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08 apr 2017

Il cimitero immaginario

di Luciano Caveri

Esiste la Grande Storia, quella che si riferisce - usando il fluire del tempo - dal passato più remoto ad oggi. La si studia a scuola, nell'incrociarsi balbettante dei programmi scolastici a seconda del grado di istruzione che si frequenta. Poi ce n'è una più Piccola di Storia, meritevole anch'essa di interesse e di maiuscole, che riguarda invece noi stessi e come ci poniamo rispetto agli eventi e alle persone che incontriamo nel corso della nostra esistenza. Mi è capitato di pensare l'altro giorno - nel ricordare il mio amico botanico ed illuminista Aldo Poletti in una cerimonia pubblica - al fatto che ho come tutti un cimitero di persone che ho conosciuto quando erano in vita: una sorta di pantheon mentale, che potrei immaginare non come un grande palazzo ma come un semplice cimitero di montagna, magari uno di quelli, come avviene ad Antagnod o a Gressoney-Saint-Jean, addossati alla chiesa parrocchiale. Scontato evocare quella "Antologia di Spoon River", la raccolta di poesie che il poeta statunitense Edgar Lee Masters pubblicò tra il 1914 e il 1915 sul "Mirror di St. Louis". Ogni poesia - che poi compose il libro - riguardava, in forma di epitaffio, la vita di una delle persone sepolte in questo cimitero di un paesino di fantasia del Midwest statunitense.

Per me questo è un modo immaginario e domestico per avere una sorta di dovere della memoria personale, non legato cioè a grandi avvenimenti del passato, ma a persone di tutti i generi che ho conosciuto e che mi avevano colpito per varie ragioni quando le ho conosciute e poi - nella crudeltà cui rassegnarsi insita nella morte che ce li porta via - non ci sono state più. Su questo aveva scritto una bella poesia il poeta russo Evgenij Aleksandrovič Evtušenko, morto proprio in queste ore. «Non esistono al mondo uomini non interessanti. I loro destini sono come le storie dei pianeti. Ognuno ha la sua particolarità e non ha un pianeta che gli sia simile. E se uno viveva inosservato e amava questa sua insignificanza, proprio per la sua insignificanza egli era interessante tra gli uomini. Ognuno ha il suo segreto mondo personale. In quel mondo c'è l'attimo felice. C'è in quel mondo l’ora più terribile, ma tutto ci resta sconosciuto. Quando un uomo muore, muore con lui la sua prima neve, e il primo bacio e la prima battaglia... Tutto questo egli porta con sé. Rimangono certo i libri, i ponti, le macchine, le tele dei pittori. Certo, molto è destinato a restare, eppur sempre qualcosa se ne va. E' la legge di un gioco spietato. Non sono uomini che muoiono, ma mondi. Ricordiamo gli uomini, terrestri e peccatori, ma che sapevamo in fondo di loro? Che sappiamo dei fratelli nostri, degli amici? Di colei che sola ci appartiene? E del nostro stesso padre tutto sapendo non sappiamo nulla. Gli uomini se ne vanno... e non tornano più. Non risorgono i loro mondi segreti. E ogni volta vorrei gridare ancora contro questo irrevocabile destino».

Certo, è davvero così e ci tocca serbare i ricordi, che sono una parte essenziale di noi. Questo stesso dovere dovrebbero averlo anche le comunità. Noto, sfogliando mentalmente il mio cimitero immaginario, come ci siano molte persone meritevoli di essere ricordate dalla Valle d'Aosta tutta intera e dalle sue Istituzioni. Ma questo ormai avviene raramente, in modo casuale e mai organizzato: come se la smemoratezza del passato e l'affanno sul presente fossero un segno dei tempi cui capitolare, dimenticando anche chi delle generazioni precedenti ha lasciato un segno. E ciò meriterebbe un collettivo esame di coscienza per evitare di incorrere in quale sorta di maledizione così sintetizzata da Cesare Pavese: «Quando un popolo non ha più senso vitale del suo passato si spegne».