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11 gen 2018

Spigolature su Amsterdam e dintorni

di Luciano Caveri

I Paesi Bassi, che poi tutti noi chiamiamo Olanda (toponimo che designa solo due delle dodici Province che compongono il Paese), è uno Stato europeo relativamente piccolo e fa impressione pensare a come, nella sua storia patria, abbia giocato ruoli importanti sullo scacchiere mondiale. Lo si vede da quella componente multietnica originata dalla storica politica coloniale. Mi era capitato di andarci per visite ufficiali al tempo del Parlamento europeo, ma quelle sono visite piuttosto stucchevoli, attraverso percorsi precostituiti e si finisce alla fine in sale riunioni di diversa grandezze con una compagnia di giro cosmopolita, che distrae da ogni possibile full immersion nella realtà locale. Conviene, per farsi un'idea, andare in giro nelle quotidianità per conto proprio.

Frequentavo poi, nell'esperienza europea, compresa quella al "Comitato delle Regioni", questi olandesi e il dato marcante è che, senza lo snobismo anti-europeo di gran parte degli inglesi, apparivano i più solidamente filo-atlantici e naturalmente apparivano persone che evitavano svolazzi "politichesi", perché dotati di un sano pragmatismo. Così sono stato nei giorni scorsi per un breve soggiorno ad Amsterdam, per farmi qualche idea, e confermo la grande civiltà che si osserva. Ma aggiungo alcune cose tra il serio e il faceto. Se il simbolo araldico del Paese è un leone rampante rosso con unghioni e lingua blu, credo che oggi dovrebbe essere sostituito - e la Capitale ne è un esempio plastico - dalla bicicletta. Esiste, infatti, lungo le "sacre piste ciclabili" un via vai infinito di ciclisti a manetta, che sfidano qualunque maltempo e scampanellano furiosamente se qualche turista imbranato "occupa" la loro strada. Nugoli di biciclette in sosta riempiono le strade e spesso sono relitti di bici che furono. L'altro è l'ordine nelle visite museali, ma senza quella freddezza algida di certi Paesi più a Nord. Così il museo della "Heineken" è molto razionale, ma senza troppo prendere sul serio questo colosso multinazionale, che ha fra gli altri lo stabilimento valdostano a Pollein. Si racconta come una piccola attività produttiva possa trasformarsi in una multinazionale, che cura la propria storia e il proprio brand con grande efficacia fra spiegazioni tecniche, assaggi di birra, proposte multimediali in un clima simpatico e non da parrucconi. Che poi è lo stesso clima del "Museo Van Gogh", dove dal guardaroba gratuiti agli afflussi ben regolati di pubblico, dalla costruzione del percorso di visita al varissimo merchandising si assiste ad un sistema efficiente, di cui il bizzarro Vincent - ho scoperto su di lui tante cose che non sapevo - sarebbe letteralmente stupefatto, se potesse assistervi. Sfortunato in vita, celebrato post mortem. Nei negozi di souvenir campeggia molto del ciarpame visibile in ogni parte del mondo, ma certo per un valdostano colpiscono gli zoccoli in legno, molto simili alle "tsoque" fatte dai sabotier valdostani di Ayas, anche se sono calzature da campagna più basse e più panciute. Ricordo - anni fa - un ayassin doc che raccontava ad avvenenti turiste - in piena presa in giro chiamata "cabala" in patois locale - come un olandese fosse capitato ai piedi del Monte Rosa e avesse istruito i montanari alla lavorazione dei sabot. Una balla, naturalmente, ma trovo che un "ponte" oggi ci dovrebbe essere: trovo che i nostri sabotier potrebbero creare delle linee nuove da ornamento, con colori e geometrie, come fanno lassù. Infine il caso vuole che mentre mi aggiravo per le strade e per i canali di Amsterdam ci fosse la ancora ben viva polemica sulla moneta di epoca digitale nota come "bitcoin" e sul rischio che possa tutto scoppiare come una bolla speculativa. Se torniamo al Seicento in Olanda, in un'epoca d'oro, c'è la storia istruttiva dei tulipani, fiori che restano un vanto ancora oggi sin dagli arrivi all'aeroporto di "Skipol" (hub importante in Europa e gli aerei passano ogni minuto sul centro città, come se nulla fosse) fino si suggestivi mercatini floreali. Sulla storia dei tulipani scriveva Roberto Petrini su "La Repubblica" nel mese di novembre: «La crisi si sviluppò durante quello che sarà battezzato il secolo olandese, mentre l'Inghilterra doveva ancora decollare economicamente e la guerra per l'indipendenza dalla Spagna delle Province Unite stava per essere vinta. Il clima era di ottimismo ed euforia, la compagnia olandese delle Indie Orientali faceva lucrosi affari. Schiacciati verso il mare gli olandesi conquistano la leadership del commercio del grano, costruiscono una immensa flotta con il legname delle foreste nordiche che rappresentava la metà del tonnellaggio mondiale e impiegava 120mila uomini. L'Olanda viene definita l'emporium mundi e in giro c'è una grande abbondanza di liquidità pronta a cogliere nuove occasioni di investimento. Vi si trova di tutto: carte marittime e sestanti, spezie e farmaci, stampe e freschi prodotti dell'agricoltura. In un tale fermento quando i primi tulipani, provenienti dai giardini ottomani di Istanbul e preceduti dalla fama di "fiore di Dio", arrivarono nel porto di Rotterdam, si scatenò l'interesse. Poi la moda e la corsa all'acquisto». Così prosegue l'autore su di una vicenda esemplare nei libri di economia: «Per capire il meccanismo psicologico bisogna considerare che oltre al fascino esotico, il tulipano aveva colori più netti di quelli cui erano abituati gli europei: dal rosso si arrivava allo scarlatto e dal viola all'incredibile nero, che qualche anno dopo ispirerà un romanzo ad Alessandro Dumas, Il tulipano nero appunto, ambientato nel clima di crescente euforia. Gli scambi avvenivano nelle taverne di Utrecht, Rotterdam e Haarlem. L'oggetto delle contrattazioni - vale la pena sottolinearlo - non erano i fiori, con il loro calice e i loro lunghi ed eleganti steli, ma i bulbi, cioè quella sorta di cipolloni che interrati danno vita al tulipano. I bulbi, inoltre hanno la caratteristica di conservarsi a lungo, fino a due-tre anni, di essere abbastanza resistenti e di gemmare altri bulbi. Qualcuno ha voluto vedere già nel concetto stesso di bulbo, ovvero dell'incubazione di un bene futuro, le avvisaglie della prima rivoluzione finanziaria: il bulbo è già un "future", ovvero un "contratto future" sul tulipano. Bisogna osservare inoltre che l'ossessione maniacale per i tulipani era diretta ai bulbi di fiori assaliti da una particolare malattia che ne chiazzava la superficie: si trattava di rarità che potevano venire alla luce solo dopo che il bulbo si era trasformato in tulipano. Così il prezzo saliva e l'attesa per la fioritura diventava febbrile scatenando il mercato e aspettative irrazionali». Poi il finale sino al patatrac: «I floricoltori, che potevano contare su un fiore che faceva tendenza, cominciarono a battezzare, con abile marketing, i nuovi "prodotti" con nomi di generali o ammiragli, il "Semper Augustus" fu la specie più apprezzata e ricercata. Venditori ambulanti specializzati battevano le campagne creando curiosità e aspettative. Il "Semper Augustus", diventato un benchmark, che quotava 1.000 fiorini nel 1623, due anni dopo era salito oltre quota 3.000. Nei quattro anni, dal 1634 al 1637, la bolla si gonfiò a dismisura: il "Semper Augustus" arrivò a quotare 6.000 fiorini. Con picchi incredibili: si narra che, nell'estate del 1633, una casa situata nella città di Hoorn, nel Nord dell'Olanda, passò di mano per il controvalore di un bulbo. La speculazione e l'innovazione finanziaria camminarono velocemente. Si cominciarono a trattare diritti di acquisto dei bulbi, sotto forma di "future" veri e propri (un "derivato" che obbliga all'acquisto alla scadenza del contratto ad un prezzo prefissato): ovvero si paga un acconto e il saldo alla consegna. Con questo meccanismo, con pochi soldi si può generare un forte effetto leva e ci si espone a perdite elevate. Poteva accadere di comprare un "diritto-future" del valore di cento per acquistare il bulbo alla scadenza pagando 900. Ma se il valore di mercato al momento della chiusura del contratto era dimezzato, si era obbligati dal contratto all'acquisto e la perdita poteva essere ingente. Fu il terreno di cultura della speculazione perché i diritti venivano scambiati, comprati e venduti, senza più riferimento all'intenzione di comprare la merce, cioè il tulipano. A gonfiare ancora di più la bolla, a partire dal novembre del 1636, ci fu una ulteriore circostanza, che nulla toglie al clima di euforia irrazionale che ha segnato l'intera vicenda dove il bulbo di un fiore turco vale quanto una casa. Molti nobili e notabili tedeschi avevano investito in "future" sui tulipani, ma a causa della sconfitta militare subita nel confronto con gli Svedesi nel 1636 (in Europa era in corso la "Guerra dei Trent'anni" a sfondo religioso), si trovarono in difficoltà nel chiudere i contratti. Le ragioni erano due: la prima riguardava le ridotte disponibilità finanziarie dei nobili tedeschi, la seconda la caduta dei prezzi dei bulbi che rendeva terribilmente penalizzante l'obbligata chiusura del "contratto future" che aveva previsto un prezzo di conversione per l'acquisto definitivo del bulbo ben più alto di quello di mercato. Secondo questa ricostruzione i tedeschi fecero lobby e ottennero dal governo olandese un cambiamento delle regole del mercato: i "futures" furono trasformati in "options", dunque in contratti la cui conversione e l'acquisto del bulbo non era obbligatoria ma facoltativa. Per compensare i produttori-venditori di bulbi della perdita del diritto di vendere ad un prezzo prefissato, con la trasformazione dei contratti in semplici opzioni, fu stabilito che costoro avevano diritto a una penale del tre per cento da parte dei compratori. Quando la notizia filtrò sul mercato, la strategia dei produttori di tulipani cambiò: per incoraggiare la conversione delle opzioni doveva stabilirsi un rapporto di convenienza e dunque i prezzi dovevano salire. Così fu e questa ulteriore circostanza diede l'ultima spinta alla bolla, già ben gonfia prima della sconfitta tedesca. Naturalmente una volta scaduti i contratti, il motivo per tenere alti i prezzi non sussisteva più e la bolla si sgonfiò. Panico e irrazionalità fecero il resto. Una ulteriore folle corsa, finché nel febbraio del 1637, all'asta di Alkmaar, ci fu il crollo dei prezzi. La bolla scoppiò». Istruttivo, no?