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15 feb 2016

Capire le "belle statuine"

di Luciano Caveri

Ci sono giorni in cui lo sguardo è indeciso se guardare vicino o lontano. Di fronte a passaggi politici, al posto di farsi impantanare nella melma e nel tentativo di far diventare discorsi di principio questioni di simpatia o di antipatia personale, non è male astrarsi e guardare la situazione da una prospettiva più larga, che aiuti a capire. Ogni tanto nelle mie reazioni sono sanguigno (mi monta la carogna), ma nel tempo ho imparato che vale di più la pena di capire in profondità ed è bene fare la fatica di smontare certi meccanismi illuminanti sui perché e sulle concatenazioni fra causa e effetto. Giocare alle "belle statuine" era un divertimento infantile: vinceva chi nella fissità mimava la posizione e l'espressione più buffa.

In realtà poi l'espressione «fare le belle statuine» è entrata nell'uso familiare a significare quando si resta inattivi, appunto fermi, anche se ci sarebbe da lavorare o più in generale da darsi da fare. L'espressione mi viene in mente tutte le volte in cui ragiono sul crescente astensionismo in occasione delle elezioni. Ne ho scritto tante volte: un fenomeno che tende in Italia e anche in Valle d'Aosta ad espandersi con molte motivazioni sottostanti e rispetto al quale non sembra esserci la giusta attenzione, come se per questa sorta di virus contagioso non ci fosse vaccino e dunque la linea della muta rassegnazione avesse giocoforza la meglio. Ma la ragione più forte - inutile girarci attorno - è la considerazione dello scarso valore del proprio voto, considerato da chi non va più alle urne come un vuoto a perdere. Una sconfitta per la democrazia rappresentativa e un grave monito per i partiti ormai in crisi perenne, specie quando dimostrano di scostarsi dallo stesso mandato degli elettori, spesso disatteso attraverso la politica delle alleanze mutevoli nel nome della "Realpolitik". Così molti cittadini si trasformano in belle statuine e non lo fanno solo rispetto al diritto/dovere di voto, ma anche rispetto alla militanza politica, ridotta al lumicino. Qualcosa si muove - cinesi compresi, come si è visto a Milano - quando ci sono votazioni per le "Primarie" per scegliere candidati o quando ci sono votazioni topiche per i destini delle forze politiche in cui necessitano quelle che ironicamente si definiscono "truppe cammellate", cioè gruppi di ignari ma partecipanti che servono a votare bovinamente alla bisogna. Oggi la formula "belle statuine" rischia di applicarsi anche al destino istituzionale e politico dei valdostani. Ci sono stati per me anni di impegno politico in cui, in certi passaggi parlamentari a Roma o a Bruxelles, non mi sentivo, com'ero nei numeri, da solo in una grande Assemblea. Mi sentivo, prescindendo dalle mie capacità, come un "Generale" con tante truppe al seguito e non un "Comandante" che, giratosi al momento opportuno sul campo di battaglia, si accorgesse di essere all'assalto rimasto da solo la sua sciabola in pugno di fronte ai nemici. Sarà una semplificazione che fa sorridere, ma fotografa un mio stato d'animo: l'astensionismo non è solo il gesto con cui si abbandona la cabina elettorale e i meccanismi conseguenti della rappresentanza politica, come meccanismo di funzionamento delle istituzioni, ma lo è anche quando certi temi - nel caso valdostano la complessa e dinamica vicenda dell'autonomia speciale - finiscono per finire nelle attenzioni in fondo all'elenco nelle "varie e eventuali". Senza neppure usare il termine astensionismo nel suo significato politico (dall'inglese "abstensionism" nato nella culla del parlamentarismo del Regno Unito), va vista direttamente l'etimologia dal latino "se abstĭnēre", tenersi lontano. Questo tenersi lontano obbliga a riflessioni e risulta alla fine inutile fare come fanno certi parroci che si lamentano durante la messe degli assenti alla funzione con chi c'è e non ne può nulla, ma sarebbe ora di scavare più a fondo con gli interessati che hanno cessato il loro impegno civico.