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19 lug 2021

Il Calcio e il nazionalismo

di Luciano Caveri

Non seguo normalmente il Calcio e non lo faccio per snobismo, ma perché nel tempo mi sono disamorato di un mondo che non mi convince. Tuttavia solo un fesso si sarebbe disinteressato dalla partita agli Europei con l'Inghilterra, risultata vincente in un crescendo di emozioni. L'entusiasmo popolare ed il delirio mediatico penso che siano da ascrivere non solo al tifo calcistico. Conta anche il disagio vissuto nelle chiusure della pandemia e dunque alla necessità fisica e sociale di sfoghi ed una finalissima così era l'occasione giusta, che ha coinvolto anche chi del calcio se ne fa un baffo. Certi eccessivi entusiasmi, in un'epoca di "covid-19", purtroppo li pagheremo, ma questa è altra cosa. Per altro questo tifo che si tinge di nazionalismo non è una novità. Già in passato questo è avvenuto e basta guardare al legame fra il fascismo ed il calcio per capire come i miti sportivi abbiano funzioni identitarie e le grandi competizioni - soprattutto i Mondiali - pompino propaganda ed adrenalina.

Pier Paolo Pasolini così provocava con un'iperbole: «Il calcio è l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. E' rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l'unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro». Quel che conta è mantenere il buonsenso e sfuggire a quella retorica riversata a fiumi in queste ore. Si può passare con enorme facilità da un "patriottismo buono" ad un "nazionalismo becero", dalla valorizzazione della propria cultura al disprezzo di quella altrui. Il "nazionalismo cattivo" è un pozzo scuro fatto di pensieri di supremazia, di odio per gli altri, di chiusura e di sospetto. Mentre il "nazionalista buono" è un pacifico cittadino del mondo e soprattutto sa conciliare la propria appartenenza con una cittadinanza europea che superi egoismo e incomprensioni e sappia estendersi a valori universali. In una spirale tutto si trasforma con facilità in competizione, e la competizione in lotta, e la lotta in scontro e, alla fine, scorre il sangue e ci si divide, diventando tutti più deboli. Nel patriottismo si trova dunque un equilibrio che consente di ragionare senza competitività con gli altri che sfoci infine in violenza e bellicismo e la Storia insegna che passare dagli uni agli altri non è stato così inconsueto. Mio zio Séverin Caveri scriveva sul tema: «La conception nazionaliste porte fatalement à l'imperialisme et se compose de deux sentiments parallèles: la surestimation de la patrie et la dépréciation des autres patries. Cette distinction établie, nous affirmons que la divinité de l'Etat-Nation doit descendre dans le limbe des dieux feroce de la tribu». La logica era contrastare l'idea di una Valle d'Aosta che diventasse vittima di un nazionalismo "lillipuziano", al posto di un sano patriottismo nel quadrato di una visione europeista solida e senza dubbi: «Les intellectuels peuvent donc et doivent être le ciment de l'union des peuples de l'Europe: il doivent nourrir les consciences, il doivent répandre l'idée nouvelle de la Patrie européenne». Dimostrazione che non bisogna solo guardare al proprio orticello, evocando odio e rancore verso gli altri. Ha scritto l'etnologo Claude Lévi-Strauss: «Mais aucune culture n'est seule, elle est toujours donnée en coalition avec d'autres cultures, et c'est cela qui permet d'édifier des séries cumulatives. La chance qu'a une culture de totaliser cet ensemble complexe d'inventions de tous ordres que nous appelons une civilisation est fonction du nombre et de la diversité des cultures avec lesquelles elle participe à l'élaboration - le plus souvent involontaire - d'une commune stratégie». Per questo bisogna essere fieri di sé stessi e in contemporanea - come osservava l'antropologo francese - mai cedere alla facile e rassicurante idea dell'infruttuosa chiusura a riccio contenuta appunto nell'espressione «l'enfer, c'est les autres». Lévi-Strauss conclude in modo plastico: «L'exclusive fatalité, l'unique tare qui puissent affliger un groupe humain et l'empêcher de réaliser pleinement sa nature, c'est d'être seul». E il calcio ha qualche cosa di molto profondo. Mi viene in mente quel vecchio libro degli anni Settanta di Desmond Morris "La tribù del calcio", con cui l'etologo inglese, già autore del fondamentale libro sulla specie umana, "La scimmia nuda", inquadrò il calcio, i suoi simboli, i suoi riti, i giocatori (di cui, con evidente sberleffo, denuncia la generale pochezza intellettuale) e tutto l'entourage, comprese le "bande" di tifosi, in qualche cosa di atavico, risalente agli albori dell'umanità. Un libro decisivo, anche se all'epoca fu considerato bizzarro. In una sua intervista Morris, che oggi ha 93 anni, così si espresse: «Sì, verrà ripubblicato presto, ma non ho cambiato niente: sono diverse solo le foto, i tifosi, e le esultanze dei giocatori quando segnano. E' la semplicità del gioco del calcio che crea tutta questa dipendenza. Ci riporta al periodo in cui in piccole tribù andavamo a caccia di cibo: oggi ci sono i supermarket, non è più il cibo il nostro obiettivo ma è il gol, la rete rappresenta simbolicamente il nostro traguardo esistenziale. Ma se la squadra che scende in campo è quella della Nazionale, allora il significato per noi è ancora più eccitante». Esattamente...