università e questo è stato il segno tangibile della fine della leva obbligatoria. La trasformazione della storica Scuola Militare Alpina in Centro di addestramento fu un vulnus, come l’ineluttabile riduzione della presenza degli alpini in servizio solo in parte compensata da chi viene in Valle per la formazione alla montagna. La base elicotteristica di Pollein, modernizzata con fondi regionali, mi dicono sia adoperata poco. L’asse decisionale dei comandi alpini ormai è radicato nel Nord-Est.
Eppure gli alpini - con la rete fitta dell’Associazione Nazionale Alpini - non demordono nei nostri territori nel solco di una tradizione gioiosa (si è alpini per sempre, come mostrano le adunate nazionali e lo spirito di corpo) e luttuosa (la strage di alpini nelle guerre mondiali va tenuta sempre in memoria con le responsabilità di chi spesso li mandò a morire).
Guardavo domenica sfilare in Piazza Chanoux gli alpini nostri con quelli piemontesi e liguri e quella logica corale coinvolgente fra bande, cori, bandiere e labari. Mi ha colpito un’intervista del Presidente valdostano, Carlo Bionaz, in cui ricorda il segno due cose. I “veci” presenti sono il segno di generazioni che hanno vissuto il periodo da militare come momento di formazione, pur non essendo sempre rosa e fiori (il nonnismo esisteva) e costando un annetto della propria vita. La seconda osservazione è che gli alpini, ormai inquadrati in un esercito professionale, fanno sì che i più giovani a sfilare di leva siano 45enni e saranno gli ultimi a estinguersi in quella visione di esercito popolare. La tradizione come l’attuale, fatta di enormi raduni e di grande ramificazione nel Nord con una protezione civile sempre pronta, sparirà.
Una triste constatazione, certo figlia dei tempi, che domenica mi dava - nel vedere sfilare tanti miei coetanei - una vena di tenerezza.

Le convinzioni come catene

Cattivo maestro è, secondo la Treccani, un’espressione usata per indicare polemicamente chi ha esercitato un’influenza negativa sui giovani, grazie al proprio prestigio intellettuale, con particolare riferimento ai capi spirituali del terrorismo.
Brutta storia quella di quegli anni, in cui c’erano quelli che nella Sinistra estrema agognavano a una sorta di rivoluzione a colpi di omicidi e una Destra estrema che usava la strategia della tensione con clamorosi e dolorosi attentati per una svolta autoritaria. C’erano maîtres à penser che predicavano da una parte e gerarchetti neofascisti che lo facevano dall’altra.
Questa presenza dei cattivi maestri ha logiche politiche inquietanti, specie quando agiscono sulle menti duttili e influenzabili dei giovanissimi, come si vede - sempre alle ali estreme - dai cretini che in certi Licei blasé inneggiano in queste ore ad Hamas contro Israele o i giovani che, dall’altra, giochicchiano con l’estremismo nero, immaginandosi un fascismo da riabilitare, spingendosi persino alcuni ad una riabilitazione del nazismo.
Questo avviene non solo in gruppuscoli o in sette, ma anche nelle scuole, dove agiscono professori propagandisti politici e lo abbiamo vissuto tutti da ragazzi. E quando questo capita vuol dire che chi ha compiti educativi viene meno ai suoi doveri e questo è intollerabile.
Ho avuto insegnanti assai marcati politicamente, che facevano lezioni senza voler assolutamente fare proselitismo e ponevano le questioni in termini problematici e mai con l’intenzione di indottrinarci. Chi ci ha provato, quando facevo il Liceo, trovò nelle classi dove ho studiato pane per i suoi denti.
Questo per dire quanto mi abbiano stufato gli estremismi e i suoi fratelli, che siano il massimalismo, il radicalismo, l’oltranzismo, il fanatismo, il giacobinismo, il fondamentalismo, l’integralismo, il manicheismo, l’eversione e forse la lista potrebbero essere completata da altri vicoli ciechi della razionalità.
Ha scritto Edgard Morin: ”Che cos’è la razionalità? È il modo in cui lo spirito umano si sforza di associare i sistemi di idee logiche, coerenti, che edifica con i fenomeni della realtà sui quali li appoggia”.
Questo logicamente non vuol dire affatto costruzione del pensiero - nel mio caso le molte varianti del federalismo - ma senza farne un fideismo cieco e senza accompagnare ogni pensiero con sentimenti e passioni. Non siamo robottini o meglio Intelligenza Artificiale che tratta dati senza quel contesto di cultura e di esperienze, speranze e propositi che fa parte del bagaglio che ci portiamo sulla schiena.
Ha scritto Alessandro D’Avenia: ”La parola “intelligente” deriva dal latino, viene da “intus” più “legere”: “leggere dentro”. La persona intelligente è quella che sa guardare dentro le cose, dentro le persone, dentro i fatti”.
Questo vuol dire evitare, come avviene con certi algoritmi dei Social, non chiudersi nel recinto di chi la pensa solo come noi - e questo crea il rischio della conventicola chiusa - mentre bisogna conoscere gli altri, quelli che sanno confrontarsi e discutere a mente aperta. E chi è prigioniero dell’ideologia non ti ascolta, perché convinto di essere depositario delle sue intoccabili verità. Capita spesso di incontrarne in politica: neanche loro ti ascoltano mentre spieghi le tue ragioni, loro sono fermi nel ”sanno” e non hanno bisogno di altro. Chiusi, sono chiusi, prigionieri delle convinzioni che diventano come catene.

Gli amichetti di Hamas

Già avevamo i filorussi d’accatto, che solo in Italia conquistano spazi in Televisione senza logica alcuna. Spicca purtroppo nella categoria la 7 di Urbano Cairo (per fortuna non con i telegiornali di Enrico Mentana), cui si aggiunge la Rai in campo nello sdoganare personaggi putiniani che paiono grotteschi. Per non dire di un giornale militante come il Fatto Quotidiano dell’inqualificabile Marco Travaglio, anche lui nel contempo invitato televisivo a gettone, di cui sfuggono i meriti.
Ora capita nelle vicende israelo-palestinesi nello stesso filone di disinformazione sistematica chi difende Hamas senza scrupolo alcuno con logiche giustificazioniste che fanno accapponare la pelle e spesso guardacaso sono gli stessi amici di Mosca che si riciclano sulla nuova emergenza internazionale.
Consiglio per contestare questa deriva la lettura del settimanale Le Point in edicola con apposito dossier.
Illuminante e condivisibile l’editoriale di apertura a firma di Étienne Gernelle, di cui condivido la vigorosa indignazione sin dall’incipit: “Sommes-nous stupides, pleutres ou suicidaires ? Ils sont certes terrifiants, les éradicateurs islamistes, avec leurs roquettes et leurs couteaux, que ce soit à Kfar Aza, à Arras ou à Bruxelles. Mais le plus inquiétant est peut-être le spectacle de ces flageolements dans les rangs des démocraties libérales. « Dans ce moment de panique, je n’ai peur que de ceux qui ont peur », écrivait Victor Hugo dans Choses vues. Et cela tremblote, en Occident. On entend claquer des genoux de partout.
Certains, n’écoutant que leur instinct de collaboration – pardon, de survie – ont même déjà choisi le camp d’en face. En témoigne la veulerie de La France insoumise, qui pense miser sur le cheval gagnant, et celle du Britannique Jeremy Corbyn, qui lui non plus n’arrive pas à appeler le Hamas mouvement terroriste. Ceux-là, on avait l’habitude. Plus accablant est ce qui se passe aux États-Unis, où les grandes universités, tenues par une gauche adepte d’un galimatias victimaire tous azimuts, semblent cette fois-ci avares de leur compassion, puisqu’elles peinent à condamner les pogroms perpétrés par le Hamas en Israël. On les pensait idiots, ce sont des salauds…”.
Idem come sopra esponenti politici italiani ambigui e viscidi e studenti delle Superiori e delle Università italiane che non solo giustificano gli assassini ma li esaltano in un afflato masochista fra ignoranza e stupidità.
Ancora l’editoriale su questo rimbambimento in Occidente: ”Les complices intellectuels ou les compagnons de route de l’islamisme ne se donnent même plus la peine de se camoufler. Et cela en désinhibe d’autres. Les drapeaux du Hamas, brandis à Londres ou à New York, sont une tache. Les images, à Berlin, de maisons marquées d’une étoile de David font frémir. La peur a changé de camp. En France, les suppôts du Hamas ne demandent qu’à se montrer, alors que des milliers de professeurs doivent redoubler de prudence avant d’aborder certains sujets… Si les choses tournent mal, il faudra se souvenir que tout cela, malgré de réconfortantes réactions n’a pas soulevé, en réponse, de foules à la hauteur de l’ignominie qui se manifeste.
Et, au milieu de tout cela, ces numéros de contorsionnistes de moins en moins supportables réalisés par les spécialistes du relativisme…”.
Già è sarebbe ora che i complici dell’islamismi radicale, nella loro foga di difesa, pagassero queste posizioni non tanto a colpi di codice penale, quanto con un isolamento morale.
Ancora il giornalista francese: “Car la vérité est que l’islamisme est une idéologie éradicatrice et qu’il ne connaît pas de frontières. Ses disciples pourchassent dès qu’ils le peuvent tout ce qui bouge et ose encore défendre la liberté d’expression comme celle des femmes, les livres, lorsqu’ils s’écrivent au pluriel, l’Occident et les Lumières. Avec une place toute particulière pour les Juifs, leur cible préférée.
Dans leur système de pensée, personne n’est à l’abri nulle part. Souvenons-nous des menaces contre le journal danois Jyllands-Posten, qui avait publié les « premières » caricatures de Mahomet en 2005, et dont l’audience au Moyen-Orient était pourtant plutôt confidentielle… Le Hamas, à l’époque, avait d’ailleurs lui aussi réagi. Évidemment, c’était là un sujet essentiel pour le bien-être des habitants de Gaza… L’islamisme, répétons-le, n’est pas une réaction défensive. Ni Samuel Paty, de Conflans-Sainte-Honorine, ni Dominique Bernard, de son lycée d’Arras, n’avaient affamé Gaza !”.
Sono questi i professori trucidati in Francia dalla follia amicizia islamista!
E ancora: “Quant aux centaines de milliers de personnes massacrées par Daech en Irak ou en Syrie, de quel crime étaient-elles coupables ? On remarquera que nos relativistes ne pleurent pas souvent les musulmans assassinés par les islamistes. Ou alors moins fort.
La tartuferie, d’ordinaire, est simplement énervante. Dans ce moment précis, elle devient odieuse. Et déprimante. Les démocraties libérales n’ont évidemment pas dit leur dernier mot, mais il serait temps, au moins, de regarder les choses en face et de soigner cette maladive poltronnerie”.
Bella definizione quest’ultima: malata vigliaccheria! Così come i poco prima “tartuferie”, che trovo bellissimo, viene da una commedia di Molière “Personnage qui, sous couvert de religion, affecte une dévotion et une vertu profondes, dans le but de séduire son entourage et d'en tirer profit”. Un falsone…

Alpini e reines

Non so per quale combinazione oggi ad Aosta si incrocino due fenomeni - alpini e reines - che caratterizzano la valdostanità, che sarà pure un neologismo, ma riassume in sé molti aspetti singolari del popolo valdostano.
Il primo è il raduno del 1° Raggruppamento (Sezioni del Piemonte, della Liguria, Aosta e Francia), che si accompagna al centenario di fondazione della Sezione di Aosta. Le “penne nere” in questo finesettimana occupano pacificamente la città e la sfilata sarà il momento clou della manifestazione.
Il grande scrittore veneto Andrea Zanzotto aveva scritto degli alpini: n "Stelle alpine e profumo di montagna": «Senso dell’onore e coraggio, saldezza morale e capacità di resistere, tradizioni generose e sano amor di patria. Mi sembra si fondi soprattutto su questi valori il mito degli alpini, ed è sempre stato così forte da far loro vincere le infinite guerre della memoria sulle quali ancora si dividono gli italiani, a centocinquant'anni dall'unità. Un patrimonio di umanità che ha ispirato straordinarie pagine di letteratura (dall'Hemingway di "Addio alle armi" ai reportage dal fronte di Kipling, dal "Diario di Russia" di Rigoni Stern ai racconti di Bedeschi) e che li vede ancora adesso pronti ad accorrere nelle ricorrenti catastrofi naturali e nelle emergenze umanitarie (dal terremoto del Friuli a quelli dell'Irpinia e dell'Abruzzo), all’insegna del motto "onorare i morti aiutando i vivi". Sono tratti del modo d'essere degli alpini, ai quali si somma l'amore per la natura e specialmente per la montagna, che deriva loro dalla conoscenza nativa del territorio e dal legame che mantengono con esso».
Fa impressione, nel rievocare come i valdostani siano legati agli alpini e alla naia, pensare alle conseguenze ineluttabili che stanno derivando dall’abolizione della leva obbligatoria stabilita dal 1° gennaio del 2005 sul futuro dell’identità degli alpini. Questo porterà nel tempo alla lenta e ineluttabile scomparsa, per esaurimento dei suoi membri, di quel collante sul nostro territorio che sono le sezioni dell'ANA (Associazione Nazionale Alpini). E già oggi, rispetto al passato, la presenza in Valle d’Aosta di alpini in servizio si è ristretta rispetto al passato e mi vengono in mente i giuramenti con centinaia di ragazzi nel cortile della Caserma Testa Fochi o le strade di Aosta piene di alpini in libera uscita.
Mentre la sfilata attraverserà Aosta, pian piano a poca distanza si riempierà di persone l’arena della Croix Noire per la finalissima delle “Batailles de reines”, lo scontro delle bovine che mi fa tornare ragazzo, quando fui il primo telecronista a raccontare in diretta sui canali Rai le gesta delle nostre mucche combattenti. Potevo contare in quegli anni Ottanta sui preziosi consigli di Sandro, mio papà veterinario, che le reines le curava, specie di quelle patologie ovariche che spesso le tormentano. Ripenso con nostalgia a quei tempi e segnalo la vitalità di questi combattimenti (combats), che rappresentano in maniera fisica e suggestiva le radici antiche dell’allevamento del bestiame. Una sorta di sopravvivenza etnografica che illustra in maniera magistrale il legame fra il montanaro, il suo territorio e quel passaggio decisivo che fu l’addomesticamento degli animali.
È sempre avvincente vedere le bestie si studiano, persino facendo finta di niente, ma proprio le telecamere delle mie dirette consentivano di svelare particolari di nervosismi e quegli occhi - ingiustamente definiti "bovini" - che si scrutano di sottecchi in un gioco di impercettibili di segnali reciproci, forse anche di odori che sfuggono alle nostre narici ma non alle loro, che possono, in certi casi, far decidere ad una delle due contendenti ad abbandonare il campo persino senza scontro diretto. In altre occasioni, invece, questa staticità è interrotta dall'inizio dello scontro, che può essere rapidisssimo come un "k.o." oppure protrarsi a lungo come una sorta di tango drammatico in cui le mucche interpretano delle vere e proprie figure, nel gioco dell'incrociarsi delle corna con i corpi frementi. Ma, come in una plaza de toros ma con logiche incruente, bisogna non solo guardare all'angolo di prato dove si svolge il combattimento, ma è bene allargare lo sguardo ai proprietari ed alla loro postura, mentre seguono le sorti della propria beniamina e lo stesso vale per il pubblico che passa dal silenzio all'acclamazione, soggiogato in momenti topici da quel magnetismo che viene dagli antichi gesti di scontri che richiamano un passato remoto,

Profumo di tartufo

Confesso le mie colpe: nelle scorse ore ho mangiato del tartufo e quindi, come da post stagionale, non posso che decantarne la bontà e gli effluvi. Possiamo farlo, partendo da distante. Perché il tartufo risulti, ab origine, così terribilmente e amabilmente profumato è un segno ben noto della necessità di perpetuare la propria specie, attirando quegli animali, come cinghiali, volpi o ghiri, che - allettati dall'odore penetrante (in frigo va imprigionato in una "burnìa" con il riso, che poi potete cucinare e magari metteteci delle uova, perché a contatto si aromatizzano anch'esse) - trovano il fungo sottoterra e se lo mangiano. Poi, con le loro deiezioni, spargono le spore: potenza del mondo vegetale, che noi umani sottostimiamo, non comprendendo i sottili fili che ci tendono per imprigionarci, fatti di colori, forme e sapori. Noi pensiamo di "catturarli", mentre le prede siamo noi.
Gli antichi pensavano, invece, come Giovenale, che il "tuber terrae" nascesse per via di un fulmine di Giove, noto tombeur de femmes, posizione nota che serviva anche a propagare la notizia che il tartufo avesse preziose qualità afrodisiache. Provare per credere. Per molto tempo i linguisti, nello studiare l'etimologia della parola, partivano dal tardo latino "terrae tufer", mentre oggi pare certo che la parola viene dalla somiglianza - notata in epoca medioevale - fra il tubero e il tufo, la ben nota pietra porosa, da cui la catalogazione naturalistica "terra tufule tubera". Da lì anche il piemontese "trifula" e il cercatore "trifulau" con il suo indispensabile cane da ricerca. Parola poi emigrata in Francia con "truffe" ed in Inghilterra con "truffle". Faccio notare, a proposito dei cani, che il naso dei cani viene chiamato "tartufo". Non mi si dica che è un caso...
Ma un minimo di esperienza da gourmet mi ha confortato sul fatto che la vera valorizzazione del prodotto come eccellenza gastronomica è recente e riguarda - almeno nel mio gusto personale - anzitutto il tartufo bianco piemontese e svetta fra i territori quello d'Alba. È in questa cittadina che inizio la storia più recente. Così la racconta il sito del "Centro Studi Beppe Fenoglio": «Nel corso della Festa vendemmiale del 1928, commissario prefettizio il commissario avvocato Francesco Viglino che era anche presidente del Comitato organizzatore di cui era segretario tesoriere Vittorio Paganelli, ebbe un grande successo, fra le varie mostre, quella dei tartufi, proposta da Giacomo Morra (1889 - 1963); era il primo tentativo di valorizzare un prodotto già conosciuto e largamente diffuso come simbolo di prestigio fra i contadini che omaggiavano di preziosi tartufi il medico di famiglia, il veterinario, il notaio, il farmacista, la maestra del paese e quanti ai quali, in qualche modo, si voleva rendere un doveroso atto di ossequio e riconoscenza. La mostra dei tartufi suscitò così tanto interesse che si decise di trasformare l'esposizione in mostra permanente con premi ai migliori pezzi presentati da trifolao e commercianti così, nel 1929, inserita nei festeggiamenti della Festa vendemmiale, si organizzò la "Fiera mostra campionaria a premi dei rinomati Tartufi delle Langhe". Si scelse come periodo il tardo autunno per cogliere il momento in cui il prezioso fungo sviluppava il massimo del profumo e del sapore».
In meno di un secolo il fenomeno è esploso e oggi fa impressione constatare quanto business ruoti attorno alla "trifola", come si dice in piemontese e come non evocare l'eco di "trifolla", la patata in francoprovenzale. Da questo punto di vista confesso, avendo a suo tempo studiato la materia e persino predisposto una proposta di legge sui tartufi rimasta negli annali della Camera dei deputati (la numero 5921 del 19 aprile 1999), che sono sempre più stupito da due fenomeni.
Il primo è l'eccesso di prodotto in giro, che presuppone l'esistenza di molto prodotto artefatto con tartufi di scarso valore di provenienza estera che viene truccato per essere spacciato per quello buono. Il secondo riguarda i rischi di aromatizzazione di prodotti vari "al tartufo", di cui sarebbe bene conoscere l'esatto trattamento. Sarebbe interesse dei trifulau onesti e dei trasformatori corretti pretendere un salutare repulisti, pensando al rischio di una perdita generale di credibilità.
Per vostra curiosità vi segnalo quelle che erano segnalate nella legge appena citata come specie commerciabili:
a) "Tuber melanosporum Vitt", chiamato anche "Tuber Nigrum Bull", usualmente chiamato tartufo nero pregiato, tartufo nero dolce, tartufo nero di Norcia o di Spoleto, tartufo nero del Penigord;
b) "Tuber brumale Vitt", chiamato anche "Tuber brumale var moschatum Ferry de la Belonne", usualmente chiamato tartufo nero d'inverno, trifola nera o tartufo nero moscato;
c) "Tuber aestivum Vitt", usualmente chiamato "scorzone" o tartufo nero d'estate;
d) "Tuber uncinatum Chatin", usualmente chiamato "scorzone" o di Fragno;
e) "Tuber mesentericum Vitt", usualmente chiamato tartufo mesenterico o tartufo nero ordinario, tartufo di Bagnoli o di Avellino;
f) "Tuber magnatum Pico", usualmente chiamato tartufo bianco d'Alba o del Piemonte o tartufo buono di Acqualagna;
g) "Tuber borchii Vitt", chiamato anche "Tuber albidum Pico", usualmente chiamato bianchetto o marzuolo;
h) "Tuber macrosporum Vitt", usualmente chiamato tartufo macrosporo o nero liscio o grigio;
i) vari tartufi del genere "Tuber", usualmente chiamati tartufo nero della Cina o dell'Asia o tartufo cinese o asiatico.
Inutile dieci che il tartufo, per me, è quello alla lettera f) e vi risparmio i tecnicismi della leggina, tipo caratteristiche e classificazione assai utili contro le contraffazioni, che - con diverse tecniche ingegnose - possono trasformare in un tartufo bianco pregiato qualche "patata" insapore e per altro vasta comparare il "troppo" tartufo in giro con le quantità davvero rinvenibili in natura.
Vi resti chiaro di diffidare fortemente dei prodotti alimentari dal gusto e odore di tartufo, cui dedicavo un articolo della mia proposta, che recitava: "Tutti i prodotti alimentari contenenti tartufo devono recare sull'etichetta l'indicazione della specie del tartufo utilizzato e della relativa quantità. E' vietato utilizzare sostanze aromatiche naturali o di sintesi per aromatizzare prodotti alimentari freschi o conservati".
Quando si mangia del tartufo vero tra profumo e apprezzamento delle papille gustative, è difficile farsi ingannare e resta un'esperienza importante, che parte da un prodotto povero e semplice che ha raggiunto quotazioni da capogiro perché sa sposarsi con piatti che restano nella memoria, come la fonduta di "Fontina", l'uovo al tegamino, la carne cruda e i semplici "tajarin" (pasta all'uovo).
Come la madeleine di Proust basta un pensiero per ritrovarsi nelle Langhe…

Un mondo che fa paura

A mio papà fu un prete polacco a spiegare fuori dai cancelli di Auschwitz che cosa capitasse dentro quel campo e in particolare il perché del fumo che usciva dai camini: erano i cadaveri delle persone gassate. Credo che per un ragazzo di vent’anni siano cose terribili, difficili da capire.
La vita sa essere bizzarra: mio papà - e per questo divenne “giusto” per la comunità ebraica di Torino - prima di finire in Germania con gli altri giovani aostani che non avevano aderito alla Repubblica di Salò, aveva accompagnato ebrei in fuga in Svizzera lungo la conca di By. Non so attraverso quale tam tam arrivavano in via Sant’Anselmo ad Aosta nella casa dei miei nonni per scappare dalle persecuzioni che nel 1944 significavano finire nei campi di sterminio e morire in condizioni crudeli.
Davanti al peggiore dei lager si ritrovò Sandrino, che poi fuggì dal secondo campo dove finì a Cracovia con un rocambolesco viaggio di ritorno in Valle d’Aosta.
Queste vicende, che mi hanno portato anche a visitare più volte Auschwitz pure con i miei figli, mi hanno spinto sin da ragazzo a leggere tutto quanto riguardasse la Shoah e a seguire la storia incredibile della nascita di Israele, come atto finale della lunga storia di antisemitismo che ha accompagnato la diaspora ebraica. Ho provato empatia, immedesimandomi in un popolo perseguitato per secoli sino alla “soluzione finale” voluta da Hitler come espressione che tutto riassumeva. Odio verso gli ebrei che ha ancora radici che alimentano odio e epigoni.
Per questo grumo di sentimenti ho sempre ammirato gli ebrei, la loro cultura, il loro umorismo e il senso profondo di comunità. Per cui confesso che, pur cercando di essere oggettivo di fronte al dramma palestinese e agli errori di Israele, sono sempre rimasto idealmente vicino agli israeliani, seguendo le vicende di guerra che li hanno visti sul campo di battaglia.
“Due popoli e due Stati”: in fondo questa soluzione è sempre apparsa la necessità. Facile a dirsi, difficile a farsi. Ora le ultime tappe ci allontanano sempre più come dimostrato da a queste settimane dolenti con gli israeliani aggrediti e massacrati e i palestinesi finiti nel tritacarne costruito non a caso da Hamas. Esempio non solitario di gruppi terroristici islamisti che vogliono cancellare Israele e il suo popolo dalla carta geografica. Gli israeliani direi che sono obbligati a difendersi e a contrattaccare a costo della loro stessa esistenza, purtroppo con leadership - come quella di Benjamin Netanyahu - che hanno dato pessima prova di sé, facendo vacillare valori democratici su cui si è stata fondata Israele.
I palestinesi ancora questa volta sono vittime sacrificali di chi ne sfrutta disagio e povertà, facendoli diventare simbolo che favorisce un Islam ferocemente antioccidentale in un vero e proprio delirio di integralismo religioso. Un integralismo che ha messo radici anche in Europa, come dimostrato da episodi terroristici terribili, che sono frutto di una sostanziale difficoltà di integrazione di gran parte delle comunità arabe, che vivono in una società parallela che in molti casi mira a logiche di suprematismo islamico, che non riconoscono valori costituzionali essenziali in tema di diritti civili.
Non faccio di tutta un’erba un fascio, ma sarebbe stupido, nel nome del politicamente corretto, non notare che nei confronti dell’estremismo islamico esiste una sorta di acquiescenza anche da noi che preoccupa e che ha portato in questi giorni in piazza in Europa anche giovani arabi già nati e cresciuti in Occidente. Inneggiare ad Hamas o è ignoranza o è follia e questo vale per i troppi cretinetti di estrema sinistra (ma anche gli antisionisti se non antisemiti all’estrema destra) che sono convinti che sostenere i terroristi, sbandierando la bandiera palestinese, sia segno di democrazia.
Non è facile per Israele capire il da farsi per rispondere all’aggressione, con i palestinesi di Gaza che sono di fatto stati complici ma in fondo sono anche anche prigionieri “carne da macello” di queste milizie armate estremiste, peggio del peggio, che nella loro pazzia ucciderebbero - se li incrociassi sulla mia strada - anche me e la mia famiglia, perché siamo “infedeli”!
Ha scritto ieri su La Stampa il lucido Mattia Feltri: ”Hamas e i suoi amici non aspettano altro che la mattanza per additare al mondo il nazismo sionista e trovare alleati per la soluzione finale. Nulla gli importa, da decenni, della gente di Gaza. Non ripetete gli errori che abbiamo commesso noi dopo l'11 settembre, ha detto ieri Joe Biden a Bibi Netanyahu. Quindi? È cecità, ha scritto giustamente Giuliano Ferrara, dire a Israele che cosa non fare, e quanto a che cosa fare aggiungere "non lo so". Se chiedete a qualcuno che dovrebbe fare ora Israele, più spesso risponderà "non lo so". Se lo chiedessero a me, direi "non lo so" “.
Purtroppo la Storia non si ferma, malgrado le nostre titubanze e le nostre paure. E io di questa situazione in Medio Oriente ho paura, così come delle alleanze geopolitiche che stanno mettendo assieme dittatori e “cattivi” del mondo intero e se la polveriera nucleare esplode facciamo la fine dei dinosauri uccisi dal meteorite.

La personalità di ciascuno

Senza buttarlo sullo spiritualista o peggio sull’esoterismo, trovo non male riflettere sui nostri comportamenti, come esercizio di introspezione che può avere una sua utilità.
Quel che siamo come esseri umani è ovviamente frutto di tante circostanze. Certo da questa varietà di situazioni, che si incrociano fra loro e siano scelte o subite, usciamo noi come prodotto originale. Lo dimostrano le nostre impronte digitali o meglio ormai il nostro DNA, che ci inchioda ancor di più alla fisicità e dimostra la nostra unicità.
Ha scritto Erich Fromm: ”Il principale compito dell’uomo nella vita è quello di dare alla luce sé stesso, per diventare ciò che potenzialmente è. Il prodotto più importante dei suoi sforzi è la sua propria personalità”.
Così ormai io stesso - come tutti - sono quel che sono, anche se nel tempo ci sono stati tanti me stesso, a seconda dell’età e dei ruoli spesso diversi che ho ricoperto e pesano nel bene e nel male anche le situazioni più personali e familiari. Un succedersi di esperienze da cui emergono pregi e difetti e ciascuno risponde di quello che è e diventato per merito e anche per fortuna.
La cosa certa è che ci sono modi di essere diversi nel rapporto con gli altri. Per esempio: bisogna dire quel che si pensa o è meglio tacere per non disturbare nessuno, anzi il silenzio - modo ad esempio per non schierarsi - potrebbe essere occasione per piacere a tutti?
Il tema per chi faccia politica è molto interessante, perché il dato oggettivo è che, essendoci per fortuna in democrazia il passaggio del voto, si sale o si scende a seconda del consenso che si ottiene. È c’è chi ritiene il fatto di essere “piacione” la sua stella polare e dunque di fronte a scelte fra bianco e nero opta per un sempre indossabile grigio.
Mi è capitato di sentirmi dire, ad esempio per quanto scrivo sul mio Blog, se davvero fosse il caso di farlo in certe circostanze e su temi sui quali forse sarebbe stato più conveniente far finta di niente per non scontentare qualcuno.
Ne ho conosciuti di quelli con più facce, adoperandole a seconda delle circostanze per fare buona impressione a potenziali elettori. Questa idea di alcuni di cambiare a seconda dell’interlocutore o delle circostanze non ha mai fatto per me.
Rari coloro che hanno cercato, per ragioni di opportunità politica, persino di zittirmi e ho sempre risposto che ognuno è quello che è e per me parlare e scrivere in modo franco è una scelta di libertà. Può capitare di eccedere e mi è capitato, quando ho sbagliato, di correggermi e anche di chiedere scusa.
Italo Calvino in Palomar, romanzo del 1983, ha scritto: ”In un'epoca e in un paese in cui tutti si fanno in quattro per proclamare opinioni o giudizi, il signor Palomar ha preso l'abitudine di mordersi la lingua tre volte prima di fare qualsiasi affermazione. Se al terzo morso di lingua è ancora convinto della cosa che stava per dire, la dice; se no sta zitto. Di fatto, passa settimane e mesi interi in silenzio”.
Già, il silenzio. Non invidio né chi si morde la lingua e neppure chi decide di tacere. Dire quel che si pensa - meglio in modo urbano ed educato, specie quando cosi lo è e lo sono gli interlocutori - è essenziale in un mondo nel quale grava il rischio di chiudersi in una dimensione per difetto scarsamente sociale o per eccesso troppo Social.
Già, i Social, dove in troppi si nascondono dietro a nickname, somigliando ai banditi che si mettono il passamontagna durante le rapine per non farsi riconoscere.
Meglio metterci sempre, sia dal vivo così come sul Web, la propria faccia e le proprie idee.

Il busillis dell’Intelligenza Artificiale

Capita ogni tanto di credere davvero che gli alieni siano già fra di noi. Di recente a Roma ho partecipato ad un interessante convegno sull’Intelligenza Artificiale. L’ho fatto perché credo che siamo di fronte ad una tecnologia che risulterà una evoluzione o forse una rivoluzione nel settore del digitale con implicazioni forti sulla società umana. Per cui, prima di trovarmi nelle condizioni di non capire per perdita di conoscenze, meglio lanciarsi all’inseguimento, nei limiti naturalmente delle mie capacità di cogliere la forza propulsiva di certe novità emergenti, applicandone le utilità.
Ebbene, l’alieno, altissimo funzionario statale, alla domanda se si dovessero prevedere leggi sul tema IA ha risposto qualcosa come: “No, non è necessario, siamo in un Paese di legulei e se dovessimo normare la materia rischieremmo solo di fare pasticci”.
Credo che in sala si sia sentito il rumore della mia mascella che cadeva in terra.
Di questi tempi l’Unione europea, nel trilogo, così si chiama il confronto fra Commissione, Consiglio e Parlamento europeo, sta cercando un compromesso fra diverse posizioni per approvare entro fine anno e comunque prima delle elezioni europee un regolamento assai articolato sull’Intelligenza Artificiale. Un regolamento che si applicherà tout court a tutti gli Stati membri e sarebbe il primo caso nel mondo di una normativa regolatoria, che ritengo utile se non indispensabile, con buona pace di chi non lo sapeva, malgrado il rilevante ruolo pubblico..
Per fortuna ho sentito, come indiretta compensazione a consolazione, molte spiegazioni prevalentemente tecniche sul ruolo innovativo dell’Intelligenza Artificiale. Con la certezza che queste tecnologie - perché esiste nel settore una sana competizione - saranno in costante evoluzione e bisognerà in qualche modo rincorrerle per evitare dí cristallizzarsi di fronte a quanto destinato a mutare con impressionante velocità.
Niente di preoccupante, a condizione naturalmente di avere su molti punti una quadro di norme che evitino usi distorti che possano sfuggire al controllo. Questo vale per qualunque tecnologia sin dalla notte dei tempi e dunque le cautele dovrebbero - uso il condizionale - far parte delle buone pratiche.
Certo gli usi dell’Intelligenza Artificiale sono in parte già acclarati, altri sono prevedibili, altri ancora possono stupire e ci sono poi spazi sinora non esplorati che verranno utilizzate con il tempo grazie all’inventiva umana nelle applicazioni. L’impressione - almeno per il settore pubblico - è che per ora si proceda a tentoni con piccole esperienze e manchi una sorta di repertorio che consenta alla politica e alle amministrazioni di lanciarsi con maggior coraggio nell’utilizzo. Sembrerebbe mancare un ponte fra scienza e piena esplicitazione per I possibile utente del novero degli utilizzi, forse per alcuni aspetti prematuri. Bisognerà poi nel pubblico fare i conti con una pigrizia insita in chi, abituato a fare le cose in un certo modo, vede l’innovazione come minaccia per ignoranza o più semplicemente come turbamento del quieto vivere.
Con l’aggravante da non sottostimare di un settore pubblico che per innovare deve seguire regole che allungano i tempi di decisione o, come si dice oggi, di messa a terra. Così quando l’Intelligenza Artificiale fosse infine adoperata per uno qualunque dei possibili terreni ci saranno sempre i tempi trascorsi tra concezione e realizzazione e il rischio sarebbe quello di trovarsi già un passo indietro rispetto alle innovazioni nel frattempo maturate. Una sorta di inseguimento infinito.
Per questa bisogna non mollare l’osso e riuscire, nel rispetto delle regole, ad essere tempestivi.

Bruxelles insanguinata

La settimana scorsa ero al Comitato delle Regioni a Bruxelles. Cenavamo in una birreria al Sablon, quartiere dove ho abitato quando ero parlamentare europeo, e lo facevamo in un tavolo all’aperto grazie al caldo inusuale di quella che in francese chiamano “été indienne”.
Con i miei collaboratori a tavola discutevano di Israele e Hamas, preoccupati di cosa sarebbe potuto capitare in città, vista la presenza nella Capitale belga ed europea di cellule islamiste. Proprio vicino a dove ci trovavamo il 6 giugno del 2014 ci fu la strage islamista al Museo Ebraico di Buxelles alla vigilia delle elezioni europee: un attacco nel cuore dell'Europa, che fece quattro vittime e fu una ferita profonda alle istituzioni europee e all'Unione stessa, alla democrazia, alla convivenza, in un luogo simbolo di cultura e di memoria.
Non molto distante ci furono - con un totale di 32 morti - gli attentati di Bruxelles del 22 marzo 2016, quando avvennero una serie di tre attacchi terroristici coordinati. Due attacchi colpirono l'aeroporto di Bruxelles-National, nel comune di Zaventem, ed uno la stazione della metropolitana di Maelbeek/Maalbeek, nel comune di Bruxelles. All’aeroporto sfuggì alla morte, per combinazione fortunata, Francesca, la storica funzionaria della Valle d’Aosta, che lavora da tanti anni alla Rappresentanza della Regione a Bruxelles.
Fra noi commensali discutevamo delle preoccupazioni che Bruxelles potesse essere di nuovo colpita, concordando sul fatto che non parevano esserci misure particolari da parte delle forze dell’ordine, malgrado l’evidente rischio incombente ben rappresentato dalle vicende passate che ho appena descritto.
Purtroppo avevamo ragione e ieri un attentatore ha colpito di nuovo e l’assassino, un arabo belga, ha ucciso due persone a colpi di mitra e pubblicato un video in cui dice: ”Sono dello Stato Islamico, viviamo e moriamo per la nostra religione”.
Ora tutta l’Europa e direi tutto l’Occidente ha rafforzato le misure di sicurezza. Sappiamo bene come “lupi solitari” simili a questo Abdeslam Jilan ci sono potenzialmente ovunque, come il ceceno che in Francia ha ucciso poche ore fa un professore, ma ci sono anche gruppi organizzati. Basti pensare a Parigi con gli attentati di Parigi del 13 novembre 2015 compiuti da almeno dieci persone fra uomini e donne. Furono loro i responsabili di tre esplosioni nei pressi dello stadio e di sei sparatorie in diversi luoghi pubblici della capitale francese, tra cui la più sanguinosa è avvenuta presso il teatro Bataclan, dove vennero uccise 90 persone. Fu il secondo più grave atto terroristico nei confini dell'Unione europea dopo gli attentati dell'11 marzo 2004 a Madrid. Allora ci furono una serie di attacchi di matrice islamica sferrati nella capitale spagnola a diversi treni locali, provocando 192 morti (di cui 177 nell'immediatezza degli attentati) e 2057 feriti.
Evocare queste vicende serve come ammonimento contro certa distrazione nostra rispetto ai gravi rischi dovuti alla presenza fra di noi, nel cuore delle nostre società di terroristi sanguinari pronti a colpire. E pone un problema serio di certe complicità di comunità accolte nel tempo, che in passato non sempre hanno vigilato e denunciato la presenza fra di loro di persone pericolose, perché finite nelle braccia dell’Islam radicale.
I temi dell’immigrazione ragionata e non casuale e dell’integrazione necessaria contro la presenza di società parallele restano chiavi di volta dell’accoglienza e bisogna dirlo con chiarezza in occasione di vicenda gravi che minano la necessaria civile convivenza. Altrimenti saranno guai crescenti e il muro delle incomprensioni genera mostri. Abbiamo diritto tutti a vivere sereni.

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