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09 ott 2017

Quando la Catalogna "studiava" la Valle

di Luciano Caveri

Mi è capitato molte volte in questi anni di scrivere della Catalogna, anche quando non faceva le prime pagine dei giornali come oggi, a fronte di una emergenza che appare evidente, comunque la si pensi. Per altro devo dire che la difficile circostanza risulterà nel tempo utile, per quel che riguarda il panorama politico italiano ed europeo, perché cristallizza le posizioni pro e contro senza le solite ambiguità, compresi i silenzi di comodo. Era il 2014 quando annotavo: «Quando ho portato i miei figli in visita a Barcellona, città intrisa di una straordinaria cultura e di un popolo in cammino lungo la "Rambla" (secondo García Lorca «l'unica strada al mondo che non vorrei finisse mai»), ho ricordato loro quanto sia antica l'aspirazione della Catalogna ad una piena libertà. Vorrei, nel rispetto delle idee che matureranno in proprio, sappiano che questa è democrazia».

«Molte volte ho discusso con gli autonomisti catalani - aggiungevo - in visita da loro o in incontri a Bruxelles, che per tradizione storica e "impronta" culturale e giuridica sono piuttosto sospettosi verso il federalismo, delle loro reali intenzioni. Nella gran parte dei casi, la logica era quella di vedere nella piena indipendenza il punto d'arrivo. Il leader catalano, Jordi Pujol, che in pieno franchismo venne in Valle d’Aosta in viaggio di nozze per conoscere il nostro Statuto d'Autonomia direttamente da mio zio, Séverin Caveri, ha detto una frase molto bella: «per Paesi come il nostro, l'isolamento è una grande tentazione. Peccato che non porti da nessuna parte, come dimostra anche la nostra storia, intrecciata a tre grandi culture, la cristiana, l'ebraica, l'islamica. Per questo mi sforzo di riconoscere nella globalizzazione non soltanto i rischi, com'è facile, ma anche le grandi possibilità». Un "grande vecchio" riesce, insomma, a vedere con lucidità, come stanno facendo anche in Scozia, di come certe aspirazioni non debbano mai essere passatiste e ammuffite, ma inserite in un processo di cambiamento, che pone in discussione - nei grandi rivolgimenti della Storia - la fissità degli Stati Nazionali come la conosciamo oggi, specie con la lente dell'Unione europea, che può essere d'ingrandimento per i piccoli popoli». Pujol con grande divertimento, sapendo già della mia parentela, mi raccontò appunto come in pieno franchismo negli anni Cinquanta partì in viaggio di nozze - con grande arrabbiatura della moglie - per andare a studiare il modello Alto Adige/Südtirol e lo Statuto autononomistico della nostra Valle, incontrando l'allora leader dell'Union Valdôtaine, mio zio, che lo accolse con grande affetto e disponibilità. Poco tempo dopo Pujol, medico come professione e uomo di grande carisma, venne arrestato perché contrario al regime franchista e condannato a sette anni di prigione, che in parte scontò al confino. Divenne poi fino al 2003 il leader autonomista per eccellenza. Europeista convinto e contrario ad un autonomismo giacobino, Pujol , come accennavo, non era attirato dal federalismo - bandiera invece per quei valdostani che ci credono davvero sulle tracce di una visione originale della politica - perché temeva che nel caso della Spagna venisse adoperato in una logica di «un caffè per tutti», intendendo che si trattasse di un contentino di Madrid per tenere buone le diverse spinte centrifughe che si sono manifestate variamente nel panorama istituzionale spagnolo. Ma su un punto non defletteva, in anni in cui i Baschi picchiavano duro con il terrorismo, e cioè che la scelta di libertà dovesse percorrere la strada di pronunciamenti democratici, come quello avvenuto domenica, anche se in una logica di forzatura dell'armatura costituzionale voluta dalla Spagna. Ricordo a questo proposito che ogni tentativo di allargare gli spazi dello Statuto d'autonomia catalana si sono infranti, in molte circostanze, proprio al limitare della Corte Costituzionale spagnola, che mai ha giocato in un ruolo equilibratore, ma sempre e solo a favore di Madrid, come una sorta di cane da guardia. La violenza non è mai concepibile in situazione come questa e non per una forma velleitaria di pacifismo ad oltranza, ma perché ci sono ampli spazi politici e giuridici che sono stati non esplorati a sufficienza. Ho interloquito in queste ore con diversi soggetti che criticano più i catalani che gli spagnoli, qualche spagnolo compreso, e ho letto incredibili dichiarazioni di alcuni politici italiani che condannano Barcellona, accusando gli indipendentisti di voler creare una "balcanizzazione" sul Vecchio Continente, segno evidente di ignoranza storica e di balbettamenti nel diritto internazionale. Il dato di fondo è il carattere politico del referendum e il comportamento feroce e goffo nello stesso tempo del Governo spagnolo con la scelta di usare la "Guardia Civil" come picchiatori, e così facendo, al posto di disinnescare la situazione, la Spagna ha scelto di buttare benzina sul fuoco, profittando anche del silenzio di quasi tutti i partner europei e dei vertici dell'Unione europea, zitti al momento buono (ieri si sono espressi tardivamente auspicando in modo grigio «il dialogo»). Lo avrebbero dovuto fare prima, cercando di trovare una mediazione, su un tema cruciale per l'Europa di domani: gli Stati sono creature eterne e inamovibili?