October 2010

La fine di un legame

Il classico cappello da alpinoNon so francamente quanti siano, tolti quelli "storici" che operano in Valle, gli alpini valdostani in servizio nell’Esercito ormai professionale con la fine della leva obbligatoria dal 1° gennaio del 2005.
Immagino che siano rimasti pochi e questo porterà nel tempo alla lenta e ineluttabile scomparsa, per esaurimento dei suoi membri, di quel collante sul nostro territorio che sono le sezioni dell'ANA (Associazione Nazionale Alpini).
D'altra parte nessuna reale misura vera è stata assunta in questi anni per incentivare i giovani delle Regioni alpine ad alimentare le truppe alpine, che sono composte ormai a larghissima maggioranza da giovani provenienti dal Sud, che in prevalenza scelgono di entrare nelle Forze Armate alla ricerca di un posto di lavoro stabile. Per quanto possa essere efficace la formazione militare, questo significa non avere più persone nate e cresciute in montagna, che non è per nulla un elemento banale.
Cosa avrebbe potuto spingere alcuni giovani valdostani ad abbracciare per qualche tempo della loro vita la carriera militare negli alpini? Io direi che sarebbe stata decisiva una qual certa garanzia di essere stanziale, resa possibile evitando il "giro d’Italia" dei singoli militari e delle loro famiglie per percorsi formativi e scatti di carriera, che nulla ha a che fare con l’obbligo di partecipazione alle sempre più numerose missioni estere. Aggiungerei l'esistenza di "passerelle" fra la vita militare e la vita civile con punteggi veri per concorsi pubblici e possibilità, durante il servizio, di acquisire competenze tecniche certificate e titoli di studio spendibili altrove.
La fine della "naia" e l'assenza di queste misure attrattive, per una visione burocratica e anche per periodiche antipatie verso le truppe alpine di qualche generale (sconfitto dall'esigenza di avere truppe di montagna negli scenari di guerra internazionali), stanno dunque sancendo la fine di una lunga storia di legame fra alpini e quelle zone alpine che hanno da sempre costituito la base di questo "corpo".

Il dovere di ricordare

Un'immagine di Pollein dopo l'alluvione dell'ottobre del 2000L'alluvione di dieci anni fa è, nel ricordo, un incubo. E lo stesso ricordo è come i cerchi nell'acqua causati da un sasso gettato in uno stagno. Esiste un primo livello degli affetti: i miei bambini erano piccoli e la frazione di Saint-Vincent dove abitavo, come in centinaia di altri casi, era in parte minacciata da una frana e i torrenti pacifici diventavano minacciosi.
Vi era un senso di paura e di impotenza.
Il secondo cerchio era il paese intero con diversi punti critici e la mappa dei danni, poi vi erano i paesi viciniori con amicizie e conoscenze che accentuavano la preoccupazione e infine, in un crescendo, l'intera Valle con situazioni drammatiche che creavano una cappa di angoscia e di pietas.
Allora la Protezione civile all'aeroporto era davvero il luogo fisico dove si concentravano le molte difficoltà e si coglieva tutta l'apprensione di quei momenti fra strade distrutte, ferrovia squassata, luce e telefoni saltati e via di questo passo sino ai lutti, fatti di tristi vicende umane.
L'acqua era la nemica.
Il mio dovere era, come deputato e parlamentare europeo, quello di essere presente qui ma anche e forse soprattutto essere incisivo a Roma e a Bruxelles. Il duplice impegno che in quel momento particolare del mio mandato politico mi obbligava infatti a rappresentare con forza le necessità e le misure da assumere nell'emergenza e poi nella fase della ricostruzione e penso di averlo fatto con il massimo impegno. Tutto il lavoro era reso complicato dalla difficoltà di collegamenti da e per la Valle d'Aosta e era reso più forte dalla partecipazione emotiva e dal dolore per gli scenari tremendi di distruzione che vedevo nelle visite a diversi paesi e nell'incontro con le persone tristi, disperate, preoccupate. Ma la speranza derivava dalla consapevolezza sprigionata dalla reazione corale, dalla volontà di aiuto reciproco, dal senso di comunità contro le avversità di una catastrofe.
Tutto questo resta scolpito nella mente di chi ha vissuto quei giorni e deve restare patrimonio della nostra memoria collettiva.

L'incredibile tunnel

Operai al lavoro nel tunnel di base del San GottardoIl tunnel ferroviario di base e ad alta velocità del Saint-Gothard aprirà, essendo realisti, non prima del 2018 ma in queste ore - con grande risonanza internazionale - cadrà l'ultimo diaframma a quindici anni di distanza dalla decisione politica definitiva per la sua costruzione. Con i suoi 57 chilometri di lunghezza sarà questo il traforo ferroviario bitubo più lungo del mondo (e direi anche più caro, avvicinandosi ai sei miliardi e mezzo di euro di costo) e rientra nel progetto svizzero noto come «nouvelles lignes ferroviaires à travers les Alpes» (NLFA). Ho visitato due volte il cantiere e vi assicuro che le condizioni di scavo somigliavano ad una versione moderna dell'inferno dantesco!
Questo tunnel servirà, nelle intenzioni, a spostare una grande quantità di merci che oggi viaggiano sui Tir verso il trasporto ferroviario, anche se gli svizzeri - che con quest'opera hanno posto una forte centralità nel ruolo del trasporto merci - attendono con angoscia che questo traforo, connesso con il già aperto tunnel di base del Lötschberg, abbia le necessarie connessioni con i sistemi ferroviari italiano e tedesco, altrimenti potrebbe rischiare il flop.
Certo è che gli svizzeri hanno "bruciato" tutti i competitor: il nuovo tunnel ferroviario del Brennero e la "Torino - Lione", che arrancano soprattutto per la crisi finanziaria che colpisce gli Stati e nel caso della Val di Susa per la forte opposizione di parte della popolazione locale.
Eppure il treno è importante, per quanto alla fine le previsioni di aumento mostruoso del transito di camion attraverso le Alpi non siano risultate veritiere, perché bisognerà evitare che la forza della modalità di trasporto su gomma (il camion resterà comunque importante) finisca per trasformare queste nuove direttrici in trasporto di soli passeggeri se certi obblighi non saranno sanciti, ad esempio con la fiscalità.
Anche la Valle d'Aosta, dove i Tir sono scesi a livelli bassi, ha interesse di tenere basso il quantitativo di camion che attraversano la Valle. In altro modo il nuovo Gottardo ferroviario si lega alla nostra Valle: credo improbabile che le autorità elvetiche possano seriamente interessarsi, per valutarne la fattibilità, al traforo ferroviario "Aosta - Martigny" prima dell'apertura all'esercizio, prevista fra otto anni, di questo nuovo tunnel.

Patti chiari, amicizia lunga

Il ministro Andrea Ronchi durante la sua visita ad AostaAvevo capito, temo però che faccia parte della "vulgata" sulla mia presunzione, che il Governo Berlusconi fosse un "Governo amico". Termine ambiguo, anche nella percezione popolare, perché «chi trova un amico trova un tesoro». ma anche «dagli amici mi guardi Iddio, ché dai nemici mi guardo io».
Un'amicizia frutto anche di un feeling elettorale, prima per le elezioni europeee (purtroppo senza eletto) e poi per le elezioni comunali di Aosta (mi pare che per l'UV in termini di rappresentanza e di voti non sia stato uno sfracello), ma anche di un atteggiamento sempre più friendly ("amichevole" in inglese ma suona bene) degli eletti del PdL in Consiglio regionale presenti in importanti incontri a Roma con la Regione, accompagnanti il Presidente alla festa del loro partito a Torino, in prima fila in occasione della visita del Ministro delle Politiche comunitarie Andrea Ronchi (io che mi occupo d'Europa, con un ruolo interessante, non sono stato invitato, ma non lo sono stati - a consolazione - neppure i parlamentari valdostani).
Mi si dice che, però, l'attenzione è massima: tipo le norme d'attuazione "sbloccate" o l'acquisto futuro di "Deval", osservo sommessamente che - se esiste un contro assieme a questi pro - importanti richieste giacciono inevase tipo l'intesa sulle modifiche dello Statuto o, peggio ancora, la manovra estiva e quella varata ieri rappresentano una batosta per l'Autonomia e il federalismo fiscale, come dicono tutte le Autonomie speciali, configura un duro attacco all'Autonomia finanziaria.
Probabilmente sono io che mi sbaglio, forse - come dicono certi "amici" - obnubilato da chissà quali pregiudizi e dal rosicare di non avere ruoli di rilievo, ma il vantaggio in questa storia è quello che il tempo è galantuomo e svelerà, alla fine, chi aveva ragione e torto.
Prontissimo a ricredermi.

Dietro l'album dei ricordi

Fénis dopo l'alluvione del 2000Una delle testimoni del filmato dedicato all'alluvione del 2000, in onda su "Rai3" negli spazi di "RaiVdA" martedì 19 e mercoledì 20 poco dopo il telegiornale della Valle, dice una cosa intelligente: «chi non ha vissuto quei momenti sembra non capire».
Altri intervistati, campione di quei sentimenti che il ricordo innesca, tornano sul tema con dichiarazioni complementari, la cui logica è così riassumibile: «quando la ferita si rimargina e i ricordi si affievoliscono, la vigilanza cala».
Per altro è giusto che non si possa vivere con eccessiva apprensione (confesso che ho trovato il titolo dell'insieme delle manifestazioni "Vallalluvione" piuttosto ansiogeno), ma bisogna avere conoscenza dei rischi come componente della nostra vita su questo nostro territorio.
Questa premessa va tenuta da conto nel "punto e a capo" caratteristico di un anniversario, perché altrimenti non si focalizzano alcune questioni fondamentali a beneficio di chi non c'era, di chi non ricorda, di chi si è dimenticato. 
Ne vorrei proporre quattro. 
La prima questione è che il rischio grava sempre e mai si potrà azzerare il rischio nel rapporto con la montagna che incombe.
La seconda è che esistono forme costose di prevenzione, come le infrastrutture di contenimento e questi investimenti pesano in epoca di finanza pubblica in crisi.
Aggiungerei - e siamo al terzo punto - che va compresa la pianificazione del territorio, che potrà apparire dirigistica ma è necessaria.
La quarta e ultima questione è che la protezione civile è ciascuno di noi e personalmente vorrei, come cittadino, sapere sempre meglio il mio da farsi in caso di emergenza.

"Mani pulite"

Mani pulitePerché si sceglie di far politica?
Dopo tanti anni di lavoro in questo ambiente, penso di aver conosciuto centinaia e centinaia di politici, dal vertice alla base, in circostanze, luoghi e livelli istituzionali diversi.
Una casistica variegata che consente di dire che non esiste una risposta, ma ci sono tante risposte alla domanda iniziale. Nel mio caso, pur con una serie di circostanze favorevoli, sono entrato in politica in modo pressoché casuale senza mai pensare ad una "carriera" così lunga e varia. Sono stato fortunato, ma ho cercato di ripagare la buona sorte con un impegno personale.
In fin dei conti, mi trovo a dire che - una precondizione che precede ogni logica di schieramento - dovrebbe essere per il cittadino una pretesa: l'onestà personale.
So che farò sorridere perché certe parole, come appunto "onestà", sembrano datate e quasi stucchevoli, perché spesso abusate da chi è... disonesto.
Mi vien da ridere per una specie di commedia degli equivoci di qualche giorno fa. Un vecchio amico in vena di consigli per il mio futuro spara una frase del tipo: «tu, in quel mondo lì sei troppo onesto». Sbianco e reagisco goffamente a difesa di alcuni valori. Lui, in replica, precisa imbarazzato: «non volevo dire che devi essere proprio disonesto, ma dovresti essere più accomodante: il piacerino, la spintarella, il favore... Devi essere meno rigido!».
Prendo e porto a casa, restando convinto che l'onesto non è un fesso o una mosca bianca e che certamente chi fa politica deve cercare di risolvere problemi e situazioni per singoli e per la comunità.
Ma le mani, come da espressione resa celebre all'epoca di "Tangentopoli", devono restare pulite.

Caleidoscopio 19 ottobre

Uno scorcio dello studio radiofonico della Rai valdostana"Caleidoscopio" torna in onda il 19 ottobre, come ogni ogni martedì su "Radio1" negli spazi di Rai VdA verso le 12.34.
Christian Diémoz ci accompagnerà attraverso le interviste allo scrittore e giornalista Enrico Camanni sulle difficoltà di comunicare la montagna ed al questore di Aosta, Maurizio Celia, sulle frodi informatiche online.
Michela Ceccarelli approfondirà una pagina culturale legata al "Festival du Moyen Age" e la rubrica "Un libro, un disco" andrà alla scoperta di un volume "Edoardo Sanguineti: Un ammasso eterogeneo" di "Roger Sarteur editore". Autori: Roger Sarteur, Raffaella Ferrillo e Salvatore Grandone.
Tutto naturalmente è condito dagli opportuni brani musicali: buon ascolto!

Le parole della Merkel

Angela MerkelGli stranieri di provenienza extracomunitaria sono da noi oggi attorno al sei per cento e il dato è in crescita, come facilmente dimostrato dal loro tasso di natalità che incide poi sulla percentuale nelle classi d'età giovanili.
Questo sarà, come ho scritto tante volte, un tema cardine per gli anni a venire in Valle d'Aosta con problemi di convivenza, di comprensione reciproca, di rispetto culturale e - ecco la parolina più difficile - d'integrazione.
Il dibattito si è fatto caldo in Europa e i Paesi di area scandinava sono stati i primi, con diverse forme e pur nel rispetto di una vecchia politica d'accoglienza e di generosità nelle forme d'asilo, a pretendere che chi arriva conosca lingua e tradizioni del Paese ospitante e questa richiesta è realtà in grandi Paesi di tradizione colonialista come Francia e Inghilterra, specie per accedere alla cittadinanza.
Ieri il cancelliere tedesco Angela Merkel ha affermato che il modello multiculturale in Germania è «totalmente fallito». Secondo la Merkel «la Germania non ha mano d'opera qualificata e non può fare a meno degli immigrati, ma questi si devono integrare e devono adottare la cultura e i valori tedeschi», compreso imparare la lingua. Il cancelliere tedesco sostiene che «l'idea di vivere fianco a fianco in serenità» è fallita.
Parole come macigni su cui riflettere con serietà e la cui chiave di lettura sta precisamente nel rischio di scambiare i fondamentali principi di tutela delle differenze culturali e religiose con la nascita di "società separate", di cui anche in Valle registriamo qualche esempio nascente che va al di là della logica solidaristica e di mutuo soccorso che ovviamente cementa i legami fra connazionali. Questo è un argomento che va seguito per evitare un giorno di svegliarsi con seri problemi di rapporti in seno alla nostra società.

Elucubrazioni

Eccettuato il percorso politico di Silvio Berlusconi, che personalmente ritengo essere ormai avviato in una fase discendente, la grande novità emersa sulla scena della politica italiana, con lentezza ma con forte progressione negli ultimi vent’anni, è indubbiamente la Lega.
La premessa è ovvia: se Umberto Bossi non avesse mai incrociato sul suo cammino Bruno Salvadori e l'Union Valdôtaine, allora la Lega non sarebbe mai nata.
Circostanza incontestabile, così come è incontestabile il fatto che la Lega – sviluppatasi a cavallo fra le cosiddette Prima e Seconda Repubblica – abbia approfittato di uno spazio politico forte su temi identitari e localistici e anche del progressivo peggioramento delle leggi elettorali per le elezioni politiche, conquistando così – per un comitato disposto delle dei due fenomeni - ampie fette di consenso al Nord e, con le ultime regionali, si è espansa verso il Centro.

Cravatta, viva o morta?

Cravatte e camiciePer fortuna, nelle cene fra amici non si parla solo di politica. Quando capita per ovvie considerazioni, sono tentato di chiedere un "time out": un po' perché mi faccio prendere e rischio di diventare noioso e un po' perché l'argomento è appassionante, ma è salutare "staccare la spina".
Così l'altra sera si parlava della cravatta, curioso e storico orpello se ci si fa mente locale, astraendosi dalla ordinarietà della tradizione, che si pone come un caposaldo di una "mise" ordinata e da eleganza maschile secondo il galateo.
Alla mia epoca, alla Camera dei deputati giacca e cravatta erano, come in passato in Consiglio Valle, un obbligo protocollare, mentre al Parlamento europeo "liberi tutti" con look dei "nordici" che definire "casual" risulta un eufemismo e lo stesso vale al "Comitato delle Regioni".
L'assenza del vestito d'ordinanza e della cravatta, in tutte le assemblee politiche, gioca per le signore situazioni varie e spesso libertà di look che non tutte sanno interpretare con gusto.
Ma dicevamo della cravatta: io penso che, come già avviene in molti Paesi del mondo, pian pianino la cravatta - tranne che per grandi cerimonie - uscirà dall'uso quotidiano per una sorta di anacronismo insito in questo pezzo di tessuto annodato.
Da alcuni amici sono stato contestato: loro ritengono che la cravatta goda di ottima salute e grande reputazione e che io - capita! - non capisco nulla. Regalerò loro una cravatta per Natale...

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