January 2023

Il Capodanno ottimista e quello pessimista

Eccoci al 2023. Siamo a Capodanno, festività erede di mille storie dell’umanità, legate all’osservazione dei ciclo stagionale con i conseguenti riti per l'inizio di un nuovo anno e tutto ciò nella logica di una sorta di rinascita della natura e di conseguenza di noi esseri umani.
Per i Romani non caso Gennaio era dedicato a Giano, il dio bifronte che guarda indietro, ossia alla fine dell'anno trascorso, e avanti, ossia all'inizio del nuovo anno.
Mentre il nostra Natale e le festività complessive di questo periodo nascono sulle ceneri dei festeggiamenti in onore del dii Saturno. Durante i Saturnalia di dicembre i padroni cucinavano per gli schiavi e servivano loro suntuosi banchetti. Era il periodo dei contrari, con i servi nel ruolo dei padroni, le donne in quello degli uomini, i bambini al posto degli adulti. Semel in anno licet insanire "una volta l'anno è lecito impazzire": erano le eccezioni che confermavano le regole, perché ogni cosa nei giorni seguenti potesse andare avanti come prima. Interessante gioco dei ruoli.
Questa notte appena trascorsa - a proposito: auguri per il nuovo anno! - è chiamata di San Silvestro in onore del Santo dell’ultimo giorno dell’anno. Era stato un Papa, il 33° vescovo della città di Roma, morto a Roma il 31 dicembre del 335. È sotto il suo pontificato che la Roma pagana lasciò il posto a quella cristiana, pur conservando - come ricordavi poco fa - alcuni riti e cerimonie. Fra questo appunto i bagordi che ci hanno portato sino a Mezzanotte.
Questa mattina, invece, niente Santo, ma per i cattolici la festività dedicata a Maria Santissima Madre di Dio. Segno sul calendario di antiche dispute teologiche che fra chi riteneva che la Madonna non fosse «madre di Dio», ma solo «madre di Gesù». La controversia. vinta da chi rigenera buona la prima teoria, avvenne tra Alessandria ed Antiochia e fu risolta nel Concilio di Efeso nel 431. Lo scrivo per ricordare come la nostra vita sia un battibaleno ma con radici antiche di cui avere consapevolezza.
Mi presento al cospetto del nuovo anno senza pregiudizi. Conscio però che non viviamo momenti facili. Nel grande delle cose che incombono ricordo, se mai ce ne fosse bisogno, la tragedia della guerra in Ucraina che avvelena tutto e la ripartenza della pandemia, segnalata dallo stesso Governo Meloni, che invita alla prudenza (“pandemia imprevedibile” è stata così definita) e in contemporanea far rientrare i sanitari NoVax, come se nulla fosse. Operazione all’italiana che lascia perplessi.
Sulla piccola nave valdostana, in questo mare in tempesta, l’anno inizia con le solite discussioni politiche sul rafforzamento della governabilità, che ormai hanno sfinito chiunque. Taccio sulla riunificazione del mondo autonomista, che ritengo indispensabile proprio in questo anno, ma non mi azzardo più a fare il chiromante per non fare brutta figura e per non apparire “vox clamantis in deserto”, come si dice di una persona i cui consigli rimangono inascoltati.
Naturalmente, ma lo annoto a margine, a dispetto dei molti problemi e delle tante preoccupazioni, resto - anche se messo a dura prova - un inguaribile ottimista, che spera per questo di non essere considerato ottuso.
Per altro combatto i pessimisti con il necessario garbo, perché - come scrisse George Bernard Shaw - “Sia l’ottimista che il pessimista danno il loro contributo alla società. L’ottimista inventa l’aeroplano, il pessimista il paracadute”.

Il messaggio di Mattarella

Il discorso di fine anno del Presidente della Repubblica è un classico, pur non essendo statuito in nessun modo.
Il primo lo pronunciò via radio nel 1949 Luigi Einaudi e fu molto breve.
Nel tempo, come ha scritto Openpolis in uno studio comparativo fra i discorsi dei Presidenti che si sono succeduti, alcune cose si sono evolute: “Mentre i discorsi diventavano man mano più lunghi, la loro struttura andava semplificandosi, sia nella lunghezza delle frasi sia nel linguaggio. Se il primo discorso di Einaudi iniziava con «Nel rigoglio di intimi affetti suscitato da questa trasmissione […]» il discorso di Scalfaro del 1992 apriva con un molto più informale «Buona sera a tutti, Buon anno!»”.
Certo ogni Presidente ha aggiunto elementi derivanti dalla propria personalità e anche dalla capacità di “bucare” il video, visto l’avvento della Televisione. Mentre in Paesi dove vige il presidenzialismo (pensiamo alla Francia) il ricorso a discorsi alla Nazione sono consueti per i Capi di Stato, gli inquilini del Quirinale hanno usato questa modalità di rapporto diretto solo alla fine di ogni anno o
in casi eccezionali.
In questo momento complesso, il Presidente Sergio Mattarella, con il suo eloquio tranquillo e rassicurante (ma l’uso di un gobbo elettronico lo rendeva assai ingessato), non è stato banale e vorrei citare i passaggi che più mi hanno colpito.
Il primo: “Nell’arco di pochi anni si sono alternate al governo pressoché tutte le forze politiche presenti in Parlamento, in diverse coalizioni parlamentari. Quanto avvenuto le ha poste, tutte, in tempi diversi, di fronte alla necessità di misurarsi con le difficoltà del governare. Riconoscere la complessità, esercitare la responsabilità delle scelte, confrontarsi con i limiti imposti da una realtà sempre più caratterizzata da fenomeni globali: dalla pandemia alla guerra, dalla crisi energetica a quella alimentare, dai cambiamenti climatici ai fenomeni migratori.
La concretezza della realtà ha così convocato ciascuno alla responsabilità. Sollecita tutti ad applicarsi all’urgenza di problemi che attendono risposte. La nostra democrazia si è dimostrata dunque, ancora una volta, una democrazia matura, compiuta, anche per questa esperienza, da tutti acquisita, di rappresentare e governare un grande Paese. È questa consapevolezza, nel rispetto della dialettica tra maggioranza e opposizione, che induce a una comune visione del nostro sistema democratico, al rispetto di regole che non possono essere disattese, del ruolo di ciascuno nella vita politica della Repubblica. Questo corrisponde allo spirito della Costituzione. Domani, primo gennaio, sarà il settantacinquesimo anniversario della sua entrata in vigore. La Costituzione resta la nostra bussola, il suo rispetto il nostro primario dovere; anche il mio”.
Il secondo: “Il 2022 è stato l’anno della folle guerra scatenata dalla Federazione russa. La risposta dell’Italia, dell’Europa e dell’Occidente è stata un pieno sostegno al Paese aggredito e al popolo ucraino, il quale con coraggio sta difendendo la propria libertà e i propri diritti. Se questo è stato l’anno della guerra, dobbiamo concentrare gli sforzi affinché il 2023 sia l’anno della fine delle ostilità, del silenzio delle armi, del fermarsi di questa disumana scia di sangue, di morti, di sofferenze”.
Il terzo: “Dal Covid - purtroppo non ancora sconfitto definitivamente – abbiamo tratto insegnamenti da non dimenticare. Abbiamo compreso che la scienza, le istituzioni civili, la solidarietà concreta sono risorse preziose di una comunità, e tanto più sono efficaci quanto più sono capaci di integrarsi, di sostenersi a vicenda. Quanto più producono fiducia e responsabilità nelle persone. Occorre operare affinché quel presidio insostituibile di unità del Paese rappresentato dal Servizio sanitario nazionale si rafforzi, ponendo sempre più al centro la persona e i suoi bisogni concreti, nel territorio in cui vive”.
Il quarto: “So bene quanti italiani affrontano questi mesi con grandi preoccupazioni. L’inflazione, i costi dell’energia, le difficoltà di tante famiglie e imprese, l’aumento della povertà e del bisogno. La carenza di lavoro sottrae diritti e dignità: ancora troppo alto è il prezzo che paghiamo alla disoccupazione e alla precarietà. Allarma soprattutto la condizione di tanti ragazzi in difficoltà. La povertà minorile, dall’inizio della crisi globale del 2008 a oggi, è quadruplicata. Le differenze legate a fattori sociali, economici, organizzativi, sanitari tra i diversi territori del nostro Paese – tra Nord e Meridione, per le isole minori, per le zone interne - creano ingiustizie, feriscono il diritto all’uguaglianza”.
“Zone interne”, per capirci, è la definizione, purtroppo brutta, che comprende in particolare le zone di montagna.
Seguono il riconoscimento della Repubblica delle autonomie, il ruolo del l’associazionismo, il ruolo della famiglia e un passaggio successivo ha colpito nel Paese delle me azione fiscale: “La Repubblica è nel senso civico di chi paga le imposte perché questo serve a far funzionare l’Italia e quindi al bene comune”.
Detto dei problemi del lavoro, dello studio, dell’economia, dell’innovazione, dell’Europa e altro ancora, il Presidente ha così concluso dall’alto dei suoi 81 anni: “non Dobbiamo imparare a leggere il presente con gli occhi di domani. Pensare di rigettare il cambiamento, di rinunciare alla modernità non è soltanto un errore: è anche un’illusione. Il cambiamento va guidato, l’innovazione va interpretata per migliorare la nostra condizione di vita, ma non può essere rimossa. La sfida, piuttosto, è progettare il domani con coraggio. Mettere al sicuro il pianeta, e quindi il nostro futuro, il futuro dell’umanità, significa affrontare anzitutto con concretezza la questione della transizione energetica. L’energia è ciò che permette alle nostre società di vivere e progredire. Il complesso lavoro che occorre per passare dalle fonti tradizionali, inquinanti e dannose per salute e ambiente, alle energie rinnovabili, rappresenta la nuova frontiera dei nostri sistemi economici. (…) . L’uso delle tecnologie digitali ha già modificato le nostre vite, le nostre abitudini e probabilmente i modi di pensare e vivere le relazioni interpersonali. Le nuove generazioni vivono già pienamente questa nuova dimensione. La quantità e la qualità dei dati, la loro velocità possono essere elementi posti al servizio della crescita delle persone e delle comunità. Possono consentire di superare arretratezze e divari, semplificare la vita dei cittadini e modernizzare la nostra società. Occorre compiere scelte adeguate, promuovendo una cultura digitale che garantisca le libertà dei cittadini.
Il terzo grande investimento sul futuro è quello sulla scuola, l’università, la ricerca scientifica”.
Molti temi, tante sollecitazioni e anche speranze, specie laddove si è rivolto direttamente ai giovani. Un discorso serio in un tempo di troppi bla bla.

L’aeroporto e le “voci”

Tanti anni fa e mi servì da lezione lessi su "Le Monde" un articolo assai interessante e profetico, perché pienamente confermato nel tempo, che riguardava i Social e la loro influenza su di noi. Spiegava come una parte della massa del Web venisse abbacinata con contenuti e toni populisti e demagogici con grande abilità e capacità persuasiva. Le connessioni in Rete sono potenti e persuasivi altoparlanti delle balle e delle menzogne. Ne abbiamo visto i risultati e ancora oggi è difficile trovare delle contromisure che contemperino principi di libertà e la necessità di combattere certa propaganda.
Personalmente l’ho vissuto sulla mia pelle con le storie inventate sull'aeroporto valdostano, dedicato a Corrado Gex che fu tra i precursori, diventato nella vulgata - grazie ad alcuni diffusori di notizie farlocche - un esempio di spreco massimo, quando invece certi errori e ritardi ci sono stati solo perché, quando già non ne avevo più responsabilità, ci sono stati goffaggine e incapacità nel gestire il dossier. Venne di fatto bloccato il "master plan aeroportuale", frutto di studi approfonditi e di accordi con lo Stato - che ha finanziato gran parte dei lavori - passati al vaglio di tavoli tecnici e di esperti del settore, sanciti dal Consiglio regionale e non frutto di miei sogni di gloria, di cui mi sfuggirebbe la ragione. Non sono mica matto!
Per cui, se e l'aerostazione firmata dalla grande architetto Gae Aulenti sembra un rudere, la cui costruzione finalmente ripartirà nelle prossime settimane e ne sono entusiasta, ci sono responsabilità precise, ma non certo le mie se siamo giunti quasi a un punto di "non ritorno".
Se si fosse rispettato il cronoprogramma nella successione degli interventi, oggi il piccolo scalo valdostano, completati per tempo i lavori dell'aerostazione, funzionerebbe nei suoi diversi compiti. Un numero ridotto e ragionevole di collegamenti commerciali, specie charter per gruppi turistici e il solito volo per Roma (la Valle d’ Aosta venne inserita nei vantaggi della continuità territoriale), senza escludere velivoli "vip" per clientela di rango; i voli turistici degli Aeroclub, in particolare quelli con l'aliante, che scelgono la Valle per salire in alta quota e in mezzo alle montagne; una base per la protezione civile (con l'attigua nuova caserma dei Vigili del Fuoco, cui si è stupidamente rinunciato); gli elicotteri, caposaldo anche per il soccorso in montagna e per certa sanità di emergenza. "Agusta" di Finmeccanica era pronta ad aprire una scuola per piloti di elicotteri di montagna, progetto abbandonato anche in questo caso senza ragioni, se non la stupidità irresponsabile.
L'aeroporto, con pista allungata e illuminata e con i sistemi di radioassistenza ormai completati, garantisce un uso plurimo, che dotava la Valle di una struttura importante, pensando che in tutta Europa operano scali di terzo livello e pensando al rango e al ruolo della nostra Regione. L’evoluzione tecnica, ad esempio con il satellitare, e l’impulso nel settore aeronautico (droni compresi) offrono nuove e interessanti possibilità future.
Gli studi compiuti e ancora disponibili, fatti da esperti del settore, dimostrano le potenzialità e sostanziano il fatto che non si trattasse di un salto nel buio. Si aggiunga come l'alluvione del 2000, senza strade percorribili per uscire ed entrare dalla Valle e con la ferrovia spazzata via in certi tratti, dimostrò quanto risultasse prezioso un aeroporto funzionante. Ma alcuni hanno la memoria corta.
Sul progetto, compresi gli aspetti finanziari e gestionali, si discusse numerose volte in Consiglio Valle e l'esito fu una condivisione. Oggi noto che non tutti se lo ricordano. Per cui fa sorridere che un percorso politico e amministrativo chiaro oggi diventi una specie di progetto personalistico.
Sottolineo questa storia della strategicità dell'aeroporto in caso di gravi emergenze. Quando ci fu l'alluvione del 2000 risultammo isolati per strade, trafori e ferrovia: il solo legame con l'esterno fu, per elicotteri e aerei, il "Corrado Gex" ed è bene ricordarlo. Sul ruolo essenziale in quella circostanza ricordo bene - ero deputato - le parole dell'allora capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, che mi disse quanto ci dovessimo tener stretto e attrezzare ancora meglio il nostro aeroporto.

Addio alla conversazione

Conversare è un piacere della vita. Certo dipende dalle situazioni e dagli interlocutori. Diceva lo scrittore André Maurois: “La conversazione è un edificio al quale si lavora in comune. Gli interlocutori devono sistemare le loro frasi pensando all'effetto d'insieme, come fanno i muratori con le pietre.”
Esisteva un tempo e io l’ho vissuto in un viaggio in aereo o in treno parlando con chi mi era vicino, piuttosto che in una sala d’attesa di un medico o in un pranzo conviviale. Parlare con altre persone era l’assoluta normalità e faceva parte della normalità. Un piacere, che creava persino amicizie inaspettate.
Oggi non è più così e si perde di conseguenza uno degli aspetti fondativi dei rapporti umani e sociali.
David Le Breton, sociologo e antropologo, ne ha scritto su Le Monde.
Così inizia: “Dans le monde contemporain de l’hyperconnexion, les conversations qui sollicitent un face-à-face ou plutôt un visage-à-visage, une écoute, une attention à l’autre, à ses expressions, deviennent rares, de même le tact qui les nourrissait. Souvent, en effet, elles sont rompues par des interlocuteurs toujours là physiquement, mais qui disparaissent soudain après l’audition d’une sonnerie de leur portable ou dans le geste addictif de retirer ce dernier de leur poche dans la quête lancinante d’un message quelconque qui rend secondaire la présence bien réelle de leur vis-à-vis.
Ils regardent ailleurs et quittent l’interaction, abandonnant là leur interlocuteur qui reste les bras ballants, en se demandant que faire de ce temps d’effacement de la présence, ce moment pénible où on l’a éteint en appuyant sur la touche « pause » de l’existence“.
Questa sparizione vera e propria ha implicazioni familiari che emergono in modo macroscopico in periodo festivo, quando le occasioni mondane sono superiori e si riflette anche nella sfera più intima.
Ancora Le Breton: ”Même le repas de famille, autrefois haut lieu de transmission et de retrouvailles, tend à disparaître. Chacun arrive à son heure et va chercher à la cuisine les plats achetés tout prêts au supermarché avant de s’abandonner à son écran personnel. Dans nombre de familles, le repas est une assemblée cordiale de zombies qui mangent d’une bouche distraite, peu attentifs au goût des aliments, dans l’indifférence à la proximité des autres, tous absorbés par leur cellulaire ou leurs écrans divers”.
Non solo adulti, ma anche bambini che non giocano più fra loro, vittime di una sorta di spegnimento legato all’uso di un telefonino o di un tablet, alienante baby sitter del nuovo millennio.
Guardate coppie o gruppi di amici o colleghi a tavola, chiusi nella loro dimensione virtuale: ”Les restaurants renvoient la même image d’hommes ou de femmes qui, après de brèves minutes de congratulations mutuelles, disparaissent rapidement derrière leur portable. Ils sont autour de la même table, mais seuls, les yeux captifs de leur écran, dans l’oubli de ce qu’ils mangent et du fait qu’ils sont censés être entre amis ou collègues. La conversation est en voie de disparition, vestige archaïque d’un temps révolu ».
Siamo zombie anche per strada e ci stupisce l’interruzione di chi ci domandi un’informazione o un amico che ci fermi per salutarci, mentre siamo immersi nello schermo del nostro apparato.
Ancora Le Breton: ”Nous entrons en ce sens dans une société fantomatique où, même dans les rues, les yeux sont baissés sur l’écran dans un geste d’adoration perpétuelle, et non plus ouverts sur le monde environnant. La plupart de nos contemporains sont aujourd’hui presque en permanence prosternés devant leur portable qui les pousse en avant ou les maintient dans une sorte d’hypnose sans fin qui les coupe de leur environnement immédiat. Ils parlent seuls, commentant souvent leurs faits et gestes. Ce qu’ils disent importe finalement peu”.
Siamo ad una trasformazione fisica e mentale con cui il sociologo chiude la sua riflessione: ”Le portable est devenu partout autour de nous un cinquième membre, encore plus ou moins détachable avant qu’il ne soit greffé à une main ou à une oreille. On n’a jamais autant communiqué, mais jamais aussi peu parlé ensemble.(…) Ce recours hypnotique au portable ajoute encore à l’hyperindividualisation de nos sociétés, il renforce l’indifférence aux autres autour de soi que l’on heurte parfois sur le trottoir tant l’attention est captive de l’écran. Chacun désormais tend à faire un monde à lui tout seul. La réciprocité du visage-à-visage dans la respiration de l’échange devient une exception”.
Infine, come non condividere? ”Avant l’arrivée des techniques modernes de communication, et notamment le téléphone cellulaire ou Internet, les gens se parlaient à la table familiale, au travail lors des pauses, au restaurant, dans les cafés, les transports en commun, sur le chemin du travail ou du domicile. Souvent, aujourd’hui, le téléphone en main, chacun, autour de la table ou en marchant avec les autres, consulte ses mails ou envoie un SMS, en distribuant les miettes de quelques mots de temps en temps comme pour rappeler aux autres qu’ils existent quand même malgré la parenthèse, mais ils pourraient très bien ne pas être là. La connexion prend le pas sur une conversation renvoyée à un anachronisme”.
Triste destino e sfuggono, senza fare troppi piagnistei, le soluzioni concrete per spezzare la bolla dentro cui siamo spesso prigionieri per nostra stessa responsabilità.

Casinò: soddisfazione e prudenza

Il buon risultato economico per il Casino de la Vallée nel 2022 è incoraggiante per il suo futuro. Lo accolgo, avendone seguito da vicino le vicende per la delega che ho avuto sulle Partecipate, con soddisfazione, pur mantenendo la prudenza necessaria.
Nel 2024 scadrà il concordato, che si ottenne con qualche difficoltà, e che ha condizioni finanziarie nella sua applicazione molto pesanti e da qui ad allora bisognerà mantenere tutte le attenzioni necessarie, senza sbandamenti, per restare in carreggiata.
Il periodo pandemico aveva creato enormi apprensioni e oggi i costi energetici restano una grave minaccia e ed è bene tenere conto sempre sotto controllo il costo del lavoro. Ci vorrà da parte di tutti senso di responsabilità, facendo tesoro degli errori del passato, che portarono ad un pelo dal fallimento, avendo qualcuno scelto consapevolmente di non raccontare la verità sullo stato di difficoltà del Casinò.
Credo di essere fra coloro che conoscono meglio l’ormai lunga storia della Casa da gioco dal 1947 ad oggi. Un percorso costellato da momenti gloriosi e da grandi risultati, ma anche da periodi complessi in gran parte legati a vicende giudiziarie con coinvolgimento della politica con esiti spesso ben diversi dalle prime prospettazioni accusatorie con clamore mediatico.
Intendiamoci: un Casinò non è un convento delle orsoline e bisogna giustamente sempre mantenere tutte le attenzioni necessarie. Il gioco d’azzardo, ormai base importante delle finanze italiane (lo scrivo contro certe ipocrisie), è attività da vigilare e un Casinò, con la sua rete di controlli, è certo più sicuro di altre attività.
Certo nel tempo molto è cambiato anche a Saint-Vincent. Sono stato testimone di questi cambiamenti, soprattutto di clientela (dal lusso alla massa), e ho conosciuto i diversi protagonisti delle differenti stagioni, cominciando dai ricordi di bambino del conte Gabriele Cotta, figura carismatica della prima e lunga gestione privata. Sono poi sfilate molte altre personalità, che ho conosciuto, nel bene e nel male, prima come giornalista e poi come politico.
Oggi la gestione è pubblica e venne decisa a tutela del futuro del Casinò. Ho già detto - e figura nei documenti di programmazione approvati dal Consiglio Valle - che è ora di esaminare, in coerenza con certi ragionamenti della sezione di controllo della Corte dei Conti in una sua recente relazione, possibili strade diverse dal pubblico. Va fatto con opportuni approfondimenti giuridici e economici, che consentano scelte oculate.
Per Saint-Vincent e per la Valle il Casinò, con buona pace di chi in passato ne predicò la chiusura e ben ricordo chi lo disse, resta una risorsa importante, a condizione che ci sia una gestione sana e si allontanino logiche clientelari che mai fanno del bene dovunque si manifestino.
Vorrei anche segnalare lo spirito di sacrificio dei dipendenti, che hanno dovuto rivedere i loro stipendi, e questo è avvenuto grazie all’atteggiamento collaborativo dei Sindacati, che sono stati informati per filo e per segno sulle prospettive future.
Aggiungerei ancora due questioni. La prima: sarebbe bene, al di là della legittima concorrenza fra di loro, che le quattro Case da gioco facessero un’azione comune per ricordare il loro ruolo ad uno Stato abnorme biscazziere del gioco d'azzardo. Un esempio concreto: togliere il divieto di pubblicità oggi vigente per le Case da gioco, quando si consente a tutte le altre forme di organizzazione del gioco di poterlo fare.
Secondo tema: cresce una consapevolezza di un rischio di invecchiamento dei giochi offerti dalla Casa da gioco e la necessità di capire cosa vogliano i giovani, ipnotizzati dai videogiochi. Oggi bisogna trovare strade nuove e più appetibili, lavorando anche con Saint-Vincent e Comuni limitrofi per ridare brio all’offerta del territorio che attiri la clientela, al di là delle sale da gioco. Non si può vivere di nostalgie dei tempi d’oro, ma bisogna trovare nuovi equilibri per rinnovare, partendo da una situazione solida.

La sceneggiata sull’autonomia differenziata

La triste impressione è che in troppi parlino dell’autonomia differenziata, prevista dall’articolo 116 della Costituzione a beneficio delle Regioni a Statuto ordinario, senza conoscere quanto scritto nella norma inapplicata.
In particolare questo vale per esponenti politici del Sud, che si scagliano con veemenza contro questa possibilità che il Nord ”cattivo” vorrebbe usare contro il Sud ”poverino”.
Un insopportabile piagnisteo che farebbe vergognare i padri nobili del meridionalismo e che dimostra l’adesione a un vecchio statalismo.
Chi conosce il cattivo uso dei fiumi di denaro europeo nel Mezzogiorno e guarda con stupore i finanziamenti del PNRR, che sono stati dirottati ampiamente al Sud senza esatti criteri di ripartizione, potrebbe stupirsi di certe lagne.
Più autonomia significa più responsabilità per la politica locale e regionale. Ma esiste un vecchio vizio centralista di chi preferisce vivere all’ombra di Roma e riprendere il vecchio e pericoloso vizio della lite Nord-Sud, che non porta da nessuna parte. Finisce per essere un comodo “divide et impera” per chi vuole accentrare sullo Stato poteri e competenze, tenendo al guinzaglio Regioni e Comuni, in barba alla Costituzione vigente che prevede l’autonomia differenziata per chi la domandi (lo ha fatto anche la Campania, che ora dice il contrario) e non applicare quanto previsto è un’intollerabile omissione.

Befana e Re Magi!

Sparisce dalla casa l’albero di Natale e ci si accorge come l’attesa spasmodica per il 25 dicembre scompaia con impressionante sveltezza. Arriva tuttavia in coda e a soccorso l’Epifania che tutte le feste le porta via, anche se già rimbombano in certe zone della Valle d’Aosta i rumori carnevaleschi. La ruota gira…
Da me ci sono due manovre. La prima profana: appare - a riempire le calze d’ordinanza - la Befana, personaggio adoperato dal fascismo per la creazione di un immaginario culturale, nutrito appunto da figure aggreganti, a favore del processo di identità nazionale, in quella logica laica nazionalpopolare che aveva in fondo una venatura anticristiana, presente nel confuso background politico di Benito Mussolini, che aveva messo nel suo progetto, frutto di un caso sfortunato per
l'Italia, mille cose confuse come lo era lui. Chi ne prova nostalgia merita di ricevere il carbone, non a caso nero…
"Befana" deriva da leggende degli Appennini e la definizione nasce, nella solita confusione del sovrapporsi delle tradizioni, da una storpiatura di "Epifania". Parola che, a sua volta, passa dal greco al latino "epiphanīa", appunto "manifestazione di Gesù ai Re Magi", derivata appunto dal greco "epipháneia, manifestazione, apparizione", derivazione a sua volta di "epiphaínomai, mostrarsi, apparire". Vogliamo pensare che dedichiamo la Befana 2023, in modo beneaugurante in quanto donna di carattere, alle donne iraniane che con coraggio hanno acceso una miccia contro il potere teocratico degli Ayatollah?
La seconda manovra è l’apparizione, anche nel mio presepe, proprio dei Magi, personaggi invero piuttosto misteriosi, ma - pensate alla combinazione - che secondo la tradizione partirono dalla PERSIA, odierno IRAN, teatro oggi di violenze gravi e tetre del regime al potere.
In verità nei Vangeli sinottici, quelli "ufficiali", solo quello di Matteo afferma che «Gesù nacque a Betlemme di Giudea al tempo del re Erode. Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandarono...». Il plurale adoperato chiarisce che fossero più di uno, ma senza precisarne il numero e non si dice altro.
Qualcosina di più emerge nei Vangeli apocrifi, dove i Magi appunto sono tre e portano i celebri doni: oro, incenso e mirra e spunta la questione, ricca di misteri scientifici, della stella cometa che annunciò loro la Natività. E spuntano pure i nomi di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre (quello di colore), anche se i milanesi li chiamavano - a complicare la storia - con i nomi di Rustico, Eleuterio e Dionigio.
Cosa c'entra Milano? Nel 325 dopo Cristo a Costantinopoli, Eustorgio, quando venne nominato vescovo di Milano, ricevette le reliquie dei Magi dall'imperatore Costantino e queste reliquie - improbabili come buona parte dei "resti" dei Santi - furono oggetto nella città meneghina di grande devozione, fino a quando nel 1162 Federico Barbarossa, come bottino di guerra, decise di spostare a Colonia i resti mortali dei Magi.
Reliquie che scomparvero dopo i bombardamenti alleati su Colonia alla fine della seconda guerra mondiale, che investirono anche il duomo della città. Un tassello nel puzzle dei misteri e della difficile simbolistica legata ai Magi.
Oggi ci serve a rievocare gli orrori delle guerre del passato, senza dimenticare la guerra attuale in Ucraina con l’ipocrisia del dittatore Putin, assalitore e invasore di uno Stato sovrano, che in queste ore aveva lanciato la proposta beffarda di una tregua dalle 12 del 6 gennaio alle 24 del 7 per il Natale ortodosso, dicendosi ispirato dal suo degno compare, il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, Kirill, che in questo anno ha assecondato il folle progetto del dittatore russo, sporcandosi le mani di sangue. Che non abbiano il coraggio di parlare di Pace!

Gli agit prop

"Ne pas céder aux professionnels de la peur". Questa espressione di Emanuel Macron, Presidente della Repubblica francese, mi è molto piaciuta ed era riferita a certe furiose polemiche scaturite dalla riforma pensionistica in discussione in questi giorni in Francia.
Questa evocazione dei “professionisti della paura” è del tutto convincente. Ne incontro tutti i giorni: sono i catastrofisti che vedono il male dovunque, senza distinzioni. E questo non ha nulla a che fare con le critiche giuste o le denunce fondate. Anche in Valle d’Aosta non viviamo nel migliore dei mondi possibili.
Ogni giorni io stesso cerco, nei campi di cui mi occupo, di mettere a posto cose che non funzionano o fare in modo che si rivolvano bene certi problemi.
Incontrando cittadini che abbiano ragioni di protesta o preoccupazioni fondate, aumenta la consapevolezza di chi ha responsabilità e non deve nascondere come uno struzzo la testa sotto la sabbia o difendere l’indifendibile.
Ma questo non ha nulla a che fare con chi le proteste le crea e le alimenta in modo pretestuoso e ripetitivo, occupandosi di tutto lo scibile umano con una militanza ossessiva e compulsiva. Chi così si comporta, per partito preso e nella spasmodica logica di occupazione di spazi, merita disistima e compatimento, per non dire di peggio.
Già viviamo in un mondo difficile in un periodo complesso e se ci aggiungiamo chi complica lo scenario e strumentalizza le situazioni non facciamo altro che peggiorare la situazione. Spunta così dal passato una vecchia definizione sempreverde, così riassunta da Treccani: “aġ’ìt pròp: locuz. russa [abbreviazione del sostantivo agitacija «agitazione» e propaganda, con il significato di «sezione per l’agitazione e la propaganda» (nei Comitati del partito comunista sovietico)”.
In italiano è diventato àǧit pròp›) e cioè agitatore e propagandista politico.
Tutto, insomma, viene piegato da costoro a logiche di parte e ad una visione ideologica che serve a proprio uso per caricare i propri militanti e creare sacche di protesta da attrarre nella propria area politica. Si perde la logica democratica del confronto, cavalcando qualunque tipo di protesta e anzi gettando benzina sul fuoco piuttosto che cercando soluzioni o mediazioni alle questioni.
Diceva George Orwell: “La propaganda è veramente un’arma, come i cannoni o le bombe, e imparare a difendersene è importante come trovare riparo durante un attacco aereo”.
Mentre Simone Weil aggiungeva: “Lo scopo manifesto della propaganda è la persuasione, non la comunicazione della luce”.
Naturalmente, ma questo l’ho detto mille volte, i Social peggiorano la situazione, consentendo spazi di manovra e di amplificazione un tempo impensabili. Di conseguenza agguerrite minoranze fanno squadrismo e gonfiano le loro truppe in modo organizzato e mirato. Ci vuole poco a fare tendenza e a costruire castelli in aria o ad artefare la realtà, naturalmente ergendosi come paladini della libertà di opinione e atteggiandosi a coraggiosi fustigatori di qualunque cosa capiti loro a tiro.
In democrazia vanno isolati per l’intrinseca pericolosità e per le loro azioni distorsive che nuocciono e per la zizzania che seminano a piene mani.
Specie in momenti che già di per sé stessi obbligherebbero a cercare più ciò che unisce rispetto a quel che divide: si tratta dunque di un’inutile complicazione, che fa perdere tempo ed energie.

Auguri e buoni propositi…

Esiste alla fine delle feste natalizie un certo sfinimento. Ci sono momenti in questo periodo che fanno riflettere.
Alcuni sono problemi davvero classici e perlopiù insoluti, come il rapporto con i parenti con cui ci si ritrova tra molte contraddizioni che infrangono certe retoriche sulla famiglia. Si affianca la constatazione che si mangia e si beve troppo e, finita la festa, ci si sente pronti per un periodo di penitenziate e un pelo ipocrita remise en forme.
Ci si porta poi dietro una certa pesantezza da auguri, nel senso che si viene come travolti da questa bulimia di scambi di vario genere scritti e orali, spesso stucchevoli, così come dal rito improbabile dei buoni propositi per il nuovo anno che si spalanca sotto i nostri piedi.
Illuminante - e ogni tanto la cito - la psicoanalista Claude Halmos su Le Monde,cominciando dagli auguri: “Le fait que cette inflation de bons sentiments soit peu crédible explique sans doute que résolutions et vœux soient devenus des exercices artificiels, et un peu vides de sens, auxquels on peut se soumettre sans pour autant leur accorder d’importance”.
Risponde poi ad una domanda topica ”Faudrait-il supprimer les vœux?”: ”Bien sûr que non! D’autant que l’époque nous donne plus que jamais matière à nous souhaiter bien des choses, et d’abord une capacité accrue de résistance aux difficultés et d’adaptation aux changements. Il faut au contraire leur redonner du sens et en faire l’occasion d’un échange avec l’autre, qui, même très court, puisse être chaleureux et vrai. Et il suffit pour cela de prendre les mots au sérieux.
Dire à quelqu’un « Je vous souhaite une bonne année » – ou du moins la meilleure année possible – suppose qu’à défaut de savoir ce qu’il vit (ce que l’on ignore, s’il n’est pas un proche), on ait présent à l’esprit la réalité, forcément complexe, de sa vie. Et dans ce cas, l’autre le sent, parce qu’un être humain perçoit toujours la vérité d’un regard, d’une parole, d’un geste ou d’un sourire”.
Ci sono poi i buoni propositi su cui la dottoressa Halmos parte anche qui da un interrogativo, che risponde al rischio che poi non si concretizzino ”Faudrait-il donc proscrire les « bonnes résolutions: ”Mais non ! Il peut être très utile de profiter du début de l’année pour établir, entre soi et soi, un plan de bataille contre ce qui, dans notre vie, nous fait – physiquement ou psychologiquement – du mal. Mais il faut savoir comment on le fait.
L’important est d’abord de donner à ce que l’on veut changer un autre statut que celui – dévalorisant – de choses que l’on se reproche, voire dont on a honte, car rien ne le justifie. La façon dont nous vivons est toujours, sans que nous le sachions, le produit de notre histoire. Il ne s’agit donc pas de penser qu’il faudrait faire vingt-cinq ans d’analyse pour ne plus se jeter sur toutes les tablettes de chocolat que l’on rencontre, mais de cesser de se considérer comme un coupable.
Ensuite, il faut établir une stratégie que l’on pense juste, et surtout vivable pour soi, et la mettre en œuvre. Non pas en se coupant en deux pour qu’une partie de soi représente le parent – forcément bon – qui va surveiller l’enfant – forcément mauvais – incarné par l’autre partie. Mais en se faisant, avec affection et respect, le compagnon de soi-même ; un compagnon capable de soutenir et d’aider, sans pour autant juger, humilier, condamner ou rejeter. Parce qu’il sait que la tâche est difficile, qu’échouer n’est pas un crime ; et pas non plus un drame, car on pourra toujours tirer, de cet échec, des leçons qui permettront de continuer à avancer.
En fait, il faut transformer les résolutions en souhaits : se souhaiter de réussir, sans se condamner si l’on échoue. Et ainsi mettre en place un rapport plus humanisé avec soi-même”.
Un proposito…augurale condivisibile!
Poi: chi vivrà vedrà.

Il criminologo, ricordando Lombroso

È così invasiva la loro presenza in televisione che non sarebbe da stupirsi se, opportunamente interrogato su che cosa vorrebbe fare da grande, un bambino di oggi rispondesse: “il criminologo!”.
In effetti, se vi capita di seguire qualche trasmissione che sguazza nella cronaca nera, troverete - come ospite fisso - un/a criminologo/a, che anche a cadavere ancora caldo ricostruisce con facilità intrecci e moventi di un delitto. Il filone è quello ignobile dei processi in televisione, che - anche a fronte di fatti appena capitati e mentre gli inquirenti sono al lavoro - allestiscono per i telespettatori “giurie” di esperti (più bisticciano fra loro e più fanno audience) che “cotto e mangiato” decidono con sentenze improvvisate i destini dei colpevoli veri e presunti.
Si butta via come se nulla fosse qualunque presunzione di innocenza e si due piedi si dispensano condanne o assoluzioni.
Roba da far arrabbiare i criminologi seri - e alcuni di loro vanno anche con cognizione di causa in TV! - che si applicano in una scienza in continua evoluzione, che è in grado oggi davvero di aiutare nei casi più diversi ad avanzare con le indagini. E roba da far impallidire uno dei papà della criminologia, che ha vissuto una vita - pur prendendo strade dimostratesi sbagliate - a suon di ricerca scientifica.
Mi riferisco a Cesare Lombroso, che è possibile incontrare a Torino nel museo a lui dedicato, che ho di recente visitato spinto dalla curiosità.
Lui (1835-1909), medico, antropologo, filosofo, giurista e appunto criminologo italiano lo incontri, come dicevo, di persona poco dopo l’ingresso. A dire il vero è il suo scheletro, visibile dietro un vetro in entrambi i lati. Fu lui a dare questa disposizione di donare il suo corpo alla scienza. D’altra parte era del mestiere e da lì in poi, nelle altre sale, non manca quel materiale su cui lavorò, in particolare numerosissimi crani e le apparecchiature con cui li
misurava per dare concretezza alle sue teorie sui criminali, oltre a foto, disegni e oggetti vari corpi del reato. Nell’ultima sala, dove si ricostruisce il suo studio, una voce narrante racconta con Lombroso in prima persona la sua vita con garbo e modestia e questo, anche se le sue principali teorie sono risultate senza condanne, dimostra la sua personalità di studioso.
Per chi non lo conoscesse come riassumere le sue teorie? Ho trovato uno scritto assai interessante e colto dell’avvocato Mario Pavone su Diritto.net, che anzitutto nobilita la criminologia: ”La criminologia appare oggi come una scienza complessa in quanto è sia teorica (attività speculativa, sistematica e controllabile) che pratica, in quanto tesa a limitare i danni sociali del crimine. Essa include le scienze criminali che studiano i fatti delittuosi dai vari punti di vista (la vittimologia, la politica criminale, il diritto penale, il diritto penitenziario, la psicologia giudiziaria e giuridica, la criminalistica) ed integra molte scienze umane nella propria attività (sociologia, medicina e in specie la psichiatria, pedagogia, psicologia, statistica, ecc.)”.
Dopo un’accurata ricostruzione storica, l’autore di occupa delle scienze ”applicate nello studio dei volti dei criminali vivi o morti in un tentativo di spiegare l’inclinazione al crimine attraverso la lettura di caratteristiche somatiche ataviche” e ovviamente di Lombroso: ”La sublimazione della fisiognomica allo studio della criminalità avvenne, tuttavia, d opera di Cesare Lombroso. Nella sua opera principale, “L’Uomo Delinquente”, Lombroso distinse diversi tipi di criminali: il delinquente nato, nel quale si assommano le ricordate anomalie regressive e per il quale la criminalità è insita nella propria natura, e che è considerato soggetto non recuperabile, da sopprimere o da rinchiudere, in nome del diritto della difesa della società che in questi casi si sostituisce al diritto di punizione.
La quintessenza di questa teoria, quale egli la ha esposta e modificata, è che una certa percentuale di criminali, dal 35 al 40% sono nati con disposizioni criminali e che in essi si possono constatare caratteristiche anatomiche e fisiologiche particolari”.
Ricostruzioni smentite nei decenni successivi, ma Pavone sottolinea più avanti: ”Il Lombroso usò proprio la fisiognomica, scienza antica che aveva sempre nutrito l’arte ed il mito, per mettere in rilievo la diversità di chi era stato già dichiarato reo, per catalogare le stigmate della diversità colpevole, per certificare scientificamente le differenze.
La dottrina lombrosiana attualmente è stata relegata allo stato di mito e può essere messa, senza esitazioni, assieme a quelle dei suoi precursori, nell’archivio stesso della criminologia.
E’ oggi facile deridere il Lombroso con il suo “uomo delinquente” degenerato – naso schiacciato, barba rada, cranio deforme – benché lo stesso studioso, negli anni successivi, ridusse progressivamente il ruolo che il “delinquente nato” identificabile in presenza di almeno cinque anomalie fisiche aveva avuto nella sua versione originaria.
La fisiognomica, che ebbe quindi nel Lombroso il suo principale assertore, sembrerebbe anch’essa avere fatto il suo corso.
Nondimeno va ricordato che la scuola di criminologia che ebbe origine dalla dottrina del Lombroso, prese il nome di Scuola Positiva, per dare importanza alla propria adesione ai metodi sperimentale ed induttivo, quali quelli utilizzati nelle scienze naturali e sociali, contro quelli del ragionamento giuridico e deduttivo”.
Insomma, certi semi hanno comunque fruttato una progressiva crescita della criminologia ed è interessante, come ricorda l’autore, che certe tracce restino ancora nel settore penitenziario.
Così osserva Pavone: ”Come ogni indagine scientifica, anche l’indagine criminologica è soggetta al circolo di teoria ed empiria, per cui le teorie vanno dimostrate empiricamente e viceversa. Inoltre, essa non può che restare alla superficie di una dimensione scientificamente irraggiungibile, un fondo oscuro dell’Io, je grazie al quale ciascuno è libero e dunque suscettibile di imputazione morale e giuridica. Questo fondo dell’Io è da sempre oggetto e soggetto della ricerca filosofica”.
E la genetica chissà quali strade aprirà e Lombroso, che studiò con vivida curiosità darwinismo, spiritismo, psicoanalisi, ne sarebbe interessatissimo.

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