Mio papà era un uomo che, per ragioni anagrafiche (era nato nel 1923), aveva attraversato - da un po' prima della sua metà - i grandi avvenimenti del Novecento.
Come tutta la sua generazione, si era trovato a vivere in un secolo breve per gli avvenimenti sincopati che lo hanno riempito e anche per l'accelerazione scientifica e tecnologica, di evoluzione della società e dei costumi, dei cambiamenti nell'economia che si sono affastellati con una corsa mai vista prima e che ha lasciato tutti i protagonisti, grandi o piccoli che fossero, con il fiato corto e con un certo smarrimento per un mondo profondamente mutato nel volgere di poco tempo.
La sua formazione di bambino e di ragazzo - penultimo di ben otto figli - culminò con gli anni ruggenti del fascismo, ma l'antidoto alla logica dei balilla e dei "Guf" (Gruppi universitari fascisti) era presente nell'ambiente familiare e nel milieu culturale di casa Caveri, dove si respirava l'antifascismo e una formazione liberale che veniva da nonno René e una educazione cattolica da nonna Clémentine. Basta guardare i libri della biblioteca di famiglia per vedere come, nella stratificazione degli intrecci parentali, l'imprinting culturale derivante dalle letture fosse vasto e articolato nelle diverse discipline umanistiche e scientifiche.
Tutto ciò, accanto al cosmopolitismo ben presente, era improntato alla più profonda adesione alla valdostanità: il francese era la lingua di casa e le amicizie espressione di quel gotha della bourgoisie aostana e del clero locale, fiammella minoritaria di una resistenza (i fratelli Severino ed Antonio furono fondatori della "Jeune Vallée d'Aoste") sfociata poi in Resistenza.
Sandrino - chiamato con un diminutivo per la piccola taglia, che celava in realtà una tempra di sportivo ben espressa in competizioni sciistiche di alto livello - viene imbevuto di questo spirito democratico e così accompagnò giovanissimo gli ebrei in Svizzera attraverso la conca di By, guadagnandosi - per il suo coraggio - un attestato della comunità ebraica di Torino.